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Autore: _pat__xD    18/07/2014    1 recensioni
Storia originale. I personaggi, caratterialmente, sono completamente inventati, ma ogni personaggio, almeno quelli principali, avranno un presta volto, ovvero un personaggio famoso al quale mi sono ispirata per descriverli fisicamente.
La protagonista è una ragazza che non ha fiducia, né stima, in se stessa e che il suo modo di chiudersi in se e di nascondersi, la porta a diventare una secchiona, giudicata "sfigata" dalle persone che la circondano.
Tratto dal primo capitolo: [...] in quella parola, vedevo me. Da sempre si era utilizzata la parola “secchiona” per indicare una ragazza che, invece di sbavare sui calciatori e sulle riviste di moda, preferiva leggere e studiare realmente, per prepararsi ai duri esami che dovrà affrontare, sia a scuola, che nella vita.
Tratto dal secondo capitolo: «Amore, che succede?» [...] la superai e andai in camera mia, urlandole dietro parole incomprensibili [...] «Ragazzo...porta...mutande...oddio!» [...] «Mike Hakim, ho finito di trasferirmi ieri», si presentò, sorridendogli in modo educato [...] «Mi scusi, non stavo ascoltando» [...] Erano tutti shockati e mi guardavano con quella stessa aria sconvolta che aveva il mio professore.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The school notebook

                                Capitolo Uno.

Perfetta. Carnagione deliziosamente abbronzata, labbra leggermente carnose tinte di un rosso non troppo accesso, occhi verdi evidenziati da quel trucco forse appena esagerato, visto che non stavamo certo ad una sfilata di moda; naso dritto, nessun imperfezione, così come il resto del volto. Per non parlare dei capelli biondi che cadevano dolcemente sulle spalle, sfiorando allo stesso tempo i lineamenti del viso. Bella, vero? Peccato che quella non sia io. Lei era la ragazza più popolare della scuola. Sempre ben vestita e sempre informata sulle novità, soprattutto per quanto riguardi le feste e la moda. Se si parlava di attualità o di sport, lei non riusciva a capirci nulla. Eppure piaceva lo stesso, solo per il suo bel visino e, soprattutto, per il suo corpo, anch'esso perfetto. Stavo esagerando? A me non sembrava, visto che riusciva a cambiare ragazzo addirittura una volta ogni tre giorni. Sembrava come se glie lo avesse ordinato il dottore.
Sospirai, alzando gli occhi al cielo, mentre, con un gesto anche un po' impacciato, mi alzai la montatura degli occhiali, la quale scivolava dal mio naso un po' troppo spesso. La ragazza che ho appena descritto è Meredith, mentre io... beh, io sono l'esatto opposto. Elizabeth Jenkins. Carnagione chiara, forse anche troppo, visto che il mio migliore amico mi chiama da sempre “signorina Addams”, occhi azzurri, ovviamente accompagnati dagli occhiali da vista con la montatura un po' spessa; naso dritto, certo, ma con una leggera curvatura che, purtroppo, notavo ogni volta che mi guardavo allo specchio. Le mie labbra erano, forse, la cosa più bella nel mio volto, sottili, ma non troppo. I miei capelli, al contrario di quelli di Meredith, sono mori e leggermente mossi, spesso non stavano al loro posto, ecco perché li tenevo sempre legati in una coda di cavallo.
Sbuffai rumorosamente, mentre i miei occhi si abbassavano sul quaderno, smettendola così di scrutare la Barbie della classe. Sapete, come in ogni scuola superiore che si rispetti, gli studenti erano stati divisi in gruppi, in modo completamente naturale. I forti stanno con i forti, i deboli si trovano da soli. C'erano i palloni gonfiati della squadra di football e c'erano le cheerleader, poi le altre squadre sportive, come quella di basket e quella di nuoto; gli organizzatori degli eventi, scolastici e non, il club di teatro e, infine, si trovavano i secchioni. Indovinate a che categoria appartenevo? Non è poi così difficile.
«Liz», sussurrò una voce maschile, distogliendomi per un istante dai miei pensieri. Lentamente spostai il capo, in modo da dare una veloce occhiata alla persona seduta dietro di me. La prima cosa che mi chiesi fu: perché diavolo stava sussurrando? La lezione non era ancora iniziata. Alzai un sopracciglio e mi sporsi con il busto, guardandolo dritto negli occhi, quegli occhi scuri che mi avevano sempre donato quella sicurezza di cui, la maggior parte delle volte, avevo bisogno. «Questo pomeriggio non posso più uscire, devo aiutare mia madre con gli scatoloni, lo sai che dobbiamo finire i preparativi per il trasloco», disse, sempre in un sussurro. In quell'istante capii tutto. Non voleva farsi sentire dagli altri, perché non voleva fare in modo che potessero ancora prendermi in giro, pensando che magari lui mi avesse dato buca. Gli sorrisi dolcemente, mordendomi distrattamente il labbro inferiore. Leroy era il migliore amico che potessi desiderare. Era un bel ragazzo e, per un periodo molto breve, fortunatamente, anch'io avevo avuto una cotta per lui, così come molte delle ragazze che venivano a scuola con noi. Come biasimarle, Leroy non era solo un bel ragazzo, era anche simpatico, intelligente e, soprattutto, aveva molto fascino. Come mai mi era passata, allora, la cotta? Semplicemente me l'ero fatta passare io, con la forza, perché era un amico, quasi un fratello, non potevo iniziare a vederlo sotto un'altra luce, così facendo avrei rovinato l'unico rapporto, fuori dalla mia famiglia, che per me valeva la pena continuare a coltivare. Anche perché, Leroy, per me, era come se facesse realmente parte della famiglia e non era solo perché lo conoscevo da quando entrambi eravamo stati messi al mondo. Le nostre mamme si erano conosciute in ospedale, qualche giorno prima che, ad entrambe, si rompessero le acque. La cosa realmente assurda? Partorirono lo stesso giorno e, per poco, non partorirono nello stesso momento. Leroy, infatti, era più grande di me di tre ore, minuto in più o minuto in meno.
«Non ti preoccupare, salutami tua mamma», risposi in un soffio, sorridendo ancora, poi tornai a sedermi in modo composto, notando che, l'arrivo del professore, come al solito, non cambiava molto le cose, infatti ognuno continuava a fare come più credeva.

«Le lezioni di storia sono così noiose», disse Leroy, avvicinandosi a me, non appena le prime due ore della giornata terminarono. Aggrottai le sopracciglia e, dopo aver preso i miei libri, stringendoli fra le braccia, mi alzai, guardandolo confusa, anche se con un mezzo sorriso, divertita. Perché? Sapevo bene quello che stava per accadere. Lui, infatti, sbuffò e mi diede una leggera spinta con la spalla. «Scusa, mi dimenticavo che la mia migliore amica è una secchiona», fece, sorridendomi divertito, mentre io ridacchiavo, senza aggiungere nulla. Non me la prendevo, quando lui mi chiamava così, non ci trovavo nulla di male. Anche perché in quella parola, vedevo me. Da sempre si era utilizzata la parola “secchiona” per indicare una ragazza che, invece di sbavare sui calciatori e sulle riviste di moda, preferiva leggere e studiare realmente, per prepararsi ai duri esami che dovrà affrontare, sia a scuola, che nella vita.
«Non ci vedo nulla di male nelle sue lezioni, sono divertenti» Come avevo immaginato, non ebbi neanche il tempo di finire quella frase, che Leroy frenò bruscamente, facendomi scontrare con la sua schiena, visto che si era posizionato d'avanti a me, per tagliarmi la strada, come faceva puntualmente, per farmi innervosire. Si voltò lentamente, poi prese le mie mani e mi si avvicinò, guardandomi negli occhi. Le mie guance si tinsero di un rosa più scuro e mi trovai a deglutire. Si, la mia cotta per lui era passata da un po', ma non ero abituata a trovarmi a quella distanza con un ragazzo. E poi, come avevo già detto, Leroy era realmente un bel ragazzo.
«Elizabeth, ti consiglio di non ripetere più quelle parole, d'avanti a me», sibilò, poi accennò un piccolo sorriso, divertito, molto probabilmente, dall'espressione che avevo fatto; lasciò le mie mani e si allontanò, ridendo. Lui sapeva com'ero fatta e si divertiva a prendermi in giro, anche se, in quello, non ci trovavo nulla di divertente.
«Sei un idiota», borbottai, portando la mia mano sul suo braccio, spingendolo con forza, anche se non sarei riuscita a spostarlo neanche di un millimetro, se lui non me lo avesse permesso. Lui mi guardò, ridendo ancora più di prima. Non capivo perché, ma mi trovava realmente esilarante, quando accadevano certe cose, mentre io lo trovavo sempre più stupido. Lo superai, mentre ancora rideva, poi raggiunsi il mio armadietto, in modo da mettere al loro posto quei libri che, ormai, non mi servivano più.
«Dai, Liz, non te la sarai presa, spero», disse Leroy, con un dolce sorriso stampato sulle sue labbra, mentre, tranquillo, posava la spalla sull'armadietto vicino al mio, guardandomi con attenzione, pur sapendo che mi dava fastidio essere fissata in quel modo. Lui diceva che tra “guardare attentamente” e “fissare” c'era una bella differenza, ma io non la vedevo, sinceramente. Per me era lo stesso seccante.
«Non hai lezione?» domandai, alzando un sopracciglio e guardandolo con la coda dell'occhio, sorridendo con una leggera ironia nella mia espressione. Si, ero consapevole di stare cambiando argomento, ma quello era uno dei miei talenti.
«Si, ma preferisco stare con te», disse lui, ridacchiando e incrociando le braccia al petto. Sospirai pesantemente, chiudendo l'armadietto. Io ero brava, ma con lui non funzionava mai, alla fine si parlava sempre di ciò che voleva lui. Era anche questo il motivo per cui lo adoravo tanto, era così diverso dalle altre persone, dai ragazzi della sua età. Leroy era un giocatore di football e faceva anche parte della squadra di basket, ma non si era mai montato la testa, neanche una volta. O forse ogni tanto si, ma con me non era mai cambiato, era sempre stato lo stesso idiota che conoscevo da quando ero in fasce.

«Stevens, sparisci», dissi, lanciandogli uno sguardo molto eloquente, ma che lo fece solo ridere, come avevo immaginato, visto il soggetto con il quale stavo avendo a che fare.
«Ma, Liz, tu così mi ferisci», fece, con un tono melodrammatico, ovviamente tutto finto, prendendo la mia mano, anche se avevo fatto tanto per non farglielo fare, e portandola sul suo petto. «Lo senti? Il mio povero cuore, è ferito», continuò, teatralmente. Arrossii leggermente, rendendomi conto che qualcuno ci stava osservando. Io adoravo Leroy, ma, anche se spesso non mi portava sotto i riflettori, a volte riusciva proprio a mettermi in imbarazzo.

«Finiscila, idiota», borbottai, togliendo la mia mano con uno scatto, per poi, con i libri stretti al petto, raggiungere velocemente l'aula dove avrei assistito alla lezione di letteratura, lasciandomi dietro la voce divertita del mio migliore amico, che, fra le risate, esclamava: «Liz! Stavo scherzando!»

 

La lezione di letteratura era stata, come al solito, molto interessante, anche se il professore non aveva detto niente che già non sapessi. Sospirai, camminando lentamente per i corridoi, in modo da raggiungere l'aula della mia prossima lezione, peccato che, come ogni volta che mi sembrava che stesse andando tutto bene, mi trovavo nel posto sbagliato, al momento sbagliato.

«E quindi sei stato tu a mettere quella canna nel libro di Kyle?» Mi fermai con uno scatto, spontaneamente, sentendo quella voce femminile, puramente divertita. Non riuscivo a capire, come mai, in quelle situazioni, il mio corpo agiva da solo, senza dar retta alla mia mente, a quella vocina che continuava ad urlare di andarmene, prima che venissi al corrente di un qualcosa che, sicuramente, prima o poi, mi avrebbe messa nei guai.
«Certo, ma è stato divertente vederlo prendersela con quell'idiota di Jay», disse l'altra voce, maschile, rispondendo a ciò che la ragazza gli aveva chiesto. Delle risatine spezzarono il silenzio che si sarebbe venuto a creare, mentre io deglutivo. In fondo non ero molto nei guai, giusto? Non avevo neanche capito di chi si trattasse. Sospirai e feci per andare avanti, prima che scoprissi realmente qualcosa, quando loro mi passarono d'avanti e, per me, fu impossibile non capire di chi si trattasse. La ragazza che aveva parlato prima era Meredith e mi diedi dell'idiota per non aver riconosciuto quella voce, dal suono quasi perfetto, se non fosse stato per quell'irritante modo di renderla acuta nel momento in cui rideva.
Lui, invece, era il quarterback della squadra di football. Alto, spalle larghe, ma non troppo; capelli rasati di lato, occhi verdi e labbra leggermente carnose, ma giusto di poco, perennemente increspate in un sorriso malizioso e strafottente. Perfetto. Ora non solo ero a conoscenza di un piccolo, sporco segreto, ma era anche il piccolo, sporco segreto del capitano della squadra di football.
Loro andarono oltre, senza neanche rendersi conto della mia presenza, fortunatamente. Sospirai e mi appiattii contro il muro, passandomi una mano sulla fronte, tremando.
«Sono fregata», sussurrai.

 

Camminavo velocemente, avanti e indietro, quasi consumando il pavimento della mia stanza, mentre, con il cellulare in mano, aspettavo che mi richiamasse. Non avevo mai dato peso alle telefonate, a meno che non si stesse parlando di lui, lì diventavo ansiosa, molto. Perché doveva essere così lontano da me, dicevo io, non poteva restare lì con me, a Santa Monica? Non lo capivo. Sbuffai, fermandomi per un istante, guardando il display nero del cellulare, poi sospirai pesantemente e uscii dalla mia camera, forse era meglio prendere un po' d'aria, per non impazzire. Raggiunsi la cucina e aprii la finestra che dava al giardino, posando per un istante il mio telefono sul tavolo. Proprio nel momento in cui, ad occhi chiusi, ero affacciata alla finestra, respirando a pieni polmoni quell'aria fresca, il cellulare squillò. Sussultai e, con uno scatto, lo afferrai, accettando di fretta la chiamata, accostando l'apparecchio al mio orecchio, deglutendo.

«P-Pronto?» Chiesi, portando una mano sulla mia gola, sentendo il cuore battere forte, mentre, ripetutamente, pregavo che fosse lui e non una di quelle stupide persone pagate per rompere le scatole alla gente, chiedendo di promozioni e robe varie.

«Amore, ciao.» La voce maschile che proveniva dall'altra parte della cornetta mi fece irrigidire per un istante. Subito dopo tornai a respirare, mentre sul mio volto si stampava un sorriso allegro, emozionato.
«Papà! Ce l'hai fatta, a chiamarmi!» Esclamai, rendendomi conto che la mia voce era leggermente tremolante. Forse perché erano due mesi che non lo vedevo e, in quei due mesi, lo avevo sentito si e no tre volte, compresa quella. Mi mancava tantissimo, ma il suo lavoro gli impediva di passare molto tempo a casa. Non glie ne facevo una colpa, sapevo che lavorava così tanto per potermi assicurare un futuro, una volta diventata ancora più grande.
«Certo, piccolina. Te lo avevo promesso», mi disse e, ne ero sicura, in quel momento stava sorridendo anche lui. «Mi manchi, passerotta», disse ancora, mentre io deglutivo, mordendomi il labbro inferiore. Si, lo sapevo che gli mancavo, non avevo mai avuto dubbi, al riguardo.

«E' ovvio che ti manco. Chi ha il coraggio di farti il bucato, quando non ci sono io?» Chiesi, buttandola sullo scherzo, sull'ironico. Non avevo voglia di piangere, non a telefono con lui, almeno. Non volevo che si sentisse in colpa, che stesse male. Doveva solo ridere e rendersi conto che, anche se erano passati due mesi, io non mi buttavo giù. Prima o poi lo avrei rivisto.

«Hai ragione, solo una persona molto coraggiosa, potrebbe fare una cosa del genere», disse, stando al gioco, mentre, lo sentivo benissimo, cercava di trattenere le risate. Mio padre, Leonard, era sempre stato un uomo molto allegro, dolce e spiritoso, ma sempre pronto a fare il serio quando il momento lo richiedeva. Era un ottimo lavoratore, era un archeologo e, spesso, doveva stare lontano da me. Accennai una piccola risatina e mi leccai le labbra, sedendomi al tavolo, iniziando a giocare con una ciocca di capelli, da dietro la nuca, arrotolandola con lentezza, liberandola dalla pressione dell'elastico che teneva tutti i miei capelli stretti in una coda di cavallo, come sempre.

«Piccola», iniziò lui, incupendosi improvvisamente. In quel momento, capii tutto. Sospirai pesantemente e il sorriso mi morì sulle labbra, che vennero immediatamente torturate dai miei denti.

«Non preoccuparti, so che non è colpa tua», sussurrai, accennando un sorriso. Mi dispiaceva dover già chiudere la telefonata con mio padre, ma sapevo anche che era il suo lavoro, che gli prendeva troppo tempo, e che, magari il prima possibile, avrei potuto abbracciarlo forte.
«Ti prometto che, quando tornerò, faremo la più grande festa “padre-figlia” di sempre», promise, facendomi ridacchiare. «Ora ti devo lasciare, topolina. Ti chiamo appena posso, promesso», sussurrò.
«Buon lavoro, papà. Ti voglio bene», soffiai, dolcemente, mentre i miei occhi si chiudevano.
«Te ne voglio anch'io». Così si concluse la chiamata, la quale, sicuramente, non era una delle più lunghe, ma almeno era qualcosa. Riaprii gli occhi, osservando il cellulare, poi sorrisi appena e deglutii subito dopo, alzandomi. Quella casa era terribilmente silenziosa, quando non c'era lui, ma riuscivo a sopportarlo grazie alla presenza di Leroy e di mia madre. I miei genitori erano separati, già da un paio d'anni, e stavano lavorando sulle carte per il divorzio, ma non per questo non si parlavano, oppure mi mettevano in mezzo ad assurde lotte. Il motivo della separazione era stato uno, in particolare: mia madre si era innamorata di un'altra persona. Quello che c'era fra i miei genitori, a quanto pareva, non era amore, ma era solo un gran bene, per questo papà aveva capito quando, la mia mamma, Emily, aveva portato a casa il suo nuovo amore. Come l'avevo presa io? Inizialmente ero rimasta paralizzata dalla sorpresa, poi, però, era andato tutto per il meglio. Insomma, lei mi era anche simpatica. Oh, mi ero dimenticata di specificarlo, a quanto pareva, ma mia madre si era innamorata di una donna.

«Sono tornata, amore!» La voce di mia madre mi destò dai miei pensieri. Sorrisi e la raggiunsi in salotto, baciandole la guancia, con dolcezza, puntando i miei occhi azzurri nei suoi, talmente tanto scuri da sembrare quasi neri.
«Ben tornata, mamma. Vado di sopra a studiare per la verifica di scienze», dissi, sorridendole appena, incamminandomi verso le scale. Mi fermai, però, nel momento in cui sentii lei sbuffare. Rimasi ferma, dandole le spalle, e sorrisi, alzando gli occhi al cielo. Uno...due...tre, pensai.
«Amore, io non voglio giudicarti, ma stai sempre chiusa in camera tua a studiare. Perché non esci? E' una così bella giornata. Perché non chiami Leroy? E' un amore di ragazzo, sicuramente sarà felice di uscire un po' con te». Ridacchiai, leccandomi le labbra. Si, sapevo benissimo che avrebbe iniziato con la solita solfa, ma, in fondo, non mi dava fastidio, lei si preoccupava per me, era normale. Si dispiaceva all'idea che il mio unico amico fosse Leroy...e che conoscevo lui solo perché lei era amica di sua madre.
«Mamma, non ti devi preoccupare. Oggi Leroy aveva da fare con sua madre, usciremo domani», dissi, divertita, poi salii le scale e sospirai, entrando in camera mia, al sicuro dagli sproloqui di quella donna che tanto adoravo. Era impossibile che da due fuori di testa come i miei genitori, fossi nata io. Forse la loro pazzia era qualcosa che arrivava con il raggiungimento della maggiore età. A questo punto speravo di essere stata adottata. 


Angolo pazzo.

Auguro un buon pomeriggio/buona serata a tutti quanti. Questa storia non è nulla di che, è uscita dalla mia mente all'improvviso e non ho neanche idea di quello che accadrà. Posso dire soltanto che la protagonista - per quanto il presta volto sia meraviglioso - è una piccola secchiona, che si troverà in molti guai. Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto. Tanti saluti, Pat! :)


Ps: Vorrei ringraziare di cuore il mio amore, Nay Nay, che ha fatto la copertina per la mia storia <3
 
  
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