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Autore: Ship_COFFE_Bar    18/07/2014    6 recensioni
Astenersi deboli di stomaco.
Dalla storia:
Alice fissava truce la sua immagine allo specchio, una mano che teneva sollevata la frangia di capelli scuri. Lì, proprio al centro della fronte, fra le bellissime sopracciglia perfettamente curate e arcuate, si trovava l’intruso.
(...)
Un piccolo e innocuo brufolo
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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   Trypophobia
 
 
Alice fissava truce la sua immagine allo specchio, una mano che teneva sollevata la frangia di capelli scuri. Lì, proprio al centro della fronte, fra le bellissime sopracciglia perfettamente curate e arcuate, si trovava l’intruso.
La ragazza sfiorò con il polpastrello la piccola protuberanza, sporgendo il labbro inferiore in un segno di sconforto.
Un piccolo e innocuo brufolo. 
Ma perché proprio a lei? Premette più forte, sentendo sotto la superficie della pelle come una sfera, dura, probabilmente era la capsula. 
“Dio, che schifo” lasciò che la frangia le ricadesse sulla fronte, e con un sospiro finì di lavarsi il viso, fermandosi a rimirarne gli zigomi affilati al punto giusto, il nasino appena ricoperto da quasi invisibili lentiggini, dritto e leggermente all’insù, gli occhi blu bordati da lunghe ciglia nere.
Si spazzolò i capelli, ringraziando la parrucchiera che aveva insistito tanto per farle la frangia, così non si sarebbe dovuta preoccupare di quell’allarmante foruncolo.
Almeno fino a quando qualcuno  non avesse sbirciato sotto la tendina di capelli che le copriva la fronte,  ma dubitava che qualcuno avrebbe potuto. E perché, poi?
“Occhio non vede, cuore non duole” si disse, infilando la sua maglietta preferita, mentre scendeva per fare colazione.
Si fermò davanti al frigorifero, prendendo con delicatezza il piccolo post-it verde fluorescente, sorridendogli come ad un vecchio amico. La scrittura frenetica e tuttavia elegante di sua madre recitava: 
“Sono dovuta correre a lavoro. Il toast è nel microonde. Buona giornata”  seguito da uno smile.
Alice riattaccò il foglietto al frigo, aprendo lo sportello del microonde e afferrando il panino incartato, addentandone un lato con calma, mentre tirava fuori il cellulare dalla tasca, scorrendo fra i contatti e leggendo i vari messaggi.
Mugolò, quando una fitta di dolore la costrinse a chiudere gli occhi. Si passò la mano sulla fonte del dolore, sentendo ancora quell’orribile protuberanza sotto i polpastrelli.
-Bleah-  richiuse il toast nel microonde, la fame che gli era passata d’un colpo. Cos’era stato? Le era sembrato che un ago le si fosse conficcato nella carne, e nel frattempo, qualcosa sotto la pelle si fosse agitato.
Scosse la testa imponendosi di non pensarci, guardò l’ora, doveva sbrigarsi per prendere il bus.
Finì di vestirsi, prendendo anche una felpa pesante, dato che era ottobre e il vento scuoteva le cime degli alberi con violenza, facendo turbinare le foglie rosse in tanti tornado cremisi.
Alice  adorava quello spettacolo, e in generale l’autunno, con i suoi colori caldi; ma non come quelli dell’estate, più austeri, più veri.
Scese in strada, arrivando con passo costante alla fermata del bus, dove l’attendeva un’ agitata Penelope. Si passava le mani fra i capelli biondi, masticando furiosamente la sua big babool, che ogni tanto gonfiava in bolle rosa e zuccherose.
La ragazza sospirò, avvicinandosi all’amica, che si rese conto solo in quel momento della sua presenza. Le rivolse un sorriso sincero, smettendo per un attimo di massacrare la gomma da masticare.
-Ti verrà una carie, a furia di mangiare quelle schifezze- l’ammonì bonariamente, vedendola arrossire per l’imbarazzo.
-Sì, hai… hai perfettamente ragione- annuì la bionda, attorcigliandosi una ciocca di capelli intorno all’indice, e fissando nervosa la strada.
Alice stette per qualche secondo in silenzio, fingendo di ignorare il nervosismo dell’amica, sapendo che presto si sarebbe rivelata lei stessa. L’auto bus arrivò con un minuto di ritardo, giallo sgargiante come sempre.
L’autista le salutò con un cenno, le mani ancorate al volante e due occhiaie da far paura. Alice lo osservò, annotando tutti i particolari nella sua mente.
-Alice, smettila!- le sussurrò quando si furono sedute Penelope, la mora si voltò lentamente verso l’amica, sinceramente confusa. 
-Smettila di fissarlo- specificò l’altra, volgendo gli occhi al cielo, o meglio, al tettuccio dell’auto bus. Alice si appiattì contro il sedile, incassando il colpo e arrossendo. Alice di difetti ne aveva pochi, fra quelli,  il capire le persone con un attento e minuzioso sguardo, era quello più fastidioso.
L’auto bus si riempì pian piano, e sempre più studenti salirono a bordo.  Ad Alice ricordavano i topi su una nave che affonda, senza un preciso perché.
-Ahy!- si morse con forza il labbro, avvicinando nuovamente la mano alla fronte, mentre Penelope la guardava preoccupata.
-Qualcosa non và?- pigolò, vedendo Alice massaggiarsi con discrezione la fronte, proprio in mezzo alle sopracciglia. La mora scosse la testa, stirando le labbra rosee in un sorriso.
-No, solo un po’ di mal di testa- rise, passando una mano dietro al collo, gesto che la fece rimanere pietrificata. L’espressione le si congelò sul viso, come una maschera, mentre muoveva freneticamente la mano sul retro del collo, per accertarsi di quello che aveva sentito.
-Alice?- gocce di sudore freddo le colavano lungo la schiena, facendola rabbrividire.  All’attaccatura dei capelli,  semi nascosta, una piccola protuberanza si prestava alle sue dita.
“Oh, ma che diavolo?!” 
-Alice, cos’hai, mi stai facendo paura- si risvegliò dallo stato di trance, sentendo le parole dell’amica richiamarla come dal fondo di un tunnel.
Sbatte le palpebre più volte, togliendo di scatto la mano dal collo, e sorridendo di nuovo, questa volta con meno convinzione.
-Nulla, te l’ho detto! Sono stanca, tutto qui- Penelope si morse il labbro, annuendo lentamente, tornando poi a masticare freneticamente la gomma da masticare.
-Mi vuoi dire piuttosto, cos’hai tu?- le poggiò una mano sulla spalla, sentendola rabbrividire. Alice si fermò a guardare la pelle di Penelope, corrucciando leggermente le sopracciglia. Ci avrebbe messo la mano sul fuoco, non c’era nemmeno il segno di un’imperfezione su di lei, ne era più che sicura.
L’amica la guardò titubante, -In effetti … c’è una cosa che volevo- l’autobus si fermò davanti alla scuola, e subito, una mandria di studenti svogliati si avviarono fuori dal mezzo, ammassandosi davanti ai portoni aperti della scuola.
-Dai, sbrighiamoci- la interruppe Alice, prendendola per un polso e trascinandola con sé. Entrarono a scuola, correndo per i corridoi alla ricerca della loro classe. Arrivarono prima degli altri studenti, e Alice sospirò, accasciandosi su un banco, abbandonando la borsa a terra.
-Allora, che dovevi dirmi?- chiese, scostandosi i capelli da davanti agli occhi, spostatisi nella corsa, urtando distrattamente il brufolo.
“No, basta. Arrivata a casa ci metterò su una crema” risoluta, si volse verso l’amica, nel banco accanto.
Penelope aveva incassato la testa fra le spalle, sputato la big babool in un fazzolettino, rinchiuso nello zainetto. Teneva la testa bassa, gli occhi fissi sul banco. In pratica, aveva preso il suo solito atteggiamento passivo - scolastico.
-Niente. Ignora quel che ho detto-
Alice guardò l’amica, ma per una volta, non riuscì a capirne nulla.
 
                                                      °°°
La lezione era stata noiosa come sempre. Il prof aveva stancamente illustrato il processo di fioritura di alcuni fiori, le sembrava si trattasse della ninfea, ma non ne era più che certa.
Le parole dell’amica cercavano di farsi spazio nella sua mente, strenuamente fronteggiate dal disagio che le creavano quei brufoli.
Il ricordo della sensazione di quelle piccole sfere sotto la sua pelle le faceva venire il voltastomaco. Tuttavia, le parole di Penelope strepitavano nella sua mente per farsi sentire.
“Cosa intendeva dire?” guardò di sottecchi l’amica nel banco accanto, che rispondeva alle domande del professore, le labbra piccole e rosa che si muovevano al ritmo delle parole e i capelli biondi spettinati.
La conosceva da anni, mai le era capitato che Penelope le nascondesse qualcosa. Che il loro rapporto si stesse sgretolando?
Scosse violentemente la testa, scacciando il pensiero dalla testa. La campanella decretò l’intervallo, e i ragazzi si alzarono, iniziando a parlare concitatamente fra loro.
Alice si alzò velocemente, cercando di raggiungere l’amica, ma quella fu più veloce a scappare fuori dalla classe. Rimase interdetta, fino a quando Cristina le si piazzò davanti, le mani impuntate sui fianchi e i capelli tinti di rosso legati in una stravagante treccia.
-Alice! Come và?- la mora alzò un sopracciglio, in tutti quegli anni non si erano nemmeno mai guardate, lei e quella smorfiosa, cosa voleva adesso?
-Bene- replicò fredda, scansandola per raggiungere Penelope.
Cristina la bloccò di nuovo  -Aspetta! Ti dovrei parlare- concluse, piegandosi verso di lei con tono confidenziale. Alice lanciò alternativamente uno sguardo alla porta e alla rossa davanti a sé, sospirando sconsolata.
-D’accordo- disse appoggiandosi al calorifero lì vicino, lasciando che il calore le scaldasse le mani fino a farle bruciare. Cristina le si accomodò accanto, guardandola fisso.
-Cosa vuoi dirmi?- fece sbrigativa, corrucciando le sopracciglia.
Cristina guardò il banco di Alice… no, guardava quello di Penelope. La mora incrociò le braccia al petto, aspettando che Cristina parlasse. Non dovette attendere molto.
-Ma tu e Penny state sempre insieme?- Alice si sentì bruciare qualcosa dentro, sentendola utilizzare il nomignolo che aveva inventato per l’amica.
-Sì- Cristina annuì  -E non hai mai notato nulla di strano?- Alice si ritrasse, deglutendo confusa. -No, perché?- chiese difensiva, allertando la rossa, che sollevò le mani in segno di resa.
-No, sai, è per le voci che ci sono in giro- mormorò, guardandola come se si trovasse davanti ad una bestia pericolosa che stesse per divorarla.
-Quali voci?- Alice si sentiva più confusa di prima, e come se non bastasse, la fronte e il retro del collo avevano preso a pulsargli dolorosamente, sempre più forte.
Socchiuse le palpebre, sentendo i battiti accelerati del proprio cuore nelle orecchie.
 –Ma sì, quelle che dicono che tu e Penelope siete … lesbiche- concluse alzando le spalle. Poi la guardò preoccupata,                      -Ehy, ti senti bene? Non hai una bella cera- Alice scosse la testa, sentendo un dolore sempre più forte alla fronte, 
-Vado un attimo in bagno- si giustificò, correndo via dalla classe. Possibile non si fosse mai accorta di quello che le persone dicevano di loro? Lesbiche? Ma che follia era?
Arrivò al bagno delle ragazze, fiondandocisi dentro, si ancorò al lavandino, ansimante. Mugolò, alzandosi la frangia e guardandosi la fronte. La protuberanza era diventata violacea, e si era gonfiata ancora di più. Le venne un conato di vomito, e spalancò la porta di un bagno, chiudendosi dentro e appoggiando la schiena contro una parete di metallo, cercando di calmarsi e riordinare le idee. Cosa stava succedendo? Si lasciò scivolare a terra, accucciandosi sul pavimento sporco, incominciando a singhiozzare. 
“Penelope, dove sei finita?” 
 
                                                        °°°
 
Penelope era andata a casa prima, si era sentita poco bene durante la mattinata, poco dopo l’intervallo.
“Cazzate” Alice avanzava di gran passo verso casa sua, decisa a dormire tutto il resto del giorno; si sentiva completamente a pezzi, spossata e distrutta.
Aprì la porta di casa, gettando la borsa sul divano e correndo di sopra, il post-it era sempre lì, silente, sul freddo metallo del frigorifero.
Arrivata in camera sua, si stese sul letto, guardando stanca il cellulare, sua madre non sarebbe tornata nemmeno quella sera, perfetto, avrebbe potuto fare quello che voleva.
Chiuse gli occhi, abbandonandosi completamente ad un sonno lungo e profondo, senza sogni.
 
                                                           °°°
Si svegliò per il prurito. Sentiva un fortissimo prurito e la faccia completamente intorpidita, la bocca impastata, le sembrava di avere mangiato colla.
Si alzò, avanzando stancamente verso il bagno, accendendo la luce automaticamente e posizionandosi davanti allo specchio.
Il suo cuore perse un battito.
“Mio Dio” Lei non ci credeva nemmeno, in Dio. Ma in quel momento, avrebbe pregato anche un cane per strada di risparmiarle tutto quello.
“Un incubo, Alice. Solo un incubo” la sua faccia, era letteralmente ricoperta da quei bubboni violacei, sembravano sul punto di scoppiare, e sopra, la membrana di pelle che li ricopriva, era sottile e squamata.
Deglutendo saliva appiccicosa, sollevo la frangia, poggiando le dita su quello che poche ore prima sembrava un innocuo e fastidioso foruncolo. Al suo posto, una piccola conca bucava la pelle, lasciando intravedere il rosso infiammato della carne e nel mezzo, una piccola sfera violacea. La pelle intorno era letteralmente strappata, e pendeva in lembi grigi. Si sfiorò il resto del viso, vedendo che la pelle si staccava con altrettanta facilità.
Sollevò le braccia, e le si presentò uno spettacolo ancora diverso e grottesco.
Quelle che dovevano essere le sue braccia, erano solo due involucri vuoti, giallastri e ruvidi al tatto, ricoperte di buchi dentro cui si poteva guardare attraverso. I muscoli e le ossa sembravano essere spariti nel nulla. Le mani, invece, erano intatte.
Alice contrasse i muscoli della schiena, sentendo una fitta di dolore.  No, non voleva vedere come era conciata lì.
Si allontanò dallo specchio, tremando, e dopo pochi secondi di calma piatta, iniziò ad urlare. Urlò e urlò, lacerando la pelle e mettendo in mostra nuovi baccelli violacei, che avevano preso a pulsare in sincrono con i battiti accelerati del cuore della ragazza.
“Perché? Perché a me?” corse fuori dal bagno, percorse le scale di corsa, arrivando in cucina. Tremava, e per lo sforzo e lo shock rigettò sul pavimento della cucina.
Si aggrappò al ripiano della cucina, ansimando e piangendo, aprì tutti i cassetti, fino a che non trovò quello che cercava.
Afferrò il manico in legno del coltello, fermandosi a rimirarne la lama alla luce elettrica della cucina. 
Rise, piano, sentendo i pezzi della sua mente che si sgretolavano piano piano, come la sua pelle. Si rigirò l’arma fra le mani, puntandola verso il petto.
Affondò con forza il coltello nella carne, sentendo la lama entrare con un “plof” umido e disgustoso, ma che la fece emettere una risata. Rantolò, dalla sua bocca uscì un fiotto di sangue, cadde a terra, rimanendo immobile, mentre sotto di lei si formava un lago di sangue. Lo osservò. Era stato contaminato anche lui, il colore rosso delle foglie d’autunno che tanto amava, era diventato nero, come una cascata di petrolio.
Con gli occhi che si appannavano e le orecchie che iniziavano già a perdere l’udito, un suono riuscì a riportarla per poco alla realtà.
Una chiamata sul telefono di casa. “Chi sarà?” pensò leggermente divertita. Partì la segreteria automatica, e la voce di Penelope le fece sgranare gli occhi. 
-Alice? Ecco, scusa il disturbo. Quando avrai finito di ascoltarmi mi odierai, lo so. Ma te lo devo dire, altrimenti… non ce la faccio. Tu mi piaci, Alice, mi piaci sul serio… magari lo troverai disgustoso ma… ok, basta, non fa niente. Dimentica ciò che ti ho detto. Solo… puoi tenere presente che io… ti amo?- Penelope… non era  mai stata brava a fare le dichiarazioni. Eppure  Alice non sapeva cosa avrebbe dato per ascoltare ancora la sua voce. Solo un’ ultima volta.
Prima che gli occhi le si chiudessero per l’ultima volta, scorse sul tavolo qualcosa che prima non c’era. Un vaso di fiori. Le riconobbe come ninfee, non ancora del tutto sbocciate, solo dei gambi con tanti piccoli buchi ripieni di baccelli.
“Sto sbocciando, Penelope. Come la ninfee”
  
                                 °°°
L’ispettrice Hudson fissava il cadavere della ragazza, scuotendo la testa greve. 
“Era così giovane” pensò, prima di incamminarsi verso la madre della ragazza, in lacrime. Il cadavere era completamente pulito, si era pugnalata da sola, sul corpo nessun segno di lotta, nessuna contusione, niente, solo il buco lasciato dal coltello con cui si era suicidata.
Una volta finito di parlare con la donna, si incamminò verso la macchina. Si lasciò andare sul sedile, guardando distrattamente lo specchietto retrovisore. Si raddrizzò, osservando la propria fronte.
“Oh! E tu da dove spunti?”
Lì, proprio al centro della fronte, fra le sopracciglia perfettamente curate e arcuate, si trovava l’intruso.
Un piccolo e innocuo brufolo.
 
 
 
 
 
Angolo autrice;
Ehm…sì…rieccomi. Questa…roba, è nata da una foto (fake) diventata virale su face book, che mi è malauguratamente capitato di guardare. E soffrendo io della stessa fobia che da il nome alla storia, la cosa mi ha dato alquanto fastidio. Comunque, la Trypophobia è la paura dei buchi. No, non sto scherzando, e credetemi, non è una cosa stupida come sembra. Alla fine la storia non è nemmeno tanto horror, ma…be’, giudicate voi.        
Un saluto, Im a Murder girl
  
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