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Autore: batcamem    19/07/2014    1 recensioni
“Camilla consegnati a me e nessuno si farà male!” gridò con la voce roca il mostro.
“Mai!” risposi afferrando un sanpietrino da terra e tirandoglielo contro. La colpii sulla fronte e guadagnai qualche secondo di tempo.
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La guardai e sotto lo sguardo di tutti annunciai: “La ragazza è ancora viva.”
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Camilla ha 16 anni, vive a Roma con la sua famiglia ed è più che felice. Un giorno, trovandosi in giro con il suo ragazzo Rob, viene inseguita da uno strano mostro: una Furia.
Spaventata scappa e viene salvata da due ragazzi molto speciali...
Genere: Avventura, Comico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Leo Valdez, Nico di Angelo, Nuovo personaggio, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota dell'autrice: ho iniziato a scrivere questa storia così, per divertimento (ma soprattutto perché io la notte non ho niente da fare, mi annoio). Credo sia più un esperimento e non so se lo porterò avanti. E se continuerà non so nemmeno quanti capitoli avrà.
Ovviamente la mia long continuerà, domani cercherò di aggiornare!
Prima di decidere se continuare o no questa storia, voglio sapere come ve ne pare. 
Un bacio e alla prossima!

Mi tuffo nel Tevere.

Stavo correndo il più velocemente possibile tra le strade di Roma, la borsa sulla spalla sinistra e il cellulare stretto tra le mani sudate. A cosa mi sarebbe potuto servire? Non lo sapevo nemmeno io.
Dietro di me volava una strana creatura: grosso corpo squamoso e grossi artigli al posto delle dita, occhi rossi e brillanti e lunghe ali. Non sapevo cosa fosse, ma temevo che ce l’avesse a morte con me.
“Camilla consegnati a me e nessuno si farà male!” gridò con la voce roca il mostro.
“Mai!” risposi afferrando un sanpietrino da terra e tirandoglielo contro. La colpii sulla fronte e guadagnai qualche secondo di tempo.
Stavo correndo da ormai 20 minuti, o poco più. Il fiato iniziava a mancarmi e i polmoni mi bruciavano.
Trovandomi a Trastevere, uno dei quartieri più conosciuti della città, avevo molti posti nei quali nascondermi. Infatti scesi delle scalette in pietra che mi portavano dritte dritte sulle sponde del Tevere e lì sotto le piante crescevano rigogliose.
Scesi tre gradini alla volta e rischiai almeno cinque volte di cadere a faccia avanti.
Dietro di me la strana creatura era scomparsa, così ebbi il tempo di infilarmi nelle aiuole e buttarmi tra le piante alte e gli alberelli.
Rimasi in silenzio, cercando di accumulare altre energie e altro fiato, considerando il forte dolore al petto. Chiusi gli occhi e mi rilassai, scrissi velocemente un messaggio a mia madre, ma non feci in tempo a inviarlo che una voce mi fece trasalire.
“Eccoti qui!” alzai lo sguardo e mi trovai a un metro di distanza il mostro che mi mostrava con un ghigno tutti i suoi denti affilati come rasoi.
Cacciai un urlo di terrore e, gattonando, uscii da quel posticino, mi alzai e ripresi a scappare.
Ormai non avevo più molto tempo per scegliere dove rifugiarmi, quando mi venne in mente di fare la cosa più pazza del mondo: tuffarmi nel Tevere.
Certo, il fiume non aveva la fama di essere il più pulito del mondo, ma non avevo altra scelta.
In pochi secondi mi trovai sul ciglio della banchina. Potevo ripensarci, ovvio, però sapevo che se avessi continuato a correre sarei crollata dalla stanchezza.
Per la prima volta nella mia vita scelsi l’opzione più suicida senza pensarci troppo su, senza riflettere sulle conseguenze, e…
SPLASH! Mi tuffai di testa sentendo come ultimo suono il “No!” del mostro che mi ero lasciata alle spalle.
La corrente forte mi spinse subito giù, verso il fondo. Un’infinità di detriti mi colpirono sulle braccia, sulle gambe e sul viso. Gli occhiali grandi, però, per mia fortuna mi proteggevano gli occhi.
Mossi a vanvera i miei arti, cercando un appiglio in superficie (magari un grosso tronco o una delle tante colonne che sostenevano i ponti in mattoni). Niente.
In testa mi balenò un pensiero: se non esco subito, morirò affogata! Provai anche a salire nuotando, ma fallii anche con quello. Non avevo altra scelta che morire affogata.
Aspettai lasciandomi andare, quando provai a respirare e… nulla. L’aria riempì nuovamente i miei polmoni doloranti, l’ossigeno ritornò a scorrere con il sangue nelle vene e mi sentii rinvigorita.
Aprii gli occhi e vidi tutto come se avessi indossato un paio di occhialetti da piscina: lattine di coca-cola vuote, cartoni di pizza in via di decomposizione, carpe rosse che si facevano largo tra i detriti, bottiglie di birra, scarpe logore e… oro, tanto oro!
Sui fondali, poco lontano da dove mi trovavo io, c’erano degli oggetti d’oro vero incastrati sotto la sabbia. Pensai a come fossero finiti lì, quando mi ricordai di una lezione di storia della quinta elementare (strano a dirsi, ma molte cose, anche a distanza di anni, le ricordavo!).
I romani dei ceti più alti, coloro che vivevano delle conosciutissime Domus, erano proprietari di grandi quantità d’oro. Non sapendo molto spesso cosa farcene, lanciavano i loro oggetti di quel metallo prezioso nel fiume invitando i più poveri a tuffarsi per recuperarli. Sfortunatamente i poveri non sapevano nuotare e affogavano cercando di recuperare gli oggetti.
Per questo il fiume era pieno di oggetti preziosi.
Affascinata da tutta quella roba nuotai più verso il basso e afferrai una collana con un grosso ciondolo, lo misi in tasca e risalii dandomi una spinta. Questa volta riemersi senza più tanti problemi.
La borsa era ormai fradicia e il telefono lo avevo perso poco dopo essermi tuffata. Me ne sarei dovuta comprare uno nuovo al più presto, se sarei voluta sopravvivere.
Mi avvicinai alla banchina e, con un po’ di fatica, mi tirai su. Finalmente ero fuori!
Esultai ballando da sola sotto il sole rimediandomi occhiatacce dai corridori e dai vecchietti che camminavano portando a spasso il proprio cane. In generale dai passanti.
Mi toccai i vestiti e…
“Cazzo, ma io sono asciutta!” esclamai sgomenta.
“Sì ragazza, sei asciutta!” sentii una voce seguita da una risata.
Non capii da dove provenisse, mi girai fino a quando vidi una strana immagine fluttuare proprio sopra l’acqua del fiume. Nell’immagine compariva un ragazzo dai capelli ricci e scuri, la pelle abbronzata e un sorriso smagliante. Mi stava salutando e trattenendo a stento le risate. Chissà che espressione avevo!
“C-i-a-o, i-o s-o-n-o L-e-o!” scandì lettera per lettera, come se io non capissi la lingua.
“Leo Valdez, smettila di fare lo stupido!” una voce roca si sentì in sottofondo e comparve di fianco al ragazzo un uomo… no, un cavallo… o, ma che era? Un uomo-cavallo. Sì.
Rimasi a bocca aperta nel vederlo: per metà, dalla vita in su, era un uomo sulla quarantina, capelli e barba dello stesso colore e ben curati; dalla vita in giù, invece, era uno stallone bianco. Portava sulla spalla una faretra e stringeva tra le mani un arco.
Nella mia mente scorrevano infinite immagini e altrettanti pensieri. Tutto era così confuso!
Iniziai a giocare con la cinghia della borsa, come facevo sempre. Il mio sguardo guizzava da tutte le parti, senza mai posarsi in un punto preciso.
“Mmmh… tu dovresti essere Camilla, se non sbaglio.” Disse l’uomo-cavallo accarezzandosi il mento.
Scattai con il viso verso di loro e annuii con la testa. Come facevano a sapere il mio nome? “Sì, sono io, ma-” venni interrotta dal ragazzo.
“Perfetto, a breve dovrebbe arrivare una squadra di soccorso. Hai tutto quello che ti serve?” mi domandò e io mi guardai: avevo la borsa con dentro un giubbino di jeans e i vestiti leggeri che indossavo da quella mattina.
“No, credo di no…” risposi osservando le mie scarpe da ginnastica nere e alte.
“Non ti preoccupare. Pensa solo di stare attenta in queste poche ore. Non tornare a casa, rimani lì che verranno i soccorsi a prenderti.” Disse sorridendomi.
“Ma che cosa?!” dissi, ma in quel momento l’immagine si stava per dissolvere. Feci qualche passo avanti e…
“Attenta che così cadi!” un braccio mi afferrò per le spalle, appena in tempo prima che cadessi di nuovo in acqua.
Mi girai e vidi un ragazzo molto più alto di me con i capelli neri, gli occhi verdi e un sorriso smagliante. Poco più lontano, c’erano tre cavalli con… le ali?
Ehi, ciao amica! Disse uno di loro e dallo spavento indietreggiai. Da quando in qua i cavalli parlavano?!
“Non ti preoccupare, è solo la mia ragazza!” il ragazzo rise vedendomi spaventata. “Lei è Annabeth, figlia di Atena.” Una ragazza scese da uno dei due cavalli e venne verso di noi.
“Figlia di chi…?” domandai confusa. Avevo capito male o aveva detto veramente Atena?
“Figlia di Atena. Sì, la dea della saggezza e della guerra.” Mi sorrise e mi porse la mano. La strinsi esitando un poco all’inizio.
“Io invece sono Percy, figlio del dio Poseidone!” disse il ragazzo con un tono solenne.
Li guardai insieme. La ragazza era veramente molto bella! Alta con il fisico atletico, capelli biondi e occhi grigi e lucenti.
Io in confronto a lei potevo sembrare un’ameba!
“Voi siete i ragazzi di cui mi ha parlato il ragazzo dell’immagine?” domandai indicando un punto alle mie spalle. I due guardarono ma non videro niente, poi lei rise e capì.
“Ah! L’iPhone! Sì, di sicuro è stato Leo a mandartelo. Devi capire che noi non usiamo cellulari e altri oggetti elettronici, è pericoloso!” mi spiegò, ma non capii lo stesso.
“Ma usate l’iPhone. Quello non è un cellulare?” domandai inarcando un sopracciglio.
Scoppiarono entrambi a ridere.
“No!” Percy si asciugò le lacrime agli occhi. “Quello che noi intendiamo con iPhone è Messaggio Iride. La i sta per Iride. È molto più facile comunicare in quel modo.. ma ora non preoccupiamoci di queste cose! Ci tocca fare un lungo viaggio prima di arrivare la Campo!”
I due ragazzi si avvicinarono ai cavalli alati: Annabeth montò su quello color caramello, mentre Percy su quello nero.
Ciao! Disse allegramente Io sono Blackjack. Hai una ciambella?
“Io dovrei salire su uno di questi… cavalli?” domandai indicando l’ultimo rimasto, quello marrone e più piccolo.
Cavallo a chi, donna! Nitrì.
“Calmo, è un’amica lei!” disse il ragazzo rimproverandolo. “Scusalo, è un po’ permaloso.”
Sgranai gli occhi. “Ho sentito.”
Dopo quella affermazione non mi sfuggì l’occhiata che si scambiarono i due fidanzati. Sembravano… preoccupati? Ansiosi? Non lo capii.
“Ok… giuro che non ti faccio del male, ma mi faresti salire per favore?” gli domandai e intanto pensai a quanto fosse stupido parlare con un cavallo. Lui, in risposta, chinò le zampe anteriori e mi fece montare. “Grazie mille.”
Di niente! Nitrì nuovamente.
“Ti dice prego.” Mi suggerì Percy.
“Non ti preoccupare, capisco quello che mi dice!” sorrisi. “Allora… dove si va?”
  
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