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Autore: Avery Silver    19/07/2014    5 recensioni
Una ragazza potrebbe mai innamorarsi di un sogno?
Aprilynne è una normalissima ragazza di 15 anni, studia in un liceo musicale e coreutico in periferia e frequenta il secondo anno. Abita assieme ai suoi genitori in una grande casa del centro città della sua amata isola.
Ma non è del tutto così… di notte ha un'altra vita, fatta di sogni premonitori, visioni realistiche del passato e del futuro… che al suo risveglio segnano il suo corpo delle sue esperienze nel mondo dei sogni che per lei sembra essere così vivido e in qualche modo reale.
Ma soprattutto nella sua seconda vita lei incontra ogni notte tre misteriosi ragazzi, bellissimi e affascinanti e del tutto differenti l'uno dall'altro.
April impara subito ad amare quei tre ragazzi, uno in particolare poi le farà provare sensazioni che mai nella vita reale avrebbe osato anche solo immaginare.
Un amore impossibile che muore con l'arrivo del giorno e che rinasce al calare della notte.
Ma un giorno tutto cambiò quando si ritrova i tre ragazzi nella vita reale… ed April scopre che non sono frutto della sua immaginazione ma che sono i membri di una band famosissima nell'isola, chiamata Soul's Fire…
Genere: Sentimentale, Song-fic, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Castiel, Kentin, Lysandro, Nathaniel, Nuovo personaggio
Note: Lemon | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Capitolo 1

❥❥ LET ME GO (Avril Lavigne)




 
Una fitta nebbia bianca mi avvolgeva.
La foresta attorno a me era scura, silenziosa e inquietante.
Era da ore che camminavo ma il paesaggio sembrava non cambiare mai. Alla fine sbuffai contrariata e con un impeto di irritazione e rabbia mi sedetti su una roccia là vicino guardandomi di nuovo attorno per capire dove ero finita.
Ma era tutto inutile… come al solito.
Arresa, ricominciai a camminare e poi a correre per scaricare un po' la tensione.
Il ramo di un pino mi frustò la mano graffiandomi il palmo, strinsi i denti e continuai a correre.
Corsi finché un lago mi sbarrò la strada.
Mi fermai piegandomi, le mani sulle ginocchia per riprendere fiato…
Mi avvicinai all'acqua accarezzata da quella fitta nebbia bianca che sembrava quasi essere fumo dalla sua densità.
Mi sporsi dalle rocce del lago per guardare l'acqua.
Il mio riflesso mi fissò di rimando.
Sospirai e scesi giù dalle rocce cozzando contro qualcosa di metallo.
Abbassai lo sguardo.
Era un pugnale lungo quanto il mio avambraccio… e tutto sporco di sangue.
Lo presi in mano.
Che cosa ci faceva un pugnale qua…?
« April…! » cantilenò una voce femminile alle mie spalle.
Mi girai di scatto il coltello stretto in pugno.
Una donna mi guardava, un sorriso maligno sulle labbra screpolate. Gli occhi marroni pieni di cattiveria mi fecero cenno di guardare ai suoi piedi.
Un ragazzo era riverso sul terreno, il petto sanguinava… gli occhi erano vuoti.
Alex…
Un grido si formò nella mia gola ma mi uscì fuori solo un suono soffocato, le lacrime già mi rigavano le guance.
« April che cosa hai fatto?!? » cantilenò ancora con inquietante allegria la donna.
Guardai il coltello che avevo in mano e lo lasciai cadere come se scottasse.
« April oddio… » mia madre mi guardava un po' di metri più in là, gli occhi gonfi di lacrime mentre correva da mio fratello scuotendolo e chiamando lo per nome.
« Oddio lo hai ucciso! » mi strillò contro mia madre, gli occhi pieni di odio e dolore.
« No… » sussurrai, i singhiozzi che mi spaccavano il petto e i polmoni.
« Lo hai ucciso tu! » mi accusò lei tirandosi negli occhi ora c'è solo ira cieca.
Si avvicinò con aria minacciosa, la mano sollevata come se volesse tirarmi una sberla.
« No! » gridai bloccandole la mano.
« Lo hai ucciso! Lo hai ucciso! » gridò mia madre dimenandosi per cercare di colpirmi.
« No mamma è stata quella donna! Non sono stata io! Non sono stata io! » urlai, le lacrime che mi rigavano le guance ma mia madre non sembrava ascoltarmi e probabilmente non riusciva a vedere nemmeno la donna.
Perché non la vedi mamma?!?!
È lì che ride della tua reazione e delle mie lacrime, che ride della morte di mio fratello!
Cercai di scappare ma lei mi agguantò un braccio e mi diede una sberla sonora.
La guancia bruciava.
E se tutto questo fosse stato reale lei mi avrebbe spaccato il labbro.
In lontananza sentivo già le sirene della polizia.


« April svegliati! » sentii la voce odiosa di mia madre tagliare con parole affilate la fitta coltre di sonno che mi avvolgeva come un bozzolo.
Mugolai rigirandomi nelle lenzuola.
Mia madre si mise le mani sui fianchi e assottigliando lo sguardo disse: « Insomma svegliati! ».
Sbuffai irritata e mi tirai su per farle vedere che ero sveglia.
Mi strofinai gli occhi e sbadigliai.
Mia madre borbottò qualcosa e con un cipiglio stanco e esasperato ritornò al piano di sopra, probabilmente per andare a stirare le cosa da mettere a mio padre e a mia sorella.
Lanciai un occhiata all'orologio.
Erano le sei.
Con un mugolio mi rintanai di nuovo sotto le coperte appisolandomi.
Era da quando ero nata che facevo questi sogni… e ogni santissima volta che mi svegliavo finivo con l'essere ancora più stanca di prima.
Sentivo i tagli che mi ero fatta, graffiandomi con i rami del pino bruciarmi sul palmo destro.
Sospirai e mi esaminai la mano. I tagli stavano già iniziando a rimarginarsi.
Cercai di riaddormentarmi per riposare la mente almeno un po'. Ma quando l'orologio segnò le sei e mezza e sentii mia madre scendere le scale per svegliare anche mia sorella e mio padre non c'era proprio più nulla da fare. Mi dovevo per forza alzare.
Con uno scatto scostai le coperte e mi alzai facendomi girare la testa e annebbiandomi la vista per qualche secondo ma non ci feci troppo caso.
Mi tuffai nell'armadio con le ante di vetro blu scuro e delle piccolissime maniglie di metallo argentato e tirai fuori i miei fedeli pantaloncini di jeans neri sdruciti sui bordi, decorati con delle borchie dorate e una canotta che aveva tutta la parte posteriore, sulla schiena, fatta di pizzo e sul davanti una scritta bianca tutta gocciolante, riccioluta e scintillante grazie ai piccoli brillanti e borchie dorate che diceva: "Normal is boring!”.
Mi sfilai la leggera vestaglia che indossavo e mi infilai i pantaloncini proprio mentre mia madre apriva la porta della mia camera per controllarmi.
Come al solito…
La vidi serrare le labbra, trasformandole in una linea severa e scuotendo la testa con aria arresa sbatté la porta e andò a buttare giù dal letto mio padre e sussurrare parolone dolci alla mia sorellina per farla svegliare.
Odiavo mia madre…
Da quando Alexander, il mio gemello, era morto niente era più stato come prima.
Mia madre aveva iniziato a odiarmi… e molto probabilmente perché mi riteneva responsabile della sua morte.
Non potevo darle torto…
Il mansueto nodo che mi assaliva ogni volta che pensavo a mio fratello mi chiuse la gola. Come una gigantesca mano che cercava di soffocarmi e una morsa d'acciaio che mi stritolava il cuore.
Mi vennero le lacrime agli occhi e con uno spasimo mi piegai cercando disperatamente di far entrare aria nei polmoni cercando di trattenere un grido tappandomi la bocca.
Era così… ogni volta che pensavo a lui… perché inevitabilmente, i ricordi della sua morte mi assalivano. I suoi occhi fissi nei miei che perdevano la luce della vita per poi dedicarmi un freddo sguardo di morte e dolore.
Mi morsi il labbro inferiore e cercando di reprimere le lacrime mi sfilai i pantaloni e filai in bagno almeno per darmi una lavata veloce e cancellare le lacrime dagli occhi.
Dopo essermi lavata la faccia, aver frizionato i denti e essermi cambiata la biancheria mi rinfilai i jeans e la maglietta, afferrai l'astuccio coi trucchi e tirai fuori una matita nera passandomi un generoso tratto sia sopra che sotto l'occhio facendomi risaltare moltissimo il colore delle iridi malva con dei filamenti dorati là dove c'era la pupilla.
Mi passai del correttore sotto gli occhi per rimuovere le tracce dell'insonnia e grazie a Dio il rossore agli occhi era sparito.
Non potevo fare così ogni volta che pensavo a lui, lo sapevo. E cercavo ogni volta di trovare una soluzione ma… sembrava che il dolore non si volesse cancellare.
E quando stavo con gli altri rinchiudevo il mio dolore in un vaso di Pandora stretto con un coperchio che solo io potevo aprire.
Concentrandoli lì, i miei sentimenti erano più difficili da tirare fuori ma… se ero da sola il coperchio sembrava aprirsi quasi involontariamente.
Già… perché non è vero che quando perdi qualcuno il dolore sparisce con il tempo. È soltanto una bugia che serve a convincere una persona ad andare avanti… una bugia che fa sperare inutilmente.
Odiavo ogni volta chi per consolarmi mi diceva una frase del genere.
Mascara nero sulle radici e dorato sulle punte, ombretto con dei brillantini dorato anche quello, una passata di lucida labbra rosso sulle labbra carnose.
Stranamente il labbro superiore era più grande di quello inferiore, carnoso in egual modo, ma abbinate con la forma del mio viso e gli zigomi alti le mie labbra non erano strane, anzi le faceva apparire più provocanti.
Un'altra particolarità del mio viso era il neo che avevo sotto all'occhio destro.
Anche Alexander ce l'aveva… e aveva l'abitudine di accarezzarmelo sempre con un buffetto per tirarmi su di morale.
Amavo tantissimo mio fratello… era una parte di me che, ormai, è morta con lui.
Ma adesso dovevo smetterla di pensarci altrimenti mi veniva un altro attacco di panico.
Talvolta mi divertivo a modificarlo, quel neo… con la matita nera per farlo diventare una stella, ma ora non avevo tempo.
Afferrai la spazzola di legno scuro e districai i nodi che si erano formati nei miei capelli dormendo.
Poi raccolsi i capelli neri sulla nuca in uno chignon un po' disordinato e lasciai spiccare le masches rosse e blu che mi ero fatta sulle punte dei capelli che poi se mischiate formavano l'illusione di un viola della tonalità delle mie iridi.
Lasciai un paio di ciocche ondulate a incorniciarmi il viso e finalmente uscii dal bagno.
Corsi verso la gigantesca scrivania di legno moderna che avevo e che mi occupava tutta una parete e sopra alla scrivania c'erano una decina di scaffali disposti a formare una libreria sulla parete dove c'erano i miei libri di scuola, e poi tutti i dischi dei miei cantanti preferiti e dei miei libri preferiti che occupavano la maggior parte dei tantissimi scaffali.
Abbandonata a una parete giace la custodia nera con la mia chitarra rossa e viola.
Il soffice tappeto nero che avevo al posto del pavimento mi solleticò i piedi.
Afferrai un cubo di plastica rosa shocking e lo aprii rovesciandone il contenuto sul lettone.
Un centinaio di gioielli si sparsero tintinnando tutti assieme.
Individuai degli orecchini a forma di rombo fatti con dei brillanti neri e sul retro erano dorati.
E poi una collana che per ciondolo aveva una scritta nera che diceva: " Aarrghhhhh ".
Scritta con lettere più grandi dove c'erano le A ma che poi andavano a rimpicciolirsi.
Tirai fuori un anello con due ali dorate intrecciate assieme e me lo misi al pollice destro.
Mi tuffai di nuovo nell'armadio e rimediai un paio di calzini bassi che mi infilai.
Afferrai lo zaino a tracolla viola che avevo abbandonato affianco alla chitarra, ormai abbellito con scritte nere di pennarello indelebile.
Assomigliava tanto a certe valige/zaini a tracolla che si usavano per mettere i vestiti quando dovevi partire per un viaggio, solo che era un po' più piccola.
Lo stretto necessario per contenere i libri che portavo a casa per "fare i compiti" in teoria.
Grazie a Dio avevo già messo i libri che c'erano per oggi solo che ovviamente dovevo metterci anche… qualcosa di mio…
Esaminai i disegni che giacevano su tutta la mia scrivania.
Passavo dai manga alle persone reali, dagli animali agli oggetti inanimati.
Adoravo disegnare… soprattutto durante le lezioni.
Alla fine scelsi il manga di una ragazza abbracciata al suo maschio.
Dovevo finire lo schizzo e iniziare a colorarlo, lavoro che mi avrebbe richiesto impegno e lavoro… proprio quello che mi serviva per fuggire dalla noia.
Misi il disegno in una zona separata dai libri e poi passa in rassegna della mia libreria. Sì adoravo anche leggere.
Scelsi un libro paranormal romance che avevo comprato qualche giorno fa e lo infilai nello zaino.
Afferrai l'Ipod blu brillantinato e le cuffiette.
« April ti vuoi muovere! » strillò mia madre dal piano di sopra.
Diedi un'occhiata all'orologio.
Erano le sette meno cinque… sì dovevo sbrigarmi altrimenti perdevo la metro e non avevo voglia di aspettare.
Mi sistemai la tracolla in spalla, presi la chitarra, mi misi anche quella in spalla e uscii dalla stanza.
Feci le scale fatte a mo' di tastiera di piano forte, trasparenti quasi, che portavano al piano di sopra e attraversai il grande salone dove c'era una televisione gigantesca con un divano nero, in contrasto con il pavimento bianco, fatto a ferro di cavallo, con al centro un tavolino di vetro dove era appoggiato il Black Berry di mio padre, un giornale tutto spiegazzato, una bambola mezza nuda e mezza spelacchiata di mia sorella, una mela mangiucchiata e una tazzina da caffè.
« Dico io… non si saluta nemmeno? » mi fermò mia madre mentre sorseggiava un succo d'arancia da dietro il bancone da bar dove c'erano i fornelli e un ripiano da lavoro, sotto poi c'erano dei cassetti con le posate, le pentole e le varie tovaglie.
Più in là, attaccati alla parete, c'erano un lavandino e, sotto, il cestino della spazzatura. Nell'altra parete c'era il frigo e qualche cassetto qua e là dove c'erano l'olio, il sale, l'aceto e altre cose essenziali per cucinare con in più le tazze, i piatti e i bicchieri.
A un paio di metri da quell'enorme cucina c'era una tavolo rotondo anche quello di legno nero con comode sedie moderne mezze di plastica e mezze di metallo.

Feci una smorfia.
« Vado di fretta… » la liquidai.
Mia sorella fece un gridolino e corse verso di me aggrappandosi alle mie gambe.
« Lynne! Bacio! Bacio! » implorò lei facendomi gli occhioni da cucciola.
Solo lei mi chiamava così. Visto che il nome April non riusciva a dirlo bene, quando era… piccolissima insomma. Ha iniziato a chiamarmi Lynne.
Risi e mi piegai dandole un bacio sulla guancia, arruffandole poi quella nuvola di ricci rosso scuro che aveva al posto dei capelli.
« Fai la brava all'asilo, capito? E non piangere quando la mamma se ne va. » mi raccomandai con voce dolce.
Lei annuì vigorosamente tirando su col naso e poi mi avvolse il collo con le sue piccole braccine, abbracciandomi.
« Lynne sei bella! Da grande voglio essere bella come te! » mi disse lei con il suo tipico tono infantile pieno di ammirazione.
« Ma per l'amor del cielo! » intervenne Anne, mia madre.
« Non seguire mai il suo esempio! È sempre vestita da Dark! » si lamentò mia madre arricciando il naso con aria disgustata.
La uccisi con un occhiata e poi tornai a sorridere a mia sorella.
« Da grande tu dovrai essere bella sei te. » le dissi picchiettandole il nasino, dolce e all'insù, con un dito.
Mia sorella sorrise raggiante e mi stampò un bacio sulla guancia.
« Tu non eri in ritardo? E forza Alice, dobbiamo andare anche noi. » mi rimproverò acidamente Anne.
Alice strinse con le manine i lembi del suo vestitino bianco e annuì correndo verso il salotto per prendere la sua bambola.
« Sí, ora vado. Piuttosto che stare in casa con te andrei anche in una fogna. » sibilai a Anne sistemandomi meglio la tracolla dello zaino sulla spalla.
Poi senza aspettare una sua risposta mi diressi verso la porta tirai fuori le mie scarpe dalla scarpiera che avevamo affianco alla porta.
Delle scarpe da ginnastiche nere con i lacci bianchi e due ruote viola sotto i talloni che potevo usare come pattini per andare più veloce.
Me le infilai senza nemmeno slacciarle e uscii.
La strada era affollata, come al solito. Il nostro era un quartiere molto frequentato e per questo non eravamo mai soli quando uscivamo di casa, al mattino almeno.
Mi infilai nella fiumana di gente che correva, che parlava al telefono, che mangiava qualcosa in extremis prima di andare al lavoro o a scuola, lasciandomi trasportare dalla corrente.
Era inutile correre in quel tratto di strada, perché quasi sicuramente sarei inciampata su qualcuno con tutta la gente che c'era.
Andai avanti, passando nella piazza principale dove una fontana spettacolare si mostrava in tutta la sua bellezza. Superata quella mi intrufolai in una viuzza e pian piano la gente si dileguò.
Era una scorciatoia che usavo sempre. E solo lì, in quel tratto di strada poco affollata, potei usare le rotelle.
Presi la rincorsa, poi misi un piede davanti all'altro per darmi lo slancio e appoggiai il peso sui talloni.
Scivolai, come se la strada fosse liquida, per un bel pezzo di strada per poi fermarmi riprendere la rincorsa e pattinare di nuovo con le rotelle.
Superai un po' di palazzi e grattacieli e finalmente arrivati all'entrata della stazione della metro.
Scesi le scale camminando in punta di piedi per evitare di scivolare, passai la tessera e oltrepassai le sbarre di metallo che emanavano un odore forte e fastidioso.
Corsi verso la mia linea e scesi di corsa le scale.
Grazie a Dio trovai la metro già là, che aspettava solo me praticamente…
Corsi come una furia e riuscii a entrare appena in tempo prima che le porte si chiudessero.
Sfinita mi sedetti in uno dei posti liberi che trovai…
Non fu difficile.

Quasi nessuno prendeva questa linea.
La nostra scuola era in un luogo non molto frequentato.
Da qui a lì ci sarebbero voluti circa venticinque o venti minuti per arrivare.
Avevo ancora tempo per ripassare per un interrogazione pratica con la chitarra.
Sospirando, mi tolsi la chitarra dalla schiena poggiandola sul sedile di fianco a me. Mi misi la cartella/zaino sulle ginocchia e cercai lo spartito che ci avevano dato da imparare.
Lottai un po' per tirarlo fuori e quando ci riuscii richiusi la zip e poggiai la cartella per terra, tra le mia gambe.
La metro sobbalzava, di tanto in tanto mettendomi in difficoltà coi movimenti ma ormai ci ero abituata.
Tirai fuori la chitarra dalla custodia e me la sistemai in grembo.
Diedi un'occhiata allo spartito e iniziai pian piano a suonare le note. Era strapieno di accordi! E neanche facili per di più! Ma alla fine ce la feci a impararlo.
Finalmente arrivai a destinazione ripresi lo zaino e la chitarra e uscii dalla stazione della metro.
Una volta fuori il paesaggio cambiò sensibilmente.
Eravamo in periferia e non più in centro, c'erano palme piantate un po' dappertutto e riuscivo a sentire l'odore del mare a un po' di metri da me le strade erano aperte e spaziose, gli edifici modesti e tutti ammassati l'uno sopra l'altro.
Abitavo in un isola dopotutto… non c'era da stupirsi.
Dovetti correre e pattinare per l'ultimo pezzo del tragitto.
Già sentivo le ramanzine del professor Faraizer…
« È questione di rispetto signorina Teardrop! »
E alla fine, come un miraggio, vidi la facciata della mia scuola. Un gigantesco edificio di sei piani piani, con un sacco di finestre e per pareti tantissimi pannelli di legno scuro e altri poi pannelli arancioni, rossi e gialli con qualche finestra che lasciava intravedere tutto l'interno dell'edificio.
Oltrepassai il ponte che univa la piazza alla corte della scuola. Ogni volta che dovevo passare là sotto mi veniva sempre un po' d'ansia. Sapere che c'erano quelli al secondo piano che correvano e si spostavano nelle sedie, addirittura c'era chi aveva già cominciato a ballare a quell'ora mi dava l'impressione che le colonne che sorreggevano il ponte dal tetto piatto e a forma di rettangolo mi potessero crollare addosso da un momento all'altro.
Attraversai la corte, che non era altro che un grande ritrovo fuori dalla scuola dove c'era un grande albero al centro con una specie di panchina-opera-d'arte a forma di S tutta colorata con mosaici dove il colore permanente era il blu, l'arancio, il giallo e il rosso.
Poi c'erano altre panchine fatte e forma di dossi rigorosamente gialli, grazie a Dio il pavimento era fatto a tanti quadrati di un banale azzurro grigiastro.
Aprii una portafinestra ed entrai nella scuola, mi diressi verso il corridoio con le pareti di destra e sinistra tappezzate di armadietti rosso vinaccia e qualche strisce verticale di armadietti gialli qua e là.
Neanche a dirlo, le pareti e il soffitto erano gialle, ma il pavimento era del normale lineolum rosato, caratteristico di tutte le scuole.
Tornai indietro, nell'atrio, era deserto…
Ti pareva.
Corsi su per le scale di metallo e quando dovetti passare affianco alla Sala Delegati non riuscii a non reprimere un ghigno.
Quasi sentivo il fruscio dei fogli che Nathaniel, il segretario della scuola, maneggiava quasi tutti giorni.
Moduli su moduli su altre montagne di moduli!
Però era l'unico ragazzo accettabile che io conoscevo in questo liceo perciò era meglio tenerselo amico.
Arrivai davanti alla fredda porta di metallo della mia classe… il professore non si era accorto di me, sebbene che sulle pareti gialle c'erano dei larghi pannelli di vetro che lasciavano intravedere quel che c'era in corridoio.
Feci un bel respiro profondo, fissando per un attimo il quadratino grigio con su scritto "Aula di Matematica - Professor Faraize" -Eh sì non avevamo una classe nostra ma in ogni aula c'era un professore… purtroppo- ed entrai.


Salve bella genteeeee Katherine Striges è qui presenteeee!!!! XD
(No comment... =.=)
Alluooooora io sono nuova della sezione ed ero anche piuttosto titubante a pubblicare una storia qua perché ho visto che molte storie sono state ignorate completamente TT-TT non vorrei finire così anch'io Q_Q
Comunque se l'inizio vi è piaciuto fatemi sapere con una picciula recensione e… poi ovviamente mi fa anche piacere ricevere delle recensioni da quelle che già mi seguono. X3
Vorrei anche dire che i titoli dei cappy sono titoli di canzoni che sono le canzoni che mi hanno ispirata scrivendo perché, per chi già mi conosce, sa perfettamente che io non scrivo MAI senza musica XD
Però… come avrete notato la storia si riesce a capire anche se non si conosce bene il gioco, quindi mi farebbe piacere avere anche una vostra opinione ^^
Poi si vedrà… se la storia piace la continuerò… e se non piace amen >.<
Un kississimo by Katy =*

P.S

Sì lo so' dovrei continuare l'altra storia ma dovrete aspettare un po' perché devo fare il vocabolario, l'extra e i ringraziamenti quindi… vi lascio qualcosa da leggere mentre aspettate ^^ >.<
E poi dai… francamente dopo tutte queste cose fantasy ci voleva qualcosa di più leggero no? ;)
  
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