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Autore: PapySanzo89    18/07/2014    5 recensioni
John Watson è sempre stato un ragazzo votato all'avventura e all'adrenalina, un ragazzo non di certo litigioso che però quando c'era bisogno di menar le mani (soprattutto in aiuto della sorella) non si tirava indietro, un ragazzo curioso del mondo e voglioso di conoscere nuovi posti, nuovi Paesi, nuove culture e di aiutare gli altri per quanto gli fosse possibile. Un ragazzo comunque non irreprensibile (le sue cazzate le aveva fatte, come ogni buon adolescente convinto di avere il mondo in pugno e di passarla liscia per il resto della vita) e che tentava di godersi il momento il più possibile, gestendosi tra studio e uscite al pub con gli amici il sabato sera.
Questo era stato John Watson in gioventù e con questa carica John Watson era diventato un uomo partendo per la guerra.
La fortuna gli aveva arriso.
NOTE: Fanfic composta da tre capitoli già scritti
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buongiorno/buonasera e rieccomi! XD
Mi sembra di non postare qualcosa da una vita. Questa fic giaceva nel mio pc da giorni e giorni perché doveva essere postata proprio oggi. E perché direte voi (o forse anche no)? E io vi risponderò che oggi è il compleanno di ermete! Quindi fatele anche voi tanti auguri! :D

La fic doveva essere una one shot, ma sono arrivata a scrivere 47 pagine e ho avuto pietà di voi spezzandola in tre capitoli! (Quindi non vi preoccupate, sono già tutti scritti e ce li ho tutti qui sotto mano! XD) non è una storia piena di colpi di scena e, anzi, è stata scritta per essere tranquilla e per essere rilassante e spero che il mio rilassante non sia per voi un noioso. Comunque sia, io mi sono divertita a scriverla, spero voi vi divertirete a leggerla! XD

 

Beta: Yoko Hogawa che mi ha fatto uno i complimenti più belli ricevuti ultimamente e ringrazio anche infinitamente Hotaru_Tomoe che mi ha dato preziosi consigli (e grazie al Cielo mi ha fatto evitare strafalcioni enormi) e un’idea niente male per una certa parte *__*

 

Altri ringraziamenti sono dovuti, ma li metterò alla fine di tutta la storia!

I hope you enjoy!

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Primo:

L’arrivo

 

 

 

John Watson è sempre stato un ragazzo votato all'avventura e all'adrenalina, un ragazzo non di certo litigioso che però quando c'era bisogno di menar le mani (soprattutto in aiuto della sorella) non si tirava indietro, un ragazzo curioso del mondo e voglioso di conoscere nuovi posti, nuovi Paesi, nuove culture e di aiutare gli altri per quanto gli fosse possibile. Un ragazzo comunque non irreprensibile (le sue cazzate le aveva fatte, come ogni buon adolescente convinto di avere il mondo in pugno e di passarla liscia per il resto della vita) e che tentava di godersi il momento il più possibile, gestendosi tra studio e uscite al pub con gli amici il sabato sera.

Questo era stato John Watson in gioventù e con questa carica John Watson era diventato un uomo partendo per la guerra.

La fortuna gli aveva arriso.

 

John Watson ora è un uomo di trentaquattro anni, capitano del suo reggimento e con una carriera brillante alle spalle che non può far altro che continuare a brillare. È orgoglioso del suo operato, è contento di avercela fatta semplicemente con le proprie forze e l'adrenalina che lo ha sempre accompagnato in gioventù continua a scorrergli nelle vene. Ma sei mesi di missione in Afghanistan farebbero crollare i nervi a chiunque e lui non fa eccezione. È cambiato rispetto a quindici anni prima - quanto si è iscritto al registri militari e da lì ha deciso di continuare la sua carriera - il che sarebbe ovvio per chiunque, ma ha visto molto più di quanto avrebbe voluto vedere ed ha assistito a cose alla quale non avrebbe mai voluto assistere e, quindi, una parte di lui è andata perdendosi in quel posto assolato che gli ha bruciato la pelle e preso molti compagni e amici.

Ora John è un uomo un po' più disilluso, un po' più ferito e un po' più schifato di quando è partito, ha molte più cicatrici di quante se ne era immaginate prima di andarsene e ha bisogno di un posto tranquillo dove passare il proprio ritorno in patria. Il che esclude casa dei genitori o della sorella e in generale tutta Londra, troppo rumorosa e caotica per i suoi gusti, ormai. Quindi, quando i suoi mesi di istanza in Afghanistan finiscono, affitta uno chalet in montagna a più o meno dieci chilometri dalla prima cittadina, dove nessuno lo potrà disturbare.

 

Lo chalet è decisamente meglio di quanto si era aspettato dalle foto e dalla descrizione del Tenente Stamford. Costruito su due piani indipendenti, ha ampie finestre che si affacciano sul panorama verdeggiante; al piano di sopra un balcone grande almeno quanto metà della sua camera a Londra e una canna fumaria che fa intendere che all'interno ci sia un caminetto, in più una rimessa fa bella mostra di sé di fianco all’abitazione.

Si è fatto il tragitto dal paese alla baita a piedi (giusto per memorizzare bene la strada e perché lui un mezzo per arrivare fin lassù non ce l'ha e non voleva scomodare nessuno) portando con sé solo una borsa da viaggio con il minimo indispensabile e la chiave dell'appartamento di sopra che la signora Hudson - la padrona di casa che abita in paese - gli ha dato assieme a un sacchetto per il pranzo, probabilmente preoccupata che morisse di fame in quel breve tragitto.

Aveva affittato l'appartamento sopra perché affittare l'intera baita gli era sembrato un eccessivo ed incredibile spreco di soldi e perché si sentiva rassicurato dai posti alti: si poteva osservare meglio, avere una visuale più ampia, e le abitudini acquisite in anni e anni di servizio erano dure da mandar via.

Appoggia la sacca a terra e si mette le mani sui fianchi, prendendo un profondo respiro e godendosi l'aria pulita di alta montagna e i suoni rilassanti della natura che...

«E lei chi sarebbe?»

John apre gli occhi di scatto e li punta sull'uomo che sta uscendo dallo chalet con addosso quello che sembra un camice da laboratorio, una provetta in mano che non promette nulla di buono e dei capelli ricci sconclusionati che non sembrano avere una forma ben definita; ma quello a cui John fa davvero caso è che non ha minimamente sentito la sua presenza nell'abitazione, e dubita che un uomo che sta sbraitando in quella maniera e si sta avvicinando con quel passo pesante fosse totalmente immobile in casa da non aver sentito il minimo rumore.

«Prego?» si limita a dire, guardando l'uomo che gli si è fermato a qualche metro di distanza e lo sta ora osservando dall'alto in basso, alzando un sopracciglio con fare quasi disgustato.

«Le ho chiesto chi è.» sputa fuori, senza rabbonire il tono di voce e continuando a guardarlo con astio.

John lo guarda di rimando e la sua faccia si fa seccata. Non è abituato a farsi parlare così da chicchessia, figuriamoci da un estraneo.

«John Watson. E lei sarebbe?»

«L'uomo che ha affittato l'intera baita per sei mesi, quindi vorrei non trovare seccatori qui in giro.»

l'uomo dai capelli neri dà un'occhiata alla borsa appoggiata a terra vicino a John e poi torna con gli occhi gelidi sul proprietario di quest'ultima.

«Oh no, non credo proprio.»

John continua a guardarlo e a non seguire il suo discorso.

«Mi vedo costretto a ripetermi ed è una cosa che non sopporto: ho detto che ho affittato l'intera baita per sei mesi. E con questo intendo l'appartamento sopra e quello sotto. Non intendo ricevere ospiti o coinquilini. Quindi lei dev'essersi sbagliato. Buon rientro al paesino. A mai più rivederci.» detto questo lo strano uomo gira sui tacchi e fa per tornare in casa quando John si schiarisce la gola e allora quello si volta, alquanto seccato oltretutto.

«Ho firmato un regolare contratto con la signora Hudson per l'affitto dell'appartamento al piano di sopra. E mi ha dato questa...» dice tirando fuori dalla tasca un oggetto in ferro «…la chiave dell’appartamento. Quindi vede, mio caro signor Nessuno, io non ho la ben che minima intenzione di andarmene di qui prima di aver passato i miei otto mesi di congedo in questo posto. Soprattutto dopo aver sborsato una cifra del genere. Mi sono spiegato?»

L'uomo fa una faccia indignata e alza entrambe le sopracciglia, assottigliando lo sguardo.

«Questo lo vedremo.» minaccia solo, prima di tornare - e questa volta senza nessun impedimento vocale - nell'appartamento al piano terra.

John sbuffa fuori tutta l'aria, sospira pesantemente e poi maledice tutto ciò che gli viene in mente al momento, per prima cosa l'uomo che se n'è appena andato.

Voleva una vacanza tranquilla, maledizione, e se proprio doveva avere dei vicini - cosa di cui aveva tenuto conto - sperava fossero vicini tranquilli, possibilmente senza figli e poco rumorosi, o due anziani in pensione dediti alla pesca, o - insomma! - qualcuno di totalmente diverso dalla persona arrogante e spocchiosa che ha appena visto.

Riprende il borsone da terra e si avvicina allo chalet con passo lento. Tutta la tranquillità ritrovata facendosi quei dieci chilometri a piedi nella natura incontaminata erano andati a farsi fottere da nemmeno cinque minuti con quello che sembrava essere il vicino peggiore del mondo.

 

Passa una minima parte della mattina a sistemare le sue poche cose e il restante tempo ad ambientarsi nel suo appartamento. La camera è una semplice singola con un normale letto a una piazza e mezza (gli sembra semplicemente enorme rispetto al posto in cui ha dormito ultimamente) comunicante con il bagno che non è minimamente piccolo come se l'era aspettato. Al contrario della camera singola, il soggiorno è qualcosa d'immenso, separato dal cucinino con un semplice muretto in pietra, facendo sembrare così il posto ancora più grande. E poi il caminetto c’è davvero, solo che - a giudicare dalla quantità di fuliggine presente - non riesce a capire se sia utilizzabile o se deve appena mettersi a pulirlo per potersene servire, anche se lo avrebbe pulito più che volentieri per vedere il fuoco scoppiettare lì dentro nelle fredde sere di gennaio.

Si avvicina per dare per bene un'occhiata e fissa la canna fumaria, decidendo che se poteva andare incontro ad una guerra, una canna fumaria non doveva poi essere un'impresa così pericolosa.

 

Qualche ora, tre telefonate alla padrona di casa che gli dà del pazzo e gli detta il numero degli spazzacamini e molta fuliggine dopo, John decide che è proprio il caso di farsi una doccia e lasciare stare il caminetto, almeno per adesso.

Sporco come la pece, decide di rimuovere prima i teloni da terra per non doversi sporcare nuovamente ritirandoli su e, arrotolatili tra di loro, si avvicina alla porta d'uscita e spinge la maniglia con il gomito, aprendola poi di scatto e sentendo un brusco rumore accompagnare il cigolio dei cardini.

Quando John mette il naso fuori dall'uscio può notare il suo vicino piegato su se stesso mentre si tiene un ginocchio che pare essere dolorante e capisce di avergli sbattuto la porta addosso.

«Oddio, mi dispiace, non volevo. Mi scusi non credevo che lei fosse qui fuo---»

«Non volevo vicini!» urla lui, tirandosi dignitosamente in piedi e guardando davanti a sé con la faccia più irragionevolmente arrabbiata e offesa che John abbia mai visto in vita sua «E adesso credo sia chiaro il perc... ma che diavolo ha fatto?» e riesce a mantenere quella facciata seccata solo per quelli che paiono pochi secondi, dopo aver visto l'altro completamente sporco di fuliggine.

John si sposta dalla soglia e fa un cenno vago verso il caminetto. «Ho tentato di vincere la battaglia.» dice, voltandosi ad osservare il camino con sguardo truce. «Ma anche se questa volta ha vinto lui, la guerra la vincerò io.» torna a posare lo sguardo verso il suo vicino e fa un sorriso che, se si vedesse dall'esterno, oserebbe dire timido, per tentare un dialogo con quella persona che altro non ha fatto che dimostrarsi scortese.

L'uomo guarda verso il caminetto, scuote la testa, e poi torna a guardare verso John.

«Seriamente? Un soldato che fa delle battute sul vincere o perdere una guerra? Avete tutti questo senso dell'umorismo o devo ritenermi fortunato? Poi cos'è lei? Un idiota? Ci vogliono degli attrezzi specifici per pulire la canna di un caminetto, come pensava di fare? Con uno straccio e del sapone per il bagno?» l'uomo continua imperterrito a sferzare sarcasmo come se non riuscisse a comunicare in maniera differente e John, per averlo visto in totale forse dieci minuti, è seriamente tentato di farlo accidentalmente cadere dalle scale che si trovano esattamente dietro l'uomo. Forse è un segno divino.

«Sa, al momento dovrei farmi una doccia e non ho tempo da perdere. È venuto fin qui per dirmi qualcosa o possiamo interrompere questa deliziosa conversazione?» tanto vale ripagarlo con la stessa moneta.

L'uomo sbuffa fuori tutta l'aria che ha in corpo e batte ritmicamente il piede a terra come se non riuscisse a stare fermo.

«Ho sentito la signora Hudson». inizia, e John finalmente capisce dove vuole andare a parare.

«E...?» lo invita a proseguire, anche se la donna gli ha già dato tutte le risposte e il permesso di rimanere lì a totale discapito dell'altro.

«Ha detto che se ne deve andare.»

John scoppia a ridere. Non lo sa nemmeno lui il perché. Forse per la faccia mortalmente seria dell'altro o forse per il fatto che quell'uomo stia davvero provando il tutto per tutto per cacciarlo.

«L'ho sentita al telefono cinque minuti fa per il caminetto. Ha detto che non ci sono problemi se resto e che non capisce perché lei deve sempre affittare entrambi i piani se alla fine ne usa uno solo.» prima che l'uomo possa aprire bocca, John continua «Ha aggiunto anche che non sono affari che la riguardano, quelli di cosa lei faccia con un piano sfitto, ma siccome deve un favore al mio amico Stamford ha pensato bene che non ci sarebbero grossi problemi se per qualche mese dividessimo lo stesso ossigeno. Chiaramente le ridarà parte dell’affitto.»

John guarda la faccia dell'uomo rabbuiarsi ad ogni parola, finché l’altro non fa la sua proposta.

«Le ridò i soldi che ha pagato alla signora Hudson! Tutti! Fino all'ultima sterlina! Per tutti i mesi che ha pagato e aggiungo anche i soldi del treno e ogni mezzo che ha usato per arrivare fino a qui.»

John resta sorpreso dall'offerta e lo guarda come se avesse davanti un alieno. Non sa perché l'altro ci tenga così tanto a rimanere lì in completo isolamento, ma è il primo a non voler fare domande personali, soprattutto quando ci possono essere motivi seri dietro a tali richieste.

Sospira nuovamente ma non vuole cedere.

«Guardi: sono un vicino che rispetta la privacy delle persone. Se non vorrà vedermi per i restanti mesi, le assicuro che non mi vedrà, non scenderò a chiederle se per caso ha del sale da prestarmi e non la disturberò con rumori molesti. Sono venuto qui per rilassare i nervi ed è quello che intendo fare.»

L'uomo apre la bocca per ribattere ma poi la richiude, scuotendo la testa e abbassando il volto.

«Ne è sicuro?»

John annuisce. «Le do la mia parola! Signor...?»

L'altro fa uno strano sorriso. «Se non dobbiamo frequentarci non credo che il mio nome le sarebbe così tanto d'aiuto.»

John inclina la testa e la appoggia contro lo stipite, incrociando le braccia al petto, in attesa, sorridendo sornione. L'altro sembra cedere.

«Sherlock. Sherlock Holmes. Le stringerei la mano ma sinceramente non ho alcuna intenzione di sporcarmi. » dice, iniziando a sembrare quasi meno nervoso. John si apre in un sorriso più ampio e sincero.

«Beh, felice di aver fatto la sua conoscenza, Sherlock.» non dice nulla riguardo a quel nome particolare che non ha mai sentito e, beh, si adatta estremamente alla persona che ha davanti: non ha mai visto una persona simile prima d'ora. «Magari venga a salutarmi prima di andarsene.»

Sherlock fa un passo indietro ed annuisce, adesso sembra davvero più tranquillo e riesce addirittura a rispondere con un vago cenno di sorriso.

«Addio, John.» e detto questo si gira sui tacchi e torna al suo appartamento al piano di sotto.

John scuote la testa guardando la figura scendere le scale e poi fa per tornare dentro, quando si ricorda improvvisamente di un piccolo dettaglio: lui non ha detto a nessuno di essere un soldato.

Torna fuori e si sporge dalla balaustra. «Come faceva a sapere che sono...» riesce appena a sentire la porta al piano di sotto chiudersi «...un soldato?» continua con voce più fievole, consapevole di aver perso un'opportunità che non gli capiterà più.

Sospira, convincendosi che dev'essere stata la signora Hudson a dirglielo, e va finalmente ad aprire l'acqua nella doccia e a togliersi tutto quello sporco di dosso.

 

Le settimane passano e John fa davvero come ha promesso al suo vicino: lo lascia in pace. Scambia giusto qualche cenno di saluto quando lo vede fuori dalla porta di casa o lo incontra mentre sta facendo una passeggiata nei boschi. Nota comunque che non è un tipo molto dedito all'aria aperta e al sole - e la pelle estremamente chiara gliene dà la conferma - e passa la maggior parte del tempo in casa, quindi si chiede perché diavolo si sia confinato fin lassù un uomo che sembra apprezzare la natura quanto una colata di cemento in testa. Ma, a malincuore, lo lascia in pace. Gli dispiace un po' perché, ogni tanto, la sera esce sul balcone e si siede a terra con le gambe penzoloni oltre la ringhiera di legno a fissare il cielo e le stelle luminose, e il suo pensiero torna al deserto afgano, ai giorni lunghissimi e alle notti fredde e la solitudine torna prepotente e una voce amica - o anche una voce baritonale e fastidiosamente sarcastica - gli farebbe piacere, gli terrebbe compagnia. Poi, ogni tanto, quando sente strani rumori provenire dall'appartamento di sotto, vorrebbe andare a bussare e chiedergli se gli andrebbe una partita a carte, o una camminata nei boschi, o una fumata in compagnia (lo ha beccato qualche volta con la sigaretta tra le labbra), ma desiste sempre dal suo intento perché sa che l'altro non apprezzerebbe il gesto e non vuole tornare al primo giorno in cui Sherlock ha tentato di mandarlo via in ogni maniera. Quindi lascia semplicemente perdere e quando la nostalgia si fa troppo forte torna in casa, si getta sul divano e apre un libro che cerca di finire da due anni a quella parte, lasciando perdere gli strani suoni che provengono dal piano sottostante.

In compenso ha tanto tempo per sé e può dedicarsi a qualcosa che non fa da secoli, come pescare. Perlustrando la zona ha trovato un fiume e diversi laghi - nella quale non ha osato tuffarsi con quella temperatura al di poco sopra allo zero, e dire che una volta lo avrebbe fatto - e ne ha approfittato per scendere in città a comprare una canna da pesca e provare a vedere se è ancora in grado di costruirsi un'esca come si deve e procurarsi una cena da solo. E dopo i giorni finiti con il niente più totale, dopo un po' ci aveva ripreso la mano ed era riuscito a pescare molto più di quello che gli era necessario.

A quel punto era tornato a casa, aveva pulito il pesce e quello in eccesso lo aveva lasciato davanti la porta di Sherlock, dopo essersi assicurato che fosse in casa e avergli bussato abbastanza forte da farsi sentire, e poi se n'era andato prima che Sherlock aprisse la porta.

Il giorno dopo, uscendo, si era ritrovato un piccolo sacchetto di alluminio con dentro delle foglie di tè al bergamotto.

Non era sceso da Sherlock solo perché immaginava che ringraziarlo lo avrebbe solo infastidito, e non era più uscito una sola mattina senza averne bevuto almeno una tazza, gustandosi un tè che non assaggiava da una vita.

 

John incontra Beth un mercoledì mattina, al ritorno da un’altra lunga passeggiata.

Sta tornando verso l’appartamento e quando vede finalmente gli alberi iniziare a diradarsi intravede la figura di una donna parlare con Sherlock.

La donna è di corporatura minuta, ha un grazioso viso a cuore e dei bei capelli castani che le scendono ondulati fino a metà schiena e si vede che è a disagio nel parlare con Sherlock da come si torce le mani e continua a toccarsi nervosamente un orecchio. Per un attimo pensa di evitare i due e filare direttamente nel suo appartamento, ma quando la donna di volta e lo vede e gli fa un timido sorriso e un saluto con la mano si sente quasi in dovere di andarsi a presentare. Vede Sherlock roteare gli occhi e si ripromette di fare in fretta perché non ha voglia di fare discussioni come l’ultima volta, dato che hanno trovato un equilibrio fatto di cenni di saluto.

«Buongiorno.» le dice non appena è abbastanza vicino da farsi sentire, rivolge un cenno di saluto col capo a Sherlock e ritorna poi a guardare la donna. Lei sta per dire qualcosa, ma la voce bassa e annoiata di Sherlock interrompe qualsiasi tentativo di replica.

«Indicativamente tra due settimane portami la stessa quantità di oggi, nel caso mi serva qualcosa di urgente ti manderò un messaggio.» detto questo le porge una busta che lei prende senza esitazione.

«Va bene, stessa quantità e stessa roba. Capito.» gli fa un sorriso che non viene ricambiato e poi Sherlock se ne va con un rapido cenno di saluto.

John ha notato le occhiaie scure e il viso ancora più pallido e la sua anima di dottore si chiede se per caso abbia contratto qualche virus o se stia dormendo abbastanza dati i rumori che sente di notte, ma preferisce rimanere all’oscuro, perlomeno finché non lo vedrà stramazzare al suolo.

Non appena la porta dell’appartamento si chiude, sente la donna davanti a sé tirare un sospiro di sollievo e non può fare a meno di osservarla.

Lei fa un sorrisetto che sembra un misto tra il furbo e il colpevole.

«Sono sempre parecchio agitata quando devo venire qui, anche se lo faccio da anni. Elizabeth, comunque, ma preferisco di gran lunga Beth.» la donna gli porge la mano e lui la stringe, presentandosi.

«È un suo amico? Non l’ho mai visto essere accompagnato da nessuno.» Beth continua a bisbigliare e prende John per un braccio facendolo spostare assieme a lei, evidentemente ha paura che Sherlock se ne stia dietro la porta d’ingresso ad origliare le loro conversazioni. John ha dei seri dubbi che l’uomo che ha conosciuto sprecherebbe il suo tempo così. Ciononostante, Beth non toglie la mano e sembra in vena di pettegolezzi. John alza mentalmente gli occhi al cielo ma non può darle torto, in un paesino del genere tutti sanno tutto per un motivo: non c’è mai niente da fare.

«No, non sono un suo amico, ho solo affittato il piano superiore.» e a John viene anche in mente di chiederle come avesse potuto scambiarli per amici dopo che non si erano nemmeno rivolti la parola.

«Oh, capisco.»

«E lei invece? Decisamente non credo sia sua amica.»

La donna ride brevemente e scuote la testa.

«No, vengo solo a portargli le provviste. Siccome non scende quasi mai in città, a meno che non sia qualcosa di urgente, ha chiesto a me o a mio fratello di portargli cibo, acqua e determinati composti o lui si dimenticherebbe perfino di mangiare. Cosa che non dubito faccia, vedendo tutta la roba che va sprecata.» vede l’espressione di John perplessa e continua «Ho un negozio di alimentari giù in paese. Non per vantarmi ma è uno dei più forniti, così ha chiesto il favore di portargli la roba quassù con ovviamente una lauta mancia.» e detto questo agita la busta che tiene tra le mani «Ha sempre fatto così, da quando ha iniziato ad affittare lo chalet. In paese lo si vede solo due volte: quando arriva e quando se ne va. Per il resto credo che la maggior parte non sappiano nemmeno che faccia abbia e ben che meno cosa faccia con tutti i composti chimici che compra. Ma quello credo non lo vorrebbe sapere nessuno.»

John annuisce distrattamente e poi dà uno sguardo alla porta chiusa. Quell’uomo è decisamente fuori dalla norma.

«Beh, ora devo andare o mio fratello mi prenderà a calci per averci messo così tanto, ma mi passi a trovare in negozio John, sarò ben lieta di darle qualcosa in omaggio per farla sentire il benvenuto.»

John la accompagna fino al mini van parcheggiato lungo il sentiero e le sorride amichevole.

«Non mancherò, sono proprio curioso di vedere com’è fornito il suo negozio.»

Lei fa un sorriso sornione e John le ammicca di rimando.

Non aveva avuto intenzione di flirtare, ma in fin dei conti aveva passato mesi in solitudine, quindi perché non approfittarne?

 

John controlla il proprio cellulare solo una volta al giorno e lo fa solo alla mattina. Il suo pensiero è meglio rovinarsi il buongiorno per poi risollevarsi che andare a dormire pensieroso. Così ogni volta che legge un messaggio di Harry o vede una chiamata persa dai suoi genitori fa un lungo sospiro di frustrazione e poi risponde ai messaggi o richiama. Harry, da quando è tornato dall’Afghanistan, lo tartassa sempre con i soliti argomenti di cui lui ormai è stufo e strastufo, perché ha capito perfettamente che ha problemi con Clara e che il suo alcolismo non accenna a diminuire, ma farsi recriminare che è andato in guerra solo perché non voleva darle una mano lo fa imbestialire ogni volta. Eppure ogni giorno risponde al telefono. I suoi genitori invece hanno il dono incredibile di farlo sentire come un ragazzino di undici anni invece che un uomo fatto e finito di trentaquattro. Non ha il coraggio di rispondere loro male perché la madre inizia ad avere gravi perdite di memoria e il padre glielo fa pesare in ogni momento. E poi osavano chiedergli perché non torni mai a casa?

No grazie, sto bene dove sto.

Quindi fa tutto ciò che deve fare entro le otto di mattina (che i suoi rispondano e che i messaggi arrivino o meno) e poi spegne tutto ed esce a fare una corsetta per tenersi in allenamento e per svuotare la testa e rilassare i nervi. Gli piace il silenzio e il vento freddo che si ha solo e soltanto a quelle ore del mattino.

Però…

Non lo avrebbe mai ammesso nemmeno sotto tortura, ma dopo qualche settimana in quel posto, già si sentiva annoiato.

Gli mancava l’Afghanistan.

 

John prende un plaid e una coperta e va a sdraiarsi sull’erba fredda. È da tanto che non lo fa ma non riesce a dormire a causa di certi incubi che, quando è così rilassato, non lo vogliono lasciar stare e così l’unica cosa che gli è venuta in mente da fare è questa: stendersi e rimirare le stelle.

Fa freddo di notte e il cielo lì in mezzo al nulla è così terso da poter vedere perfettamente ogni singola stella nel cielo. Anche questo gli ricorda l’Afghanistan.

La visuale gli viene parzialmente tolta quando una luce si accende alle sue spalle, le stelle per la maggior parte spariscono e lui si ritrova costretto ad alzare la testa e vedere come mai il suo vicino se ne sta sulla porta a guardarlo.

«Buona…» non sa bene come definire quell’orario «Sera?» tenta «O forse è meglio mattina? Buonanotte sarebbe meglio nel caso lei stesse andando a dormire, cosa che evidentemente non sta facendo.» John straparla quando è ansioso ed è una cosa che gli hanno fatto notare in molti: rimane in silenzio riflessivo per diversi minuti quando si sveglia da un brutto sogno e poi inizia a parlare a macchinetta, senza una fine o un senso finché non si calma.

Sherlock lo guarda ma John non riesce a definirne i tratti o l’espressione perché la luce gli sta infastidendo gli occhi.

«Ho sentito dei rumori e sono venuto a vedere.»

John aggrotta le sopracciglia e storce la bocca. Come diavolo ha fatto a sentirlo alle dannate quattro di mattina su dell’erba fresca? Era stato attento persino sulle scale.

«Comunque non le conviene rimanere lì. È pericoloso, non si sa mai quali bestie possano uscire dal bosco e attaccarla.»

John rotea gli occhi.

«Sicuramente qualche cinghiale si risveglierà dal proprio letargo sentendo il mio buonissimo odore per venire ad assaggiare la mia carne vecchia e stopposa.»

«Io l’ho avvertita, poi faccia come crede.»

L’uomo fa per rientrare.

«Ehm, Sherlock?»

E la sua vista deve essersi abituata alla luce fastidiosa della lampadina perché ora riesce perfino a distinguere l’azzurro degli occhi di Sherlock, che si è voltato a guardarlo ma non dice nulla.

«Come mai sveglio a quest’ora?»

Sherlock fa qualcosa che può sembrare un sorriso ma che è molto più simile ad un ghigno infastidito.

«E lei?»

John capisce l’antifona e non lo ferma più dal rientrare in casa.

 

John incrocia nuovamente Beth un pomeriggio.

«Siamo ritardatarie oggi?» la saluta sorridendole mentre lei, già pronta per ripartire, si slaccia la cintura di sicurezza e scende dal mini van.

«In realtà sono venuta nel pomeriggio sperando d’incontrarla. È piuttosto difficile trovarla di mattina sa?»

John fa un mezzo sorriso di scuse e le si avvicina con la canna da pesca ancora in mano.

«Sono un tipo piuttosto mattiniero e non spreco la giornata a dormire quando posso spendere il tempo in maniera più utile.»

Lei alza un sopracciglio e guarda il misero bottino di quella mattinata.

John se ne accorge e alza il mento, fiero.

«Per me bastano e avanzano.»

Lei scuote la testa e apre lo sportello del van entrando per metà dentro la macchina e dilungandosi a cercare qualcosa. John ne osserva la figura snella e le gambe nude lasciate scoperte da una gonna a fiori.

«Le ho portato dei regali sperando di trovarla. Ho evitato di darli a Sherlock, probabilmente li avrebbe lasciati a marcire da qualche parte in quel caos che chiama appartamento.»

Beth pare finalmente trovare ciò che cerca ed esce dall’abitacolo con in mano una busta di stoffa e gliela porge.

«È il miglior brandy della zona, fatto in casa da mio padre. Siamo il peggior stereotipo della famiglia contadina, ma non c’è poi molto altro da fare, qui. Poi ci sono diversi salumi e del tè al bergamotto.»

John guarda dentro la borsa e ne rimane piacevolmente sorpreso. E stranamente assetato. Poi nota la confezione del tè.

«Uh, è lo stesso tè che mi ha dato Sherlock, è a dir poco ottimo!»

La donna annuisce sorridendo calorosa.

«Credo sia il suo tè preferito, è l’unica cosa che richiede in quantità industriali. E ne abbiamo di scelta, giù!»

A quel punto sale in macchina e mette in moto.

«Ehi, ehi, aspetti, non posso accettare tutta questa roba!»

Beth sorride e gli fa l’occhiolino.

«È una scusa per venirmi a trovare. Dopo che avrà assaggiato il nostro brandy non potrà più farne a meno.»

John la guarda per qualche secondo e poi sorride.

«Mi dai dieci minuti che appoggio tutta questa roba e mi faccio una doccia? Almeno ti offro la cena.» il tu ormai è d’obbligo.

Beth spegne nuovamente il motore e appoggia il braccio alla portiera.

«Non mi muovo di qui.»

 

La serata trascorre piacevolmente.

Beth non è esattamente il suo ideale di donna, ma è una compagnia più che accettabile che lo distrae dal vuoto cosmico che lo circonda da quando ha rimesso piede su suolo britannico.

Ha un’ottima parlantina, conosce praticamente ogni persona presente nel ristorante e tutti sembrano apprezzarla per un motivo o per l’altro. Una persona molto socievole, in sintesi. Un po’ troppo per i suoi gusti, ma non è che se la deve sposare.

 

Beth alla fine è più ubriaca di lui e John si ritrova costretto a portarla a casa (dopo aver chiesto indicazioni a una donna che pare conoscerla) e a decidere cosa fare di se stesso. È troppo tardi per tornare a casa a piedi (checché ne dica a Sherlock, non si fida a farsi una camminata in un bosco di notte) e non c’è nulla che possa portarlo fino allo chalet.

È indeciso se dormire sul divano di Beth o prendere una camera per una notte.

Alla fine, opta per la camera.

 

Quando John torna a casa il giorno dopo, nota Sherlock fuori all’aria aperta e quasi si sorprende. Se ne sta seduto fuori, appoggiato sulle braccia, e rivolge il viso verso il sole e, anche se John è convinto che lo abbia sentito arrivare, non apre gli occhi finché non gli è davanti e gli fa ombra con la propria presenza.

«Buongiorno.» offre John e nota con disappunto che le occhiaie di Sherlock si fanno sempre più marcate.

L’altro non gli risponde e torna a chiudere gli occhi.

John aggrotta le sopracciglia: non gli aveva mai negato almeno il saluto.

«Siamo seccati questa mattina?» prova a scherzare, ma Sherlock riapre gli occhi e gli lancia uno sguardo che John giurerebbe essere accusatorio, senza motivo.

«Occupato.» dice solo e quando il cellulare che ha appoggiato a terra al proprio fianco squilla Sherlock lo prende e scatta in piedi, rivolgendo le spalle a John e tornando in casa, chiudendolo nuovamente fuori.

John sbuffa e si chiede perché ci provi ancora.

 

Il brandy del padre di Beth è davvero la cosa migliore che abbia mai bevuto e va giù talmente liscio che non si accorge nemmeno di ubriacarsi. Spende un notte così, ritrovandosi con una sbronza malinconica e solitaria mentre sente la porta al piano di sotto sbattere prepotentemente e qualcosa –Sherlock - andarsene. Una parte di sé che riesce ancora a ragionare si chiede dove Sherlock vada quasi ogni notte, ma viene soppressa dal nuovo bicchiere che raggiunge le sue labbra.

Inutile dire che l’indomani si sveglia e vorrebbe solo essere morto per l’enorme mal di testa che lo perseguita per il resto della giornata.

 

Sherlock non si fa vedere per quasi una settimana e John non capisce se si sia rinchiuso in casa o se magari se ne sia proprio andato da qualche parte senza dire niente.

Nel dubbio non chiede, non vorrebbe infastidirlo dopo l’ultima volta che hanno parlato. E Sherlock gli ha fatto capire in più e più modi che non erano fatti suoi quello che faceva. La sua unica domanda infatti era rivolta a se stesso: perché me ne importa così tanto?

 

Si sveglia da un incubo in cui Paul – il suo braccio destro e migliore amico in guerra - gli chiede aiuto e lui non riesce a fare nulla per aiutarlo (cosa che è davvero successa e per la quale si condanna ogni giorno della sua vita) e si alza di scatto a sedere sul letto, respirando affannosamente e asciugandosi il sudore dalla fronte mentre scosta le coperte che lo fanno sentire legato ed imprigionato.

Ha caldo. Ha così dannatamente caldo.

Si alza e va a prendere un bicchier d’acqua e a fare due passi nel soggiorno cercando di calmarsi, cosa che non gli riesce affatto bene, e allora decide di uscire per sentire un po’ di aria fresca.

Prende il giubbotto dall’attaccapanni ed esce, sedendosi sul piccolo corridoio di legno fuori dalla porta, facendo sporgere le gambe oltre la ringhiera di legno e lasciandole a penzoloni nel vuoto. Sospira, mentre poggia la schiena sul legno duro e torna a respirare in maniera regolare, rabbrividendo per il freddo e fissando il cielo mezzo coperto dalla tettoia.

Verrà a piovere molto probabilmente, ma non è che la cosa gli faccia poi tanto strano.

Chiude gli occhi e cerca di ritrovare un attimo di pace e serenità quando il suo orecchio coglie delle note provenienti dal piano di sotto e il suo primo pensiero è che Sherlock è tornato, poi resta in ascolto.

Non è pratico di musica classica quindi non ha la minima idea di che cosa l’altro stia suonando (prende solo un appunto mentale sul fatto che suona uno strumento mentre lui non ha mai imparato) ma è abbastanza certo che il suono sia quello di un violino. E ne è abbastanza certo perché è uno dei pochi strumenti che non gli è mai piaciuto particolarmente a causa delle note stridule che ne uscivano. Ma forse ha sbagliato. Ha sbagliato tutta la vita, perché quel suono è così bello e rilassante e la musica che ne esce è così carica di emozioni che si rasserena subito e, cullato dalle note, riesce addirittura ad addormentarsi.

Si risveglia (fortunatamente o avrebbe preso una polmonite) a causa della pioggia che ha iniziato a cadere sempre più forte e gli ha praticamente lavato le gambe e metà busto.

Torna in casa, si fa una doccia veloce e si rinfila sotto le coperte, prendendo nuovamente sonno.

 

John guarda la propria dispensa semi vuota e il brandy che inizia a scarseggiare e capisce che è il caso di fare un salto in città per comprare quel minimo che potrebbe tenerlo in vita per almeno altre due settimane. Finisce il suo tè, mette tutto nel lavello perché non ha proprio voglia di lavare i piatti, prende diverse sacche di stoffa e si prepara mentalmente per i dieci chilometri a piedi.

Scende le scale fischiettando tra sé e sé (alla fine è riuscito a dormire tranquillamente) e fa per andarsene, quando per un attimo pensa a Sherlock e al fatto che forse potrebbe servire qualcosa anche a lui dalla città, allora per una volta lascia stare il buon senso e la solita vocina che gli ripete lascialo in pace a va a bussare alla sua porta. Si convince di star compiendo semplicemente un atto da buon vicino e non di farlo perché gli va di vederlo dopo una settimana in cui era sparito e lui si era chiesto che fine avesse fatto quasi ogni giorno.

Bussa la prima volta ma nessuno risponde, allora prova a bussare nuovamente, un po' più forte, perché è sicuro che l’altro sia in casa e da dentro sente finalmente dei rumori e quelli che sembrano dei passi avvicinarsi alla porta. Si scosta di un passo e aspetta, finché la porta si apre e sulla soglia appare Sherlock, che non ha per niente un bell'aspetto.

John lo guarda e osserva delle profonde occhiaie nere contornargli quei begli occhi azzurri, il viso decisamente più smunto di quando lo aveva visto l'ultima volta e l'aria di uno che non riesce a reggersi in piedi.

«Mio Dio, sta bene?» la sua domanda è chiaramente retorica ed entra in casa sospingendoci dentro anche Sherlock senza aspettare altro tempo. Non fa caso a tutto il disordine che regna in quell'appartamento ma fa sedere l'uomo sul divano, iniziando una visita sommaria, tastandogli i linfonodi e guardandogli le pupille, sentendogli la febbre con una mano e facendogli le solite domande di routine riguardo ai sintomi.

Sherlock appoggia la testa all'indietro e pare totalmente esasperato dalla situazione, prova a liberarsi di John facendo qualche debole movimento con la mano ma sembra che l'altro non voglia assolutamente dargli retta. Così, alla fine, sbotta.

«Lei aveva detto che non si sarebbe impicciato, che cosa ci fa qui? John? Mi sta ascoltando?»

John blocca di colpo le sue domande e scatta in piedi.

«Camomilla. Dovrei avere della camomilla di sopra, torno subito.» e detto questo esce dalla casa e si dirige al piano di sopra, Sherlock può sentire i passi pesanti sulle scale e poi il silenzio quasi totale per almeno dieci minuti. Beh, se questo era un suo modo per curare i pazienti non doveva essere un grande dottore.

...Dottore. Medico militare. Ma certo.

Si da dell'idiota da solo per non esserci arrivato prima.

Quando sente di nuovo i passi entrare nella stanza, si volta a guardare John che gli si siede accanto e gli intima di chiudere gli occhi. Sherlock lo fa - non lo sa il perché, ma lo fa, si fida e lo fa - e sente qualcosa di caldo e liquido poggiarglisi sulle palpebre chiuse.

«Lei è un medico militare. C'è sempre qualcosa.» mormora aspettando che l'altro gli dica che diavolo gli ha messo addosso.

Non lo può vedere ma sente John sorridere e si rilassa ulteriormente, poggiandosi di più al divano.

«Come sa che sono un medico militare me lo deve ancora spiegare. In ogni caso le sto facendo un impacco alla camomilla, avevo ancora un paio di bustine di sopra, almeno così le ho fatte fruttare. Comunque: rimedio della nonna, a medicina non c'insegnavano queste cose.»

«Dio ce ne scampi.» mormora nuovamente Sherlock e John riesce a vedere addirittura un sorrisino far capolino da quel viso sempre così serio.

«Mi sembra molto stanco, comunque. Da quanto non dorme? Lo so che le ho detto che non mi sarei impicciato ma sa, giuramento d'Ippocrate.» John tenta di buttarla sul ridere, nella speranza di avere delle risposte e la cosa sembra funzionare perché l'altro sogghigna e risponde.

«Credo di aver dormito due ore...» John sta per dire che sono davvero troppo poche, quando l'altro continua «...negli ultimi tre giorni.» e Sherlock davvero non sa in che cosa si sia andato a cacciare perché John lo prende di peso e lo fa sdraiare sul divano, coprendolo alla ben e meglio con quello che trova in quel soggiorno che Sherlock pare aver preso per una discarica e gli fa una ramanzina della durata di quasi un quarto d'ora, finché Sherlock non gli chiede di smettere perché adesso inizia a venirgli anche un enorme mal di testa. Allora John si ferma, sospira e gli si siede accanto, togliendogli l’impacco alla camomilla e chiedendogli come vadano le cose. Sherlock rifiuta di aprire gli occhi, probabilmente sta meglio così, ma comunque annuisce e pare mettersi più a suo agio, facendo rilassare anche il dottore.

Dopo diversi minuti di silenzio, in cui John si guarda intorno e si chiede com'è possibile vivere in tutto quel caos fatto di carte, ampolle, provette, cartine geografiche e via discorrendo, Sherlock evidentemente decide che la tranquillità non gli piace e opta per spezzarla.

«Come mai è qui? Mi aveva dato la sua parola che non sarebbe mai sceso per importunarmi.»

John, sempre seduto sul bordo del divano per dare spazio alle gambe chilometriche dell'altro, si volta a guardarlo ma nota che il suo vicino ha ancora gli occhi chiusi e allora sposta lo sguardo a curiosare ancora un po'. «In realtà ero venuto per chiederle se le servisse qualcosa dal paesino, sto andando giù per fare un po' di spesa. Ho pensato sarebbe stato un gesto carino provare a chiedere.» sottolinea la parola “carino” giusto per infastidire il suo vicino (ed è buffo come sembra sapere cosa infastidisca l'altro, dato che ci avrà parlato solo tre o quattro volte da quando è lì) e Sherlock non lo delude, aprendo gli occhi e lanciandogli un'occhiata glaciale, ma alla fine alza una mano e indica una qualche direzione dietro John.

«La cucina è lì da qualche parte. Se vuoi dare un'occhiata fai pure.»

John non può fare a meno di notare che Sherlock è passato dal lei al tu e spera che sia un buon segno. A quel punto si alza e va alla ricerca della cucina, trovandola in uno stato perfino peggiore del soggiorno. Sospira e apre la credenza, trovandola desolatemene vuota, esattamente come tutti gli altri scaffali e cassetti e qualsiasi posto dove sarebbe umano mettere del cibo commestibile.

Quando torna in soggiorno si sente nuovamente pronto per una ramanzina, almeno finché non vede l'altro rannicchiato sul divano in posizione fetale che si stringe addosso la coperta e sembra semplicemente un bambino di un metro e ottantaquattro.

«Che fine ha fatto Beth? Perché la dispensa è vuota?» chiede allora gentilmente, mentre Sherlock si racchiude sempre di più nel bozzolo di lenzuola e scuote la testa.

«Credo che abbia l’influenza o qualcosa del genere. Non è potuta venire su e io le ho detto che avevo tutto ciò che mi serviva per stare tranquillo. Il che è vero.»

John si volta automaticamente di nuovo verso la cucina e scuote la testa. Non c’è assolutamente nulla di nulla lì dentro, come può avere tutto ciò che gli serve?

«Oggi vieni in paese con me e usciamo a cena.» dice, e non è decisamente una domanda. Sherlock a quel punto apre gli occhi e lo fissa, inorridito dalla questione, e sussurra un flebile no.

«Tra un po' usciamo e andiamo a fare la spesa, sia per me che per te e poi usciamo a cena. Sono stanco di cibo salutare, mi manca un dannato hamburger, o una pizza, o un qualsiasi cibo spazzatura che possa ostruirmi di colesterolo le vene da qui ai prossimi dieci anni.»

Sherlock pare ancora più inorridito dalla faccenda e si preme maggiormente le coperte addosso, come se quelle potessero salvarlo da ciò che John stava dicendo.

«Grazie, ma non sono interessato.» replica con voce molto più ferma rispetto a prima, ma se Sherlock è testardo, John lo è altrettanto.

«È meglio se dormi un po', quelle occhiaie e quelle che nemmeno si possono definire “ore di sonno” non mi fanno stare molto sereno, in realtà.»

E Sherlock non replica più. Dopo giorni in cui non ha fatto altro che stancarsi, uccidendosi di fatica per cercare di riposare anche solo qualche ora e di dormire, gli basta che quel John - quell'estraneo - se ne rimanga lì, accanto a lui, per addormentarsi.

 

Sherlock si sveglia dopo quelle che gli sembrano settimane di riposo e invece sono a malapena un paio d'ore. Si sente stranito dal fatto di essere riuscito ad addormentarsi vicino ad un altra persona, soprattutto con i suoi nervi che ultimamente scattano per qualsiasi cosa e la tensione in tutto il corpo per il fatto di avere una persona che potrebbe vederlo perdere il controllo di sé, e il suo sguardo corre a cercare John nella stanza. John che, comodamente seduto su una poltrona nel soggiorno, sta leggendo uno dei suoi libri di chimica e pare incredibilmente interessato.

«Ben svegliato.» lo saluta l'altro, continuando a leggere il libro. «Aspetta solo che arrivo al primo punto, detesto perdere il segno.» e quando John pare trovare ciò che cerca nella pagina, appoggia il libro sul tavolo e si illumina di un sorriso caloroso.

«Bene, direi che è ora di andare, sono quasi le quattro e non abbiamo tutto il giorno.» si alza e raggiunge Sherlock, il quale sta addirittura sbadigliando e chiedendo la normale dose di caffeina per qualcuno che si è svegliato da poco, ed incredibilmente John va ad aggirarsi per la cucina e gli prepara il caffè mentre Sherlock va a chiudersi in bagno, uscendone vestito e profumato quella che a John pare un'eternità dopo.

Rimane per qualche istante a fissarlo - notando per la prima volta il suo viso disteso in un'espressione quasi rilassata, le occhiaie un po’ meno marcate, i capelli ricci e neri come il completo che sta indossando (decisamente un qualcosa di diverso dal camice o la tuta con cui lo aveva visto la maggior parte delle volte) e un cappotto lungo - e si accorge un attimo troppo tardi di essere rimasto in un silenzio contemplativo, così cerca di sdrammatizzare, superandolo e uscendo finalmente di casa seguito a ruota dal suo vicino.

«Lo rovinerai quello facendo una passeggiata nei boschi, lo sai sì?»

Sherlock alza la testa e lo guarda stranito.

«Passeggiata?»

John blocca la sua camminata verso il limitare del bosco e si volta verso Sherlock, che lo sta guardando con le sopracciglia corrugate in un'espressione quasi divertita.

«Secondo te come sono venuto fin quassù con tutta quella roba? Volando?» chiede sarcastico e mostra la rimessa di fianco alla casa.

John fissa la costruzione in legno e rimane un attimo perplesso. Non sapeva in effetti cosa ci fosse dentro, non se l'era mai chiesto (e decisamente non aveva l’aria di un garage) e siccome non era un’informazione utile, semplicemente non aveva pensato che Sherlock fosse venuto fin là in macchina. Anche se effettivamente avrebbe dovuto farci un pensierino, vedendo tutti gli alambicchi che si era portato dietro.

Sherlock si dirige verso la rimessa, sgancia il lucchetto che tiene chiuse le due porte e le apre, facendo intravedere quella che dev'essere una Jeep di almeno una decina d’anni.

Sherlock nemmeno si volta verso John quando gli lancia le chiavi della macchina che l'altro afferra al volo, ma il soldato rimane a guardare il mazzo di chiavi e poi fissa lo sguardo sull'altro, che dopo qualche secondo pare capire.

«Non ci posso credere.» dice solamente, e John a quella affermazione sorride e gliele rilancia. «Ma la tua utilità in Afghanistan quale sarebbe? Quella di inseguire a piedi futuri criminali terroristici?»

John sale dalla parte del passeggero e sorride alla battuta, guarda Sherlock togliersi il cappotto e lanciarlo con poca grazia sui sedili posteriori, poi si allaccia la cintura e tira giù il sedile trovando una posizione comoda per sonnecchiare.

«Quella di trovare chi guida per me mentre io me la dormo della grossa e faccio il minimo indispensabile.»

Ha gli occhi chiusi, quindi non può effettivamente vedere Sherlock sorridere, ma lo sente.

 

John scopre che Sherlock non ha la minima idea di come rapportarsi al difficilissimo compito di comprare alimenti deperibili (e non) per sopravvivere una settimana (in altro modo detto: non ha idea di come fare la spesa), il ché è incredibile, per il semplice fatto che sia riuscito a sopravvivere per più di trent’anni.

«A Londra ho una governante che si spaccia per la semplice padrona di casa e beh, qui mi arrangio come posso.» distoglie gli occhi a quell'ultima affermazione e continua a muoversi, smarrito, tra il banco frutta e quello del pesce, cercando di capire qualcosa che solo lui riesce ad immaginare.

A John, con quel discorso, si spiegano tante cose, ma continua a non capacitarsi di come un uomo adulto non riesca provvedere a se stesso per i normali bisogni come il mangiare e il dormire.

 

Posano le borse sui sedili posteriori della macchina e John inizia a cercare con lo sguardo un ristorante (o anche un fast food, sta morendo di fame ed è disposto anche a mangiarsi un tavolo se ciò servirà ad attutirgli il senso di fame).

«Allora dobbiamo farlo davvero.» sente mormorare alle sue spalle e si volta verso la figura di Sherlock che se ne sta appoggiato con nonchalance alla macchina.

John sorride a mezza bocca e gli fa cenno con la testa di seguirlo.

«Ti sto chiedendo di venire a cena, non di incamminarti verso il patibolo.»

Sherlock si scosta dalla macchina e lo segue, stranamente allerta e con un po' del suo buonumore sparito da qualche parte.

«Forse la seconda opzione sarebbe più divertente.» ribatte, avvicinandosi a John e seguendo la direzione che quest'ultimo ha preso.

«Ehi, guarda che questo però potrebbe offendermi.», John lo guarda a metà tra il divertito e il finto offeso e Sherlock si rilassa un attimo, distendendo le labbra in un sorriso più timido e tirato degli altri, ma non dice più niente e lo segue dentro il ristorante che pare aver attirato l'attenzione del dottore.

 

«Allora, dimmi come hai fatto.»

Sherlock solleva gli occhi dal proprio piatto di spaghetti e osserva John inforcare un pezzo del suo roast beef al sangue e portare la forchetta alla bocca. Torna a giocare con la sua pasta, dandosi dell'idiota per non aver preso la carne, e gli chiede a che cosa si stia riferendo.

John osserva il viso di Sherlock e richiama l'attenzione di un cameriere, chiedendogli se potrebbe cortesemente portare altri due piatti vuoti. Sherlock guarda John con occhio critico finché il cameriere non torna con i due piatti e John inizia a tagliare metà del suo roast beef e lo porge a Sherlock, poi prende gli spaghetti dell'altro e riempie per metà l'altro piatto libero e così entrambi si ritrovano a condividere carne e pasta.

Sherlock lo guarda stranito, ma John fa finta di niente e continua con la sua domanda.

«Ho parlato con la signora Hudson. Mi ha assicurato di non averti detto nulla su chi io sia, quindi sono curioso di sapere come hai fatto ad intuire che sono un soldato e che vengo proprio dall'Afghanistan.»

Sherlock lascia perdere gli spaghetti e si butta sulla carne, non ringraziando del gesto John che comunque non sembrava aspettarsi nulla di tutto ciò.

«La postura e la camminata.» inizia addentando il roast beef. «Ti ho visto arrivare dalla finestra, la tua camminata e la postura rigida che mantieni quando sei fermo fanno intuire un addestramento militare. Per quanto un addestramento sia, a tutti gli effetti, una formazione, ciò non condizionerà per sempre la nostra vita e la postura e la camminata andrebbero persi negli anni da civile, e alla tua età che, senza offesa, è decisamente lungi dall'essere da servizio militare obbligatorio, mi ha fatto capire che sei ancora in servizio. In aggiunta, nella prima conversazione che abbiamo avuto, hai parlato di congedo, che è quello che ha confermato i miei sospetti. Ho oltretutto notato l'abbronzatura quando mi sono avvicinato: non al di sopra di polsini o colletto della camicia, quindi sei stato in un posto assolato ma non in vacanza e posso aggiungere che, più che una vera e propria abbronzatura, eri seriamente scottato in più punti: guerra quindi. E che guerre ci sono state ultimamente che avrebbero potuto richiedere un tuo servizio? Afghanistan o Iraq, ma c'era almeno il 78% di probabilità che tu fossi di istanza in Afghanistan, quindi devo ammettere - anche se a malincuore - che quella deduzione è stata dettata più da un sesto senso che da un vero e proprio dato di fatto.»

John rimane con la forchetta sollevata a mezz'aria e lo sguardo fisso su Sherlock che continua a mangiare la carne senza dire niente, aspettandosi chissà quale reazione da parte dell'altro.

«Straordinario.»

Sherlock alza lo sguardo per portarlo verso quello di John e cercare di vedere se sta scherzando, ma il dottore pare serio mentre mette giù la forchetta e continua a guardarlo.

«Davvero?» chiede, cercando di nascondere il dubbio nella sua voce e John annuisce.

«Riuscissi io a fare una cosa del genere solo guardando una persona attraverso una finestra, a quest'ora sarei già Colonnello, invece che capitano.» [1] e John sembra davvero ammirato dalla cosa.

«Non è quello che la gente mi dice di solito.» fa Sherlock, finendo di mangiare e lasciando lì gli spaghetti.

«E cosa ti dice la gente di solito?»

«Fuori dalle palle.» [2]

John ride e Sherlock si ritrova a ridere con lui, stranamente coinvolto da una conversazione così banale.

«Credo che quello sia più che altro per il tuo carattere non propriamente semplice.» dice John, sorridendo ancora e prendendo un sorso di vino, e Sherlock per un attimo perde il suo di sorriso.

«Ah. Sì. John. Per quella volta...» Sherlock sta guardando da tutt'altra parte e cerca di trovare le parole adatte.

«Dolce?» chiede il dottore, attirando nuovamente l'attenzione del cameriere e Sherlock torna a prestargli attenzione, giocherellando con le mani che ha appoggiato sul tavolo.

«Sì, sarebbe un'ottima idea.»

E ringrazia mentalmente John per il fatto di non dover portare avanti una conversazione che per lui sarebbe stata abbastanza difficile.

 

«Come stai?» è la domanda che gli fa il dottore quando tornano finalmente alla macchina, ma la risposta gli sembra più che ovvia e non gli piace per niente.

Sherlock sta sudando e trema come una foglia da almeno cinque minuti e i sintomi non riescono a fargli capire cosa l'altro possa avere. C'è solo Sherlock che sta chiedendo di tornare a casa e il più velocemente possibile. L'unico problema è che Sherlock non sembra proprio in grado di guidare e ciò fa sì che sia John a prendere in mano il volante anche se non ha la patente e non guida da quelli che gli sembrano secoli.

È chiaro che in vita sua abbia guidato - insomma, in Afghanistan aveva miglia e miglia sconfinati di terreno su cui fare pratica - ma farlo di notte, attraverso un bosco non gli sembra proprio la stessa cosa.

«C'è un ospedale qui vicino, sarebbe preferibile andare lì piuttosto che tornare a casa.»

Sherlock parla a fatica, apre la porta della macchina e si siede sul sedile del passeggero, rannicchiandosi il più possibile contro la portiera.

«Ho a casa tutto ciò che mi serve. John...» e la sua voce e il suo sguardo sono quasi supplichevoli, allora John si ritrova a sospirare e sedersi al posto di guida.

E va bene.

Mette in moto la Jeep, accende i fari, dà gas, e prega di arrivare allo chalet sano e salvo e senza incontrare nessuno.

 

Il viaggio in macchina sembra solo far peggiorare la situazione: Sherlock ad ogni sobbalzo emette un verso strano e sembra tentare di entrare dentro il sedile per quanto ci si sta attaccando.

All'inizio, quando il malore gli era preso, aveva pensato che fosse potuto essere dipeso da un'indigestione o qualcosa nel cibo che non era propriamente fresco o ben cucinato, ma avevano mangiato e bevuto le stesse cose e lui si sentiva magnificamente.
Purtroppo non può far altro che procedere con calma nel fitto del bosco, nonostante Sherlock gli chieda di andare più veloce quando la voce riesce ad uscirgli chiara e forte dalla gola, ma finalmente, dopo quelle che a John sembrano ore, intravede la figura dello chalet, illuminato dalla luna splendente e sorprendentemente bella.

Sospira allora e stringe il volante con più forza, andando a parcheggiare davanti l'abitazione invece che rimettere l'auto nel deposito.

Aiuta Sherlock a scendere e lo accompagna fin dentro casa, facendolo distendere sul divano e coprendolo con la coperta rimasta lì da quel pomeriggio.

«C'è qualcosa che posso fare? Devi prendere qualcosa? Vuoi che te la porti?»

Sherlock scuote la testa e gli fa cenno con la mano di andarsene.

«Ne sei sicuro?»

Il dottore vede Sherlock muovere le labbra ma non riesce assolutamente a capire cosa stia dicendo, si avvicina dunque, e accosta l'orecchio alla bocca dell'altro.

«Per favore vai via. Subito.» è perlopiù un sospiro, John non è nemmeno sicuro che abbia detto effettivamente quelle parole, ma Sherlock gli fa ancora cenno con la mano e poi si volta sul divano, dandogli la schiena, e John allora fa quel che gli è stato detto ed esce dall'abitazione, salendo al piano di sopra e pensando alla possibilità di aver qualcosa nella cassetta dei medicinali che possa aiutare con la situazione, non trovando niente di meglio delle semplici aspirine.

Cammina avanti e indietro nel soggiorno per qualche minuto, non sapendo se tornare giù a controllare la situazione o rimanere lì per non disturbare Sherlock che magari è riuscito ad addormentarsi o perlomeno a tranquillizzarsi, ma quando sente uno strano rumore, come di un qualcosa di molto pesante che sbatte contro il pavimento, decide di tornare giù, portando le aspirine come scusa per andare a vedere come va la situazione.

Scende di corsa le scale in legno e salta gli ultimi quattro gradini, bussando alla porta, chiamando il suo nome.

«Sherlock! Sherlock, tutto bene?» ma nessuna risposta giunge in suo soccorso.

Merda, perché lo ha lasciato solo? E se gli era successo qualcosa? Doveva portarlo di forza all'ospedale e non lasciarsi ammaliare da degli occhioni azzurri che lo supplicavano.

Prova a forzare la porta ma quella pare non aver alcuna intenzione di aprirsi, così si sposta verso la finestra e cerca di dare un'occhiata dentro per vedere se la situazione richieda un intervento tempestivo o se magari Sherlock stia semplicemente dormendo così profondamente da non sentire nulla. È con un moto di sollievo che vede una figura muoversi in mezzo alla semioscurità, e cerca di attirarne l'attenzione battendo l'indice sul vetro della finestra. Riesce nell'intento, ma decisamente non si aspetta di vedere ciò che gli restituisce lo sguardo. C’è un qualcosa che lo sta osservando, ma quel qualcosa decisamente non pare essere Sherlock, almeno finché la cosa non si volta e John riesce ad intravedere i ricci di Sherlock che si scuotono. Non sa cosa stia succedendo, ma sa perfettamente che qualcosa non va.

Senza pensarci troppo si toglie il maglione e lo avvolge attorno alla mano e, infine, cerca con un'occhiata un sasso abbastanza grande da poter sfondare il vetro e quando lo trova non esita a lanciarlo contro la vetrata, che va in frantumi in un colpo solo. Toglie con la mano fasciata i pezzi troppo grossi del vetro rimasto ed entra, chiamando a gran voce il nome di Sherlock.

«Via...» sente mormorare da dove ha visto Sherlock muoversi. «Vai via.» sente ripetere con la voce dell'altro, che ha assunto una tonalità ancora più bassa rispetto al solito, ma John prende la prima cosa a portata di mano per difendersi e si avvicina a Sherlock.

O a quello che pare essere Sherlock.

Quando John si avvicina abbastanza da poter vedere cosa sta succedendo in quella stanza, rimane sconvolto da ciò che gli si presenta davanti e l'attizzatoio gli cade dalla mani che hanno preso a tremare.

«Porca puttana!»

Sherlock si dimena per terra, avvolto per metà nella coperta che gli ha adagiato addosso John prima di andarsene, e si inarca, come preso da spasmi, finché qualcosa inizia a cambiare in lui, qualcosa che John aveva già visto da fuori ma che non aveva assolutamente capito. Il suo corpo sta cambiando e sta prendendo delle sembianze totalmente estranee al corpo umano, urlando e gemendo come John non aveva mai sentito fare a nessun essere umano sulla faccia della terra.

È quando quella specie di trasformazione finisce che John si risveglia da quella specie di catalessi in cui era caduto e capisce di dover uscire di lì e correre a gambe levate al piano di sopra e chiudersi dentro pregando che tutto vada per il verso giusto, prima che quella sottospecie di creatura decida di alzarsi da terra e attaccarlo. Purtroppo però i riflessi del lupo sembrano essere più veloci dei suoi, infatti questo si alza, si volta verso di lui e per un attimo i due restano fermi a guardarsi. Degli occhi color ambra si fissano in quelli di John e John smette persino di respirare o di fare qualsiasi movimento improvviso, pregando improvvisamente un Dio in cui non ha mai creduto ma di cui l’esistenza gli farebbe molto comodo in questo momento.

Il lupo si avvicina e John rimane immobile, continuando a mantenere il contatto visivo, finché l'animale non si ferma ed inizia ad annusarlo e John davvero non sa cosa fare o come comportarsi. Quello è comunque Sherlock, realizza una parte di lui a cui non vuole dare troppo ascolto in quel momento ma già sa che finché non sarà in reale pericolo di vita non muoverà un solo dito per tentare di fargli del male.

Alla fine il lupo gli si avvicina fino a toccargli la mano con la punta del naso e John si irrigidisce ulteriormente, sentendo la sensazione del naso freddo mista a quella del fiato caldo dell’animale sulla propria pelle, almeno finché l'animale non inizia a ringhiargli contro, ma prima che possa fare qualsiasi cosa lo vede scappare fuori dalla finestra, lasciando John totalmente da solo nella casa. Soltanto in quel momento John si lascia cadere a terra, stringendo i pugni talmente forte da farsi sbiancare le nocche, e inizia a fare respiri corti e veloci in preda ad un evidente attacco di panico.

Inspira. Trattieni. Espira. Inspira. Trattieni. Espira.

Gli ci vuole molta più forza di volontà di quello che avrebbe mai ammesso per tornare a respirare in maniera - se non regolare - almeno decente e alzarsi da terra con le gambe che lo reggono con difficoltà. Esce da lì e sale le scale per arrivare fino casa sua, e quando lo fa chiude tutto a doppia mandata e, per la prima volta da quando è lì, appoggia la sua pistola d'ordinanza sul comodino: carica e pronta all'uso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE:

 

[1] I Gradi nell'esercito sono (dal grado inferiore):

-Caporale

-Sergente

-Tenente

-Capitano (Ciao John <3)

-Maggiore

-Tenente colonnello

-Colonnello

-Generale

 

[2] Ho optato per la versione più letterale rispetto ad Italia Uno che usa “Fuori dai piedi”

 

Ed eccoci, spero vi sia piaciuta, comunque vi informo che posterò un capitolo per settimana. Ed ora vado a crollare da qualche parte che stamattina ero a zappare la terra come una disperata con un mio amico nel disperato intento di spianare un pezzo di giardino per una piscinetta. Sparatemi -__-

   
 
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