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Autore: Erinys    18/07/2014    1 recensioni
Sono passati sei mesi dalla morte di Sherlock, e John Watson non riesce ancora ad accettarla. Sente di non avere più un motivo per vivere, sente di essere rimasto fermo al giorno del suicidio, finché, una sera, non gli torna alla mente il più strano dei casi che Sherlock non era riuscito a risolvere: "L'uomo con la cabina blu".
"John non faceva altro da mesi, ormai: i suoi occhi erano sempre puntati verso il cielo, a scrutarlo, pronti a catturarne ogni movimento, ogni cambiamento. Perché Sherlock gli aveva detto di fare questo prima di andarsene, gli aveva semplicemente detto di guardare il cielo; nessuna spiegazione, nessun addio, niente di niente, soltanto “guarda il cielo”. E John lo aveva fatto quel giorno, quello della sua morte, dopo essere tornato a casa, ma non ci aveva trovato niente; solo qualche nuvola carica di pioggia, ad annunciare l’avvento di una tipica giornata uggiosa londinese. Nonostante questo, continuava imperterrito a scrutare la volta celeste, nella speranza che un giorno vi fosse stato qualcosa anche per lui, qualsiasi cosa."
Superwholock!crossover
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Lestrade, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Una mini-long dedicata a tutti coloro che amano i fandom di Sherlock, Supernatural e Doctor Who.
Buona lettura!







Look at the sky, I’ll always be there










Correva, da quanto tempo ormai non lo sapeva più. John Watson sapeva di dover raggiungere la trincea il prima possibile, sapeva di dover mettersi al riparo, o di doverci provare almeno. Le sue gambe cominciavano a intorpidirsi e sentiva che non fosse più il suo cervello a farle muovere, come se adesso fosse un meccanismo a comandarle: l’istinto di sopravvivenza.
Improvvisamente un’ esplosione più forte delle altre lo fece cadere, facendogli sbattere la testa. Le sue mani corsero subito a coprirsela, attento a tappare anche le orecchie, che gli pulsavano dolorosamente per il boato provocato dalla bomba. Pensò che dovesse essersi trattato di un colpo estremamente ravvicinato, e tentò così di alzare leggermente il capo, giusto per controllare che fosse ancora vivo e che non fosse stato, invece, lui a essere stato colpito. Qualche metro più in là, decine di uomini erano rimasti a terra, alcuni agonizzanti, altri già cadaveri; John avrebbe voluto alzarsi, correre in loro soccorso, ma il suo istinto gli diceva di non farlo, di correre via, di mettersi in salvo, ché quelle bombe non avrebbero risparmiato nemmeno lui.
Facendo forza sui palmi, si rimise in piedi e riprese la sua corsa disperata. Dopo qualche metro e un tempo che a John sembrò interminabile, giunse finalmente presso la trincea. Si fermò di colpo e un rantolo basso gli uscì dalla bocca. Sentiva di non farcela più; sarebbe bastata una semplice parola d’ordine, una stupida password per entrare, per assaporare quantomeno la sensazione di essere salvo, ma le parole non uscivano.
E poi uno sparo. Veloce, preciso, dritto alla spalla del soldato, che cadde a terra, svenuto.
 
Lo scenario cambiò.
 
Correva, di nuovo, ma adesso si trovava a Londra, a giudicare dalle costruzioni che lo circondavano.
Correva più veloce che poteva, stavolta con un nuovo obiettivo a guidarlo: Sherlock, devo salvare Sherlock. Le sue gambe si muovevano nella direzione del Barts, spintonando le persone che lo intralciavano. Raggiunse velocemente la rampa di scale che portavano al tetto: troppi scalini, maledizione!
Cominciò a salirli, prima a uno a uno, poi due, tre alla volta, finché non raggiunse la porta grigia che dava sull’esterno. La aprì sbattendola e subito il suo sguardo corse in cerca di Sherlock: era lì, sopra al cornicione, pronto a buttarsi.
«Sherlock. »
Fu soltanto un mormorio, sufficiente però a farsi sentire dal detective, che si voltò verso di lui.
«John. »
Il blogger gli andò incontro, camminando stavolta, come se avesse dovuto far piano per non provocare alcuna reazione incontrollata. Gli arrivò vicinissimo, tanto che, se avesse voluto, avrebbe potuto toccarlo, e lo guardò negli occhi. Avrebbe voluto chiedergli perché; una domanda chiara, semplice, che non avrebbe potuto assolutamente essere fraintesa da nessuno, eppure non ci riusciva. Sentiva il terrore rompere i saldi cardini della sua anima di soldato, tenendolo fermo, immobile, lontano dall’afferrare Sherlock e dal portarlo in salvo, lontano dal porgli quella stupidissima domanda: perché? In cuor suo John sentiva di non volere realmente una risposta da parte di Sherlock, perché quasi sicuramente gli avrebbe mentito, portandosi nella tomba la reale motivazione di quel gesto tanto folle e scellerato.
«John, ascoltami- il blogger si riscosse da quella sorta di trans, nella quale la paura lo aveva incoscientemente indotto, e posò nuovamente i suoi occhi blu scuro in quelli chiari e cangianti di Sherlock-Guarda il cielo, John. Guarda sempre il cielo: è là che mi troverai. »
Il detective si diede, allora, una piccola spinta, sbilanciando il suo baricentro verso il vuoto. John colmò con un balzo la distanza che lo separava da lui, tentando di afferrare la sua mano, ma riuscendo a sfiorarla soltanto. Vide l’altro cominciare a precipitare, il suo corpo che scompariva dietro al cornicione, velocemente. Troppo velocemente.
«Sherlock! » gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, come se soltanto pronunciare il suo nome avesse potuto riportarlo indietro.
Avvertì un tonfo e si sporse di sotto quel tanto che bastava per riuscire a vedere il marciapiede sotto di sé: il corpo di Sherlock giaceva immobile in una pozza di sangue. 
 

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John sedeva sulla solita poltrona in pelle color beige, le gambe accavallate –rigorosamente quella destra sopra la sinistra- e la mani congiunte in grembo. Il suo capo era leggermente voltato verso la porta-finestra dello studio, per permettere al suo sguardo di vagare libero da quella stanza così buia e soffocante. Pioveva quel giorno, pioveva molto intensamente, e John osservava ogni singola goccia che cadesse dal cielo, come se avesse dovuto trovarvi qualcosa nel mezzo; tendeva le orecchie, affinando il più possibile il suo udito, quasi si aspettasse un sussurro da quelle gocce; allungava le dita, sperando di poterle catturare a una a una, come se fosse stato il loro legittimo proprietario e cercasse adesso di riprendersele tutte, prima che il cielo gliele strappasse via di nuovo.
John non faceva altro da mesi, ormai: i suoi occhi erano sempre puntati verso il cielo, a scrutarlo, pronti a catturarne ogni movimento, ogni cambiamento. Perché Sherlock gli aveva detto di fare questo prima di andarsene, gli aveva semplicemente detto di guardare il cielo; nessuna spiegazione, nessun addio, niente di niente, soltanto “guarda il cielo”. E John lo aveva fatto quel giorno, quello della sua morte, dopo essere tornato a casa, ma non ci aveva trovato niente; solo qualche nuvola carica di pioggia, ad annunciare l’avvento di una tipica giornata uggiosa londinese. Nonostante questo, continuava imperterrito a scrutare la volta celeste, nella speranza che un giorno vi fosse stato qualcosa anche per lui, qualsiasi cosa.
«Continua ad avere sempre gli stessi due incubi? » chiese improvvisamente l’analista.
L’ex soldato si riscosse e abbandonò quella sua disperata ricerca, per tonare nuovamente con lo sguardo puntato verso la donna che aveva di fronte. Annuì, senza dire una parola.
«Prende ancora le pillole che le avevo somministrato? » domandò ancora l’analista.
John scosse la testa. Aveva provato a prenderle per un paio di settimane, ma sembravano non sortire l’effetto sperato: l’insonnia continuava a tormentarlo ugualmente, e anche quando riusciva a dormire c’erano quegli incubi, sempre gli stessi due, che, come un disco rotto, continuavano a ripetersi all’infinito, prima uno e poi l’altro. Non c’era pace per la sua povera anima, né per le sue membra stanche, sfinite: quelli che erano brutti pensieri di giorno si tramutavamo in incubi di notte; tutto ciò che c’era stato di più doloroso e orrido nella sua vita lo tormentava, adesso, a qualsiasi ora, in qualsiasi luogo si trovasse, qualunque cosa stesse facendo.
Si sentiva in trappola John Watson, condannato a scontare la sua pena in un cella costituita dai pesanti ricordi che si portava appresso, e non c’erano sconti per buona condotta in quella prigione, ne era consapevole.
«Perché, John? »
«Mi stordiscono e basta. »
L’ex soldato avvertì chiaramente l’analista sbuffare, mentre si appuntava qualcosa su quel suo blocco che era solita tenere tra le mani durante le sedute. Dio, John avrebbe pagato tutto l’oro del mondo per poterglielo stracciare in mille pezzi! Non sopportava che quella donna dovesse appuntarsi ogni sua singola parola o ogni suo singolo gesto: lo metteva profondamente a disagio, lo faceva sentire un caso clinico di prima categoria, di quelli per i quali gli scienziati fanno a gara per poterli studiare per primi, per poter estirparne ogni singolo segreto dell’essenza e rimaneggiarne a loro piacimento la sostanza.
«Deve prenderle di nuovo. »
Un’affermazione secca, dura, che non ammetteva repliche. John si sentì colpito in pieno petto e tutta la bile, che da tempo cercava di reprimere, cominciò a salirgli dallo stomaco, percorrendo tutto l’esofago, pronta a esplodere, nera, carica di rabbia, colma di odio verso il mondo e verso la sua maledettissima vita di soldato e di uomo solo.
«Perché diamine dovrei farlo, eh?! Non mi hanno fatto niente prima; che cosa dovrebbe essere cambiato adesso?! » gridò con tutto il fiato che aveva in gola, il volto livido e le mani strette in due pugni dalle nocche bianche.
L’analista non si scompose, limitandosi semplicemente ad appuntare quell’inaspettata reazione rabbiosa e in fondo disperata sul blocchetto. John respirava affannosamente, le orecchie gli fischiavano per la tensione e il cuore batteva incontrollato contro il petto, quasi dolorosamente. Non riusciva a pensare con tutta quell’adrenalina in circolo, non riusciva a razionalizzare tutta quella rabbia per poterla richiudere in quell’angolo nascosto della sua mente, dove era solito tenerla. Si fece quasi paura da solo: il suo rigore di soldato crollato in un attimo per un semplice frase… Quanto ira doveva esserci nel suo corpo per scattare così, come una molla?
Non lo sapeva neanche lui, in verità. Sapeva soltanto di dover uscire al più presto da quello studio e di dover prendere aria per calmarsi e tornare a essere il solito John Watson, l’uomo pacato, rispettoso e razionale che tutti conoscevano. Facendosi forza con le mani sui braccioli della poltrona, si sollevò, attento a non forzare la gamba destra, che era tornata a dolergli come prima, e afferrò il bastone per appoggiarvisi; senza dire un’altra parola, si incamminò verso la porta, pronto a fuggire via.
«Vada pure, se vuole, John. Ma si domandi- proruppe l’analista; John aveva già posato la mano sulla maniglia dorata-: è questo che Sherlock vorrebbe che lei facesse? »
Sul volto del blogger, girato di spalle, si dipinse un ghigno amaro e poi scoppiò in una tetra risata.
«Certo che no! Sherlock mi avrebbe sicuramente consigliato di mandarla al diavolo prima di andarmene! »
 
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John stava seduto in soggiorno, come ogni sera, al suo solito posto; con una mano reggeva una vaschetta di fish and chips – una cenetta da quattro soldi presa al take away vicino casa- e con l’altra il telecomando. Erano cinque minuti buoni che faceva zapping da un canale all’altro, senza trovare niente di decente, finché non decise di arrendersi, imbattendosi in uno dei tanti telegiornali britannici. Erano secoli che non ne guardava uno, pensò: prima perché con Sherlock non ne aveva bisogno, dato che, con Scotland Yard da una parte e Mycroft dall’altra, era sempre informato su tutti i fatti- probabilmente prima ancora delle agenzie di stampa internazionali-, e poi perché, dopo la morte del detective, non gliene era fregato più niente di quello che stava succedendo intorno a lui.
Le notizie gli scorrevano davanti veloci: casi diplomatici, scandali politici, crisi economica, omicidi, rapimenti, rapine, scoperte scientifiche, gastronomia… John guardava fisso lo schermo della televisione, senza vederlo realmente; il suo sguardo andava oltre quelle immagini e la sua mente correva altrove.
Guarda, guarda: il mondo sta continuando a girare, John.
All’ex soldato sembrava di essere rimasto indietro, o meglio era rimasto indietro, fermo al giorno della morte di Sherlock. Quando aveva visto il corpo del suo migliore amico privo di vita sul marciapiede, il piccolo pianeta di John aveva smesso di ruotare, il tempo di scorrere e lui di vivere. Sì, perché John Watson aveva avuto due vite: la prima era cominciata con la sua venuta al mondo ed era finita con il congedo dall’esercito; la seconda era cominciata con la conoscenza di Sherlock Holmes ed era finita con la sua morte. Sherlock gli aveva donato una seconda esistenza, dandogli la possibilità di diventare prima il suo coinquilino, poi il suo assistente e infine il suo migliore amico, finché non gliela aveva strappata via in un modo tanto crudele quanto sciocco, stupido, folle. Il detective era stato prima il suo salvatore e poi il suo carnefice. Forse ancora non era sicuro, ma sospettava che, qualora se lo fosse trovato davanti, in un ipotetico aldilà, gli avrebbe gridato contro, lo avrebbe offeso pesantemente e lo avrebbe picchiato a sangue. Eppure. C’era anche quell’”eppure”, al quale John non sapeva dare una spiegazione, qualcosa che gli rodeva dentro, qualcosa che lo portava a cancellare dalla sua testa tutte le cose brutte che avrebbe voluto fare al detective, qualcosa che non aveva mai provato in nessuna delle sue due vite. Gratitudine? Stima? Affetto? No, quelli John sapeva riconoscerli. No, quel qualcosa era diverso.
Il blogger scosse la testa, ridestandosi dai suoi pensieri, spense la tv e poggiò a terra i resti del fish and chips. I suoi occhi caddero sulla poltrona vuota e fredda di Sherlock, abbandonata anche lei alla sua solitudine, e poi al violino: John aveva dovuto insistere a lungo con Mycroft perché rimanesse lì, a Baker Street. Di tanto in tanto, quando non riusciva a dormire, scendeva in soggiorno, lo prendeva tra le mani e provava a suonarlo, ovviamente senza successo; anche il detective lo faceva: quando John aveva degli incubi e non riusciva a riposare, gli suonava qualche melodia per calmarlo, e funzionava davvero.
Lo sguardo di John continuò a vagare per la stanza: libri, fascicoli, fogli sparsi qua e là, provette… Aveva lasciato tutto come era prima, nonostante Mrs. Hudson gli avesse più volte proposto di riporre le cose di Sherlock e di rimettere un po’ in ordine l’appartamento. Ma no, a John piaceva così: disordinato, confusionario e complesso, proprio come era il suo coinquilino, ma non solo: Sherlock era geniale, un genialità che spesso disturbava chi gli stava intorno, inducendolo a chiamarlo mostro, stupido, idiota… Ma John non era mai stato tra questi; lui aveva da subito saputo apprezzare quella mente così geniale,  ricoperta da strati e strati di inettitudine e anticonformismo, che caratterizzavano il detective. Il medico non aveva mai provato invidia nei suoi confronti, perché sapeva che in fondo, nonostante il suo straordinario intelletto e il suo smisurato ego, Sherlock aveva bisogno di lui, ché era la sua luce che lo guidava nei momenti bui, come gli aveva fatto intendere quella volta a Baskerville. E poi John aveva saputo vedere qualcosa che gli altri non avevano saputo evidentemente cogliere: la sua umanità. Sherlock era dannatamente umano, così pieno di timore e incertezza, così spaventato da tutto ciò che potesse danneggiare il suo genio, così terrorizzato dai sentimenti e dal contatto con le altre persone. In fondo, che cosa c’è di più umano di questo?
Osservò la bacheca dove Sherlock appuntava tutto ciò che potesse essergli utile durante la risoluzione dei suoi casi: una cartina di Londra faceva da fondo, scarabocchiata di pennarello rosso, mentre foto e piccoli appunti erano stati attaccati sopra, in disordine. John si alzò, facendo perno sul ginocchio sano, e con il suo bastone si avvicinò. Erano tutti casi risolti, constatò, tutti tranne uno, che lui aveva intitolato “L’uomo con la cabina blu”.


 
La porta dell’appartamento si aprì con un tonfo e Sherlock piombò nella stanza, visibilmente agitato.
«Non c’è niente, John! Nessuno sa niente! Perfino Mycroft non ha avuto niente da dire sull’argomento! » esclamò, cominciando a camminare nervosamente avanti e indietro davanti alla poltrona di John.
«Magari non ti ha detto niente perché non poteva » disse piano il blogger, con il chiaro intento di calmare Sherlock per poter tornare a leggere in pace il suo giornale.
«Non essere stupido, John! Se mio fratello avesse davvero saputo o avesse intuito qualcosa, me lo avrebbe sicuramente spiattellato davanti agli occhi per farmi fare la figura dell’idiota!- sbottò, andandosi a gettare di peso sulla sua poltrona nera- Questo è il caso più difficile che abbia mai seguito, perfino più complicato di Moriarty! »
Nel sentire pronunciare quel nome, John chiuse definitivamente il quotidiano e se lo poggiò sulle gambe, poi puntò gli occhi sul detective, che sembrava, però, troppo concentrato nell’osservare da lontano la bacheca dei suoi appunti appesa al muro.
«Non dovresti nominarlo con tutta questa leggerezza » disse serio il medico. La voce gli era uscita più bassa di quanto volesse.
Sherlock si voltò, guardandolo con aria interrogativa.
«E perché mai? »
«Perché ha promesso di eliminarti, santo cielo! » gridò livido John.
Il suo coinquilino abbassò lo sguardo e corrugò la fronte, e John poté giurare di aver intravisto un lieve velo di tristezza attraversare il suo volto, ma durò soltanto un istante, perché Sherlock si era già alzato nuovamente in piedi e precipitato davanti alla bacheca.
«Rifletti, John! Un uomo compare nel pieno centro di Londra con una cabina blu della polizia, una vecchio stile; le telecamere lo riprendono, gli scattano delle foto, e un momento dopo l’uomo scompare di nuovo con la sua cabina. Poi ricompare due giorni dopo, sempre nello stesso punto; appare e scompare. Nessuno lo ha visto, nessuno sa chi sia- Sherlock si interruppe bruscamente-  Riappare ancora una settimana dopo, stesso posto, stessa ora, stesse cose, ma stavolta lascia un messaggio: questo! » il detective strappò dalla bacheca un foglio, mostrandolo a John. La scritta sopra recitava “quindici gennaio” e vi era anche una firma, più in basso: “il Dottore”. Il blogger strinse gli occhi e sospirò sconfitto: Sherlock stava dando troppa importanza a quella faccenda, che sicuramente era soltanto uno scherzo pianificato da qualche scansafatiche.
«Che cosa significa, John? Che cosa?! » esclamò ancora Sherlock, tornando poi a sedersi sulla sua poltrona.
Unì i palmi delle mani poggiandovi sopra il volto, nella sua consueta posa di riflessione. John lo scrutò per qualche secondo. Come faceva a pensare a una cosa stupida come quella, quando James Moriarty, la mente criminale più brillante dell’intero pianeta, aveva promesso di ucciderlo?
«Penso che significhi che dovresti lasciar perdere questa buffonata dell’uomo con la cabina e che dovresti, invece, concentrarti su quel bastardo di Moriarty” mormorò il blogger.
Sherlock, che aveva socchiuso gli occhi, ne riaprì uno, lo osservò per qualche istante e poi lo richiuse. Un ghigno andò a illuminargli il volto.
«Tu non capisci, John. »
 
 
Un’espressione amara contorse il volto di John. Già, lui non capiva, non aveva mai capito niente e mai avrebbe potuto sperare di capire qualcosa, pensò, altrimenti non sarebbe mai entrato nell’esercito, non si sarebbe mai fatto sparare in Afghanistan e non sarebbe mai diventato né il coinquilino, né l’assistente, né il migliore amico di Sherlock Holmes.
 
 
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John girò un’altra volta la chiave nella serratura, per poi estrarla e metterla nella tasca del suo giacchetto. Anche per oggi aveva finito di lavorare. Trenta pazienti, trenta! Non aveva neanche pranzato per poterli visitare tutti e aveva comunque fatto tardi, quella sera. Si incamminò verso Baker Street, dato che non distava così tanto da dover prendere un taxi o la metropolitana. Le strade erano deserte.
John sentiva l’aria fredda di dicembre pungergli le guance e ghiacciargli il naso, mentre i suoi respiri diventano fumo davanti alla bocca. Faceva fatica a camminare con la gamba destra, ma voleva godersi un po’ del panorama invernale londinese. E poi quel mattino aveva nevicato, e John amava la neve: faceva sembrare tutto più surreale, trasformava le gioie in tiepidi attimi di felicità e i dolori in piccoli dispiaceri; il mondo imbiancato faceva meno paura, perché tutto era ovattato, tutto era smorzato e più lontano. L’ex soldato si sentiva sollevato in mezzo a tutto quel candore, quasi tranquillo.
Raggiunse il portone di casa e mise nuovamente la mano sinistra nella tasca per cercare la chiave, senza riuscire, però, a trovarla. Imprecando, continuò a frugare, sperando di recuperarla il prima possibile e di non averla lasciata in ambulatorio: a John piaceva molto la neve, vero, ma faceva anche molto freddo fuori.
Dopo un paio di minuti, si accorse di avere un buco nella fodera della tasca e che la chiave si era infilata proprio là dentro. Cercando di mantenere la calma, tentò di far entrare l’indice della mano nel buco e di recuperare così la chiave –e, per quanto possibile, di non strappare definitivamente il giacchetto-.
Proprio mentre stava per afferrarla, però, avvertì un rumore provenire dalla sua destra, ma non vi diede peso.
Finalmente riuscì a tirare fuori la chiave, pronto a infilarla nella serratura e ad andare a scaldarsi nel suo appartamento, ma quel rumore tornò nuovamente a farsi sentire, ancora più vicino di prima. Sembrava una sorta di fruscìo, come di… dissolvenza, pensò. Incuriosito, John si voltò, allora, verso quello strambo suono e ciò che vide lo lasciò di stucco: in fondo a Baker Street, una cabina blu della polizia si stagliava sopra la neve bianca, rivolta verso di lui.
«Sherlock, guarda » sussurrò senza pensare, per accorgersi un momento dopo che Sherlock non poteva sentirlo.
John continuò a scrutarla sbalordito per un paio di minuti buoni, finché non vide la porta aprirsi e un uomo fare capolino. Il medico strizzò gli occhi più che poté per riuscire a vederlo nel modo migliore possibile: capelli castani e vestiario elegante, fu tutto quello che riuscì a catturare di quel tizio, che, non appena lo vide, balzò nuovamente dentro la cabina.
«Ehi, aspetta!- gli gridò John- Voglio parlarti un attimo! Aspetta! »
Ma vedendo che quell’uomo non accennava a uscire, il blogger si incamminò verso quella stramba cabina. Doveva assolutamente parlarci, chiedergli spiegazioni e soprattutto domandargli chi fosse, dato che aveva firmato il foglio, appeso sulla bacheca da Sherlock, soltanto con “il dottore”. Dottore chi?
E poi a un tratto, mentre John cercava di raggiungerla camminando velocemente, per quanto la sua gamba glielo permettesse, la cabina blu cominciò a emettere di nuovo quel fruscìo di poco prima e, con immensa sorpresa del blogger, iniziò lentamente a dissolversi, fino a quando, nel giro di un paio di secondi, non scomparve nel niente.
John rimase smarrito a osservare il punto nel quale, fino a qualche istante prima, si trovava quella cabina- cabina? Era così che doveva continuarla a chiamare? Perché le cabine non scompaiono nel nulla. Non riusciva a capire, non poteva essere successo davvero! Probabilmente, si disse, è tutta un’allucinazione: magari era svenuto o in coma per essere scivolato accidentalmente sul ghiaccio mentre tornava a casa…
Quello che aveva appena visto era impossibile, inverosimile, assurdo, e come diceva Sherlock: “Una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità.” Quindi, sì, era senz’altro in coma in ospedale in quel momento, e tutto ciò che aveva visto si trovava soltanto nella sua testa.
Improvvisamente, Mrs. Hudson spalancò il portone del 221B- allora, evidentemente,non era in coma-, chiamandolo a gran voce, e il medico, ancora completamente disorientato, le andò incontro, entrando in casa.
«John, caro, va tutto bene? Ho sentito un urlo prima… » gli domandò preoccupata Mrs. Hudson, vedendo la sua espressione spaesata.
«Certo, certo… Lei non ha visto niente? Non ha visto quella cabina blu in fondo alla strada? E’ comparsa e poi è scomparsa nel nulla! E’ semplicemente- John s’interruppe bruscamente, vedendo l’espressione confusa dipinta sul volto della padrona di casa. Ovviamente no, non aveva visto niente- Nulla, lasci perdere. »
Sconfitto e perplesso, salì le scale senza salutare Mrs. Hudson, che gli stava facendo, per l’appunto, notare la sua mancanza di gentilezza nei suoi stessi confronti, ed entrò nel suo appartamento, sbattendosi la porta alle spalle. Subito si precipitò davanti alla bacheca di Sherlock e strappò una delle foto che ritraeva quel misterioso tizio: era lui. Stessi abiti, stessi capelli, stessa cabina blu. Con la fotografia in mano, il blogger andò a sedersi sulla sua poltrona, continuando a scrutarla, nella vana speranza di ricavarne qualcosa.
Tentò perfino di mettersi nei panni di Sherlock, di immaginare che cosa avrebbe fatto al suo posto, ma il ricordo del detective che, alle prese con lo stesso caso, quasi un anno prima, non riusciva a capirci niente, lo prese in contropiede, abbattendolo definitivamente.
E così, John, senza neanche aver cenato, decise di andare a dormire, ché magari, quella notte, anziché vedere il suo migliore amico suicidarsi sul tetto del Barts, sarebbe riuscito a salvarlo e a fargli qualche domanda riguardo l’uomo con la cabina blu.  
   
 
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