Fanfic su artisti musicali > Austin Mahone
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Autore: _browneyes    19/07/2014    4 recensioni
Quattro anni.
Sono tanto tempo per amare una persona, per farla diventare speciale per te, per renderla parte del tuo mondo.
Quattro anni sono anche una lunga attesa però, una lunga attesa che a volte può essere ricompensata.
(30.06.2014)
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-Four years-



Quattro anni fa c’era una ragazzina, dieci o undici anni, che con i suoi cugini stava guardando video su YouTube.
Ad un certo punto lei aveva visto un video correlato che la incuriosiva così aveva lottato con suo cugino per il possesso del mouse e, una volta vinto, avevo cliccato il video.
Sullo schermo apparve un ragazzino, piccolo, forse i due o tre anni più grande di lei che cantava.
Cantava Baby di Justin Bieber e lei non potè proprio fare a meno di notare quanto fosse bravo e quanto la sua voce fosse bella.
Rimase immobile, in silenzio ad ascoltarlo per tutta la durata dell’esibizione, poi prese una penna ed un foglio e si affrettò ad annotarsi il suo nome. Non si era mai sentita così ascoltando qualcuno cantare e voleva a tutti i costi ritrovare quel ragazzino chiamato Austin Mahone.
Quella sera scrisse al suo diario di lui per la prima volta.

“Caro diario,
oggi su YouTube ho visto un ragazzino bravissimo a cantare. Si chiama Austin Mahone, non lo seguono in tanti ma a me già piace tanto e lo seguirò per sempre da ora.”

Nei giorni e negli anni seguenti passò il tempo a supplicare i suoi genitori affinchè le prestassero il loro computer per farle vedere quel ragazzo finchè non fu abbastanza grande da avere il suo proprio computer e cellulare.
A volte passava pomeriggi interi a riguardare i video che ormai conosceva a memoria, emozionandosi sempre come se fosse la prima volta.

E in questo modo è crescita e lui con lei. Sono cresciuti insieme.
Ma, lo sanno tutti, crescere a volte fa male.
Nel caso della nostra ragazza fu davvero, davvero doloroso.
Non era accettata per quello che era, non si sentiva mai abbastanza per compiacere gli altri, eccetto due o tre amici che aveva sin da quando era piccola. Gli altri erano tutti falsi con lei, la usavano per copiare e poi le dicevano dietro che era strana, insopportabile, brutta, asociale, che non andava bene.
Lei iniziò a crederci e ci stava male.
Odiava se stessa.
Ogni mattina quando si guardava allo specchio, sperando di vedersi cambiata, ma era sempre la stessa solita faccia. Non c’era nulla, né a livello fisico né a livello caratteriale che le piacesse di se stessa.
Non c’era nessuno che potesse dirle di non pensarla così perché non credeva a nessuno dei pochi che le erano rimasti, credendo che potessero essere falsi anche loro; l’unica persona di cui si fidava viveva a kilometri e kilometri di distanza da lei.
Ad un certo punto lui divenne la sua luce, la mano che venne a sostenerla nel buoio, l’unica persona che le impedisse di crollare del tutto.

“Ehy Martina, esci con noi?”
“No”
“Perché?”
“Nessuno mi vuole davvero lì”
“Non puoi pensarla così, non è vero e tu non puoi stare solo davanti un computer”
“Lo so, ma lui è l’unico che mi capisce, l’unico di cui mi fido”
“Ma non lo conosci nemmeno”
“Lo so, ma non posso farci niente”


Ad un certo punto si stancò di tutto questo, si stancò di stare male e tirò fuori tutto quello che si era tenuta dentro per troppo tempo, pensando che poi sarebbe andata meglio.
Peggiorò tutto.
Gli insulti, per tutto, iniziarono a pioverle addosso come una cascata. Glieli urlavano in faccia, glieli scrivevano su infantili gruppi di What’s App, ovunque. E lei faceva finta di niente, fingeva che non le importasse, ma non era vero. Si chiudeva in camera e piangeva dove nessuno poteva vederla o sentirla.
Fingeva di essere forte, ma non lo era.
Poi capì che solo una persona la rendeva forte, così tornò con le cuffiette nelle orecchie e fece partire la sua voce a tutto volume. Pianse, tanto, poi capì che non doveva perché loro non erano importanti, mentre Austin lo era e pensare a lui le faceva capire quanto gli altri fossero insignificanti.
Si aggrappò alla sua voce come se fosse l’ultima ancora di salvezza rimasta sulla terra, e forse per lei lo era.
Il bisogno di lui divenne così tanto schiacciante da fare male a volte. Lui ormai era come ossigeno, era indispensabile, era parte di lei.
Austin era quello che custodiva i suoi segreti, il suo desiderio delle 11 e 11, il suo primo amore, l’unico che avesse mai avuto il suo cuore.
Ma nessuno riusciva a capire quanto fosse importante per lei.

“Che cosa stai facendo?”
“Ascolto Austin”
“Ancora?”
“Tu non riesci proprio a capirlo quanto significhi per me, vero?”
“Marcola io ci provo, ma non capisco cosa di così speciale questo Justin”
“Austin papà, si chiama Austin”
“Austin, giusto. Non mi sembra così speciale”
“Lui è tutto per me”


Austin Carter Mahone.
Per lei l’amore erano quelle tre parole, quel nome.
Quel nome era tutto.
E lei aveva così tanto bisogno di lui, di vederlo dopo quattro anni, di abbracciarlo.
Le faceva male.
Si svegliava e andava a dormire con solo quel pensiero in testa.
Aveva bisogno di un suo abbraccio quasi quanto aveva bisogno dell’aria.
Non ne parlava quasi con nessuno, anche ammetterlo ad alta voce la feriva.

“Sei una persona fortunata, lo sai?”
“Perché”
“Perché la persona che ami, di cui hai bisogno è vicino a te, non a migliaia di kilometri, non avete ore e ore di fuso orario, non devi sempre pregare perché lui si accorga che tu esisti perché lui lo sa ed è vicino a te. Sei fortunata perché non senti tanta mancanza che ti fa male, sei fortunata perché chi ami non vive dall’altra parte del mondo”

Poi Universal Music annunciò che sarebbe venuto in Italia, che avrebbe fatto una signing, il 30 Giugno a Milano.
In quei giorni lei sarebbe stata a Milano, la consapevolezza la invase.
Avrebbe visto Austin, finalmente.
Ma i suoi piani, purtroppo, non andavano mai bene.
Sua madre le disse che sarebbero partiti presto perché avevano l’aereo per Edimburgo a mezzogiorno, a Roma.
All’inizio lei non poteva, non voleva crederci. Poi realizzò. Aveva creduto di esserci finalmente vicina, si era illusa che finalmente dopo tutto quel tempo avrebbe visto il suo idolo.
Scoppiò a piangere e rimase in camera sua, sotto le coperte a piangere disperata. Saltò la cena, non parlò con nessuno.
Pianse per quasi cinque ore, cacciando i suoi genitori, suo fratello, ignorando tutti i messaggi. Era il dolore più grande di tutti, l’esserci vicina e non riuscirci.
Poi bussò sua madre, per l’ennesima volta.

“Vai via”
“Abbiamo spostato l’aereo, abbiamo capito quanto lui significhi per te. Partiamo da Milano il 30 sera”
“Cosa?”
“Tu lo vedrai”

Lei non riusciva a crederci. Rimase senza parole, incredula.
L’avevano capito.
Avevano ritardato un volo, un treno solo per lei, per il suo sogno.
Scoppiò di nuovo a piangere, di gioia, di pura gioia e tra i singhiozzi ringraziò sua madre una, cento, mille volte. Non ci credeva, ce l’avrebbe fatta, avrebbe finalmente visto il suo tutto.
Avrebbe visto colui di cui aveva e avrebbe sempre avuto bisogno, l’angelo che l’aveva salvata.

You don’t understand how much you really men to me,
I need you in my life, you’re my necessity
But, believe me, you’re everything that just make my world complete
And my love is clear, you’re the only thing I’ll ever see
You’re all I ever need
Baby you’re amazing
You’re my angel come and save me.


Un pomeriggio di Giugno, ad una settimana esatta dalla grande data, la Universal diede un altro annuncio: Austin non avrebbe fatto una signing, avrebbe fatto un Meet&Greet.
Lei iniziò a piangere. Non l’avrebbe solo visto, l’avrebbe abbracciato finalmente.
Avrebbe avuto l’abbraccio che sognava da sempre.
Avrebbe visto il suo idolo, il suo amore, il suo Austin.
Avrebbe realizzato il suo sogno.
Ce l’avrebbe fatta.

E così il 30 giugno alle 5 e mezzo del mattino era lì, seduta sul marciapiede del Bobino Club di Milano, con la sua maglietta piena di scritte, la sua lettera per Austin nella borsa insieme al suo cd e allo scontrino (che controllava ogni minuto, tanto per essere sicura) e il numero 34 scritto in viola sul dorso della mano sinistra.
Nove ore (fino alle 15) passarono molto lentamente per lei, nonostante la compagnia dei ragazzi adorabili e simpaticissimi con cui aveva fatto amicizia.
Era tesa, agitata, nervosa, il cuore già all’impazzata.
Alle 14.30 iniziarono a far alzare le persone e a metterle in fila.
Quando la fecero alzare già il suo cuore batteva così velocemente che lei temeva le sarebbe sfuggito dal petto.
Li fecero scendere dove si teneva il Meet e, una volta passato l’angolo lei lo vide.
Bellissimo, con quel suo solito sorriso che il Paradiso gli invidiava. Tutto perse importanza, rimase ferma a fissarlo ignorando tutto il resto. Il sole sarebbe potuto esplodere in quel momento e lei non l’avrebbe notato, così come non si era accorta che intanto la fila stava scorrendo e, finchè il ragazzo dietro di lei non le disse di non piangere, non si era resa conto di star piangendo.
E in quello stato di trance non si era accorta di essere la prossima.
Nel momento in cui era toccato a lei era rimasta paralizzata, non ci credeva, non riusciva più a muovere un muscolo.
Fu solo nel momento in cui Austin si voltò verso di lei, sorridendole incoraggiante, bello come non mai che si sciolse e corse vero di lui, tuffandosi finalmente dopo quattro anni tra le sue braccia, che la strinsero come non aveva mai osato sognare.

Ma questa volta non era un sogno.
Lei lo stava davvero abbracciando, era davvero fra le sue braccia.
Realizzando che, finalmente, era la realtà scoppiò a piangere in singhiozzi sulla spalla del suo idolo che, forse cercando di calmarla, iniziò ad accarezzarle la schiena,
“Don’t cry” le disse lui “It’s good to see you”
Lei piangeva ancora.
Stava parlando con lei. Stava abbracciando lei.
Fecero la foto e poi lei lo abbracciò di nuovo.
Un ultimo abbraccio.
“I love you” riuscì a dirgli fra le lacrime.
“I love you too and more” le rispose lui ed il suo cuore esplose.

Scoppiò di nuovo a piangere tenendolo stretto a sé, il suo Austin.
Chiuse un attimo gli occhi, respirando il suo profumo e pregò che quell’istante durasse per sempre.
Si ripeteva che non sognava, che era reale una volta tanto.
Aveva i brividi ovunque e non erano dovuti al freddo, aveva gli occhi rossi, il cuore che minacciava di bucarle il petto ma non le importava.
Non le importava di niente e di nessuno, solo di Austin, del suo Austin.
Dovettero arrivare due guardie del corpo prima che lei si staccasse da lui che le prese la mano, facendola semplicemente morire.
Lei strinse quella mano come se fosse l’ultima ancora di salvezza e lui la tenne fino alla fine, fino a quando erano troppo lontani per toccarsi.
Lei scoppiò di nuovo a piangere, ma era un pianto di pura felicità.
Ce l’aveva fatta.
L’aveva abbracciato.
Dopo quattro anni di attesa, di risate, di pianti, di tristezza, di gioia, di amore ce l’aveva fatta.
Aveva abbracciato il suo idolo, il suo ossigeno, la sua vita, il suo universo, il suo Austin.

 

Awapunga
Ho internet per poco, perciò sarò breve.
Questa os l’ho scritta sul treno da Milano a Roma, un paio di ore dopo aver abbracciato Austin e ora, rileggendola, vi giuro, sto piangendo peggio di quel giorno.
Avrei voluto pubblicarla prima ma non ho avuto connessione, comunque questa è stata la mia esperienza, gli ultimi quattro anni della mia vita.
Quattro anni di viaggio verso un sogno, raccontati in terza persona per essere più sincera. E questo è quello che è venuto fuori.
Grazie se avete letto fin qui
Un bacio,
-Mars

  
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