«Io
mi fido di voi, ragazze, ma tutta questa situazione mi sta spaventando,
e non
poco», dice Tomo.
«Non
devo ricordarvi che sono ancora convalescente, giusto?»,
aggiunge Shannon.
Sbuffo.
«Ma volete tacere? Non vi stiamo portando al patibolo, se la
cosa vi può
rassicurare», dico calcando un pochino la mano sulla schiena
di Jared per
guidarlo mentre cammina. Non vorrei mai che, bendato
com’è, cadesse di faccia e
si rovinasse il suo bel nasino. Anche perché probabilmente
dovrei cambiare
identità, dato che i soldi per pagare gli avvocati non li
avrei. Rabbrividisco.
«È una cosa che vi piacerà»,
aggiungo.
L’idea
ce l’ha avuta Rain qualche giorno fa. Con l’aiuto
di Emma siamo riuscite ad
entrare in una delle stanze del The Hive inutilizzata (trovandoci al
suo
interno pile stipate di volantini, corde di chitarre abbandonate per
terra,
pantofole di colori improbabili, montagne di polvere e fogli con note
musicali
a me incomprensibili) e dopo averla sistemata e pulita da cima a fondo,
l’abbiamo addobbata a modo nostro. Abbiamo deciso che non
vogliamo che si dimentichino di noi.
«Ecco,
ci siamo quasi», dice Francis aprendo la porta con una mano e
spingendo Shannon
in avanti con l’altra.
«Vernice
fresca», borbotta Jared, «c’è
odore da vernice fresca qua dentro».
«Io
direi di pulito», ribatte Shannon.
«È
vernice fresca, fidati di me. Io ne so di queste cose».
«Disse
l’artista», borbotto fra me e me.
«Hai
detto qualcosa, Deb?», domanda Jared.
Tossicchio.
«Siete pronti?»
«Of
couuurse», rispondono insieme.
Togliamo
le bende alle nostre vittime e attendiamo in silenzio le loro reazioni.
In un
primo momento vedo la confusione dipingersi nei loro volti, poi la
curiosità
prevale, e tutti e tre si avvicinano ai muri della stanza. Non riesco a
non
farmi scappare un sorriso.
«Allora,
vi piace?», chiede Rain.
Tomo
si volta verso di noi. «Come avete fatto a racimolare tutte
queste cose?»
«Da
quant’è che stata a lavorando in segreto a questo
progetto?», ci domanda invece
Jared.
«È
fantastico. Davvero fantastico», è tutto quello
che dice Shannon.
«Quando
siamo partite per Los Angeles», comincia Francis,
«i nostri amici ci hanno
chiesto di consegnarvi tutte le lettere e i disegni che vedete
attaccate a
queste pareti, se per caso un giorno saremmo davvero riuscite ad
incontrarvi».
«Si
erano aperte scommesse al riguardo. Non serve precisare il fatto che
tutti
tranne due avevano scommesso non vi avremmo visto nemmeno con il
binocolo su un
giornale di gossip, vero?»
«Ma
sono tantissime», dice Jared.
«Abbiamo
molti amici echelon», acconsento.
I
tre si guardano per alcuni minuti intorno. Leggono, toccano disegni
fatti a
matita con le dita, sporcandosele, annusano, scrutano, percepiscono i
sogni,
l’amore, la speranza che tutti gli echelon che abbiamo
conosciuto ci hanno
affidato. Perché sì, noi siamo le loro portavoce,
ma ora essi sono qui con noi,
in questa stanza, e intorno a me vedo le facce di tutti i miei amici,
delle
persone con cui per mesi mi sono sentita per messaggio, magari dopo
aver
passato con loro ore in fila ad aspettare un concerto, al caldo, con i
raggi
del sole che ci battevano sulle teste e ci facevano cantare, anche se
eravamo
stonati, anche se magari le parole delle canzoni non le sapevamo
proprio tutte,
o bene, perché eravamo felici, di essere lì, di
poter affermare che sì, quella
era veramente una delle più belle giornate di tutto
l’anno e chissà, magari
anche di tutta una vita; posso sentire le loro voci, vedere i loro
sorrisi,
perché tre tra le persone più importanti della
loro vita ora sanno che
esistono, i loro tre eroi. Quelle tre persone che ogni giorni sono
lì, con la
loro musica, dentro alla loro testa, a ricordare loro che va bene
lottare per
un sogno, che è giusto provare e anche fallire, che va bene
cadere ogni tanto,
ma che bisogna poi rialzarsi, rimboccarsi le maniche, lavorare per
arrivare in
cima, e una volta arrivati, cercare un’altra vetta da
scalare, perché la vita
un secondo ti da tutto, e quello dopo è capace a togliertelo.
«E
questa bandiera? Non riesco bene a capire che cosa
c’è scritto», dice Tomo.
Mi
avvicino a lui. «C’è scritto
spritz».
«Cosa
sarebbe, se posso chiedertelo?»
«È
una bevanda tipica di una regione d’Italia, quella da cui
tutte noi tre
proveniamo. Diciamo che il sogno del nostro gruppo, della nostra
division-non-ufficiale, è quello di presentarci ad un vostro
meet and greet e
di farvi ubriacare».
«Cosa?»,
chiede Jared con un tono sconvolto.
«Sto
scherzando, capretta. Lo so che l’unica cosa che tu apprezzi
è l’erbetta fresca».
«Sempre
gentile, Deborah».
Sorrido.
«Lo so».
Shannon
si avvicina e ci guarda negli occhi una ad una. «Loro sanno
del mio ginocchio,
questi vostri amici?»
«Dovevamo
dirglielo», dice Francis guardandosi i piedi. Shannon
continua a fissarci, e
non riesco a capire che cosa voglia dirci con il suo sguardo.
«Però, aspetta,
non arrabbiarti, prima ascolta questo». Estrae il telefono
dalla tasca, pigia
lo schermo e poi lo da in mano a Shan. «Clicca play quando
sei pronto».
Un
ultimo sguardo, un sospiro e poi fa partire la registrazione. Quello
che esce è
un coro di voci che canta City of Angels. Riconosco la voce di Gloria,
Ilaria,
Ludovica. Sento Arianna sbagliare qualche parola, perché si
sa che a lei non
piace l’inglese, e l’altra Arianna, invece, me la
immagino cantare il quel
sorriso che mi fa sempre tenerezza. Sento Sara, Riccardo, Alessia,
Emma, Marta,
sento Camilla e Ludovico ridere, sento Linda e Melissa sussurrare le
parole,
perché dicono sempre che sono stonate. Sento quelle persone
che non vedo più da
qualche mese, sento la loro mancanza, ma soprattutto sento che tutta
quella
forza che stanno facendo uscire dalle loro corde vocali è
per Shannon, per il
loro batterista preferito, che ha bisogno di loro anche se forse non lo
sa.
Istintivamente
comincio a canticchiare anche io, a voce bassa, e guardo Shannon, che
ho la
fortuna di avere davanti a me. Con un ginocchio dolorante, questo
è vero, ma
sta bene, ed è pronto a continuare a vivere il suo sogno,
anche grazie a me,
anche grazie a tutti noi. Quello di cui non mi accorgo subito
è che i suoi
occhi sono diventati lucidi, come se fosse sul punto di piangere.
Prendo un
sospiro e alzo la voce, cantando più forte, e anche Francis
e Rain lo fanno.
Cantiamo per lui, perché lui ci ha salvato tante volte e ora
vogliamo salvarlo
noi. Quando la canzoni finisce mi ritrovo a trattenere il fiato per
alcuni
secondi.
«È
per me?», chiede lui.
Annuiamo.
«È per te. Siamo una famiglia, no?»,
dice Rain.
«Non
credo ci dimenticheremo facilmente di voi tre piccole
rompiscatole», risponde
lui, la voce che tradisce belle emozioni.
«Lo
credo anche io», concorda Tomo. «E poi siete le
uniche che comprendono il
nostro amore per le ciambelle, sono sicuro che Emma non ce le
porterà mai neanche se gliele chiediamo in
ginocchio».
Scoppio
a ridere. Non lo dico, ma anche io non mi dimenticherò
presto di loro. Anzi,
sono sicura che loro continueranno ad esserci nella mia vita per molto,
molto
tempo, perché senza di loro non sarei dove sono adesso,
probabilmente non sarei
nemmeno la stessa persona.
***
«Quindi ve
ne andate davvero», sussurra Tomo.
Siamo seduti
su delle sedie parecchio scomode all’interno
dell’immenso aeroporto di Los
Angeles, ad aspettare che negli schermi appaia il numero del terminal
del
nostro volo che ci riporterà in Italia. Gioco con un
elastico per capelli che
ho al polso, incapace di rispondere. Credo che chiunque vedendomi ora
potrebbe
scorgere la mia tristezza. Annuisco. «Già, pensavi
fosse uno scherzo?»
«Vi avrei
anche perdonato per avermi fatto svegliare alle sette di
mattina», aggiunge
lui, il tono lamentoso.
«Quale
sacrificio», ridacchia Rain.
Shannon
e Jared non hanno potuto accompagnarci in quanto dovevano essere
presenti ad un importante
meeting con la casa discografica, al quale Tomo poteva assentarsi non
essendo
un membro fondatore della band. Gli avevamo salutati – con
gli occhi
decisamente lucidi, per quanto mi riguarda – la sera
precedente, dopo avere
bevuto un vegan frappè a casa di Leto Junior. Vegan
frappè da lui preparato. Avevamo
scoperto con immenso stupore che almeno il frullatore lo sapeva
utilizzare nel
modo giusto. Fin che stava lontano dai fornelli, a quanto pare, andava
tutto
bene.
Mi
ritrovo a pensare a quanto io sia stata fortunata nell’ultimo
mese: ho
ascoltato Alibi a pochi passi dalle chitarre che emettevano quella
melodia che
da anni mi cullava a letto quando qualcosa nella mia vita non andava
come
speravo, ho detto a Jared, Shannon e Tomo un numero spropositato di
volte
grazie, una parola che per me ha un grande valore, un grazie che
racchiude
tutto quello che loro mi hanno fatto superare, anche solo attraverso i
fili
delle cuffiette, i fili del computer, i fili elettrici delle casse
che a pochi metri da me, quella prima volta che li avevo visti in
concerto, mi
avevano fatto ritrovare di nuovo me stessa.
Fili
invisibili che in questo momento sento uscirmi dal petto, dalle punta
delle
dita, dalle labbra, da qualsiasi parte del mio corpo e collegarsi alle
mie
amiche, che come me cercano di non pensare al loro futuro,
perché fa paura,
perché non lo conosciamo e vogliamo vivercelo ma abbiamo
paura di non riuscire
a farlo nel modo giusto; collegarsi a Tomo, che ci guarda come se
fossimo
anche noi uno di quei gatti randagi che trova per strada e porta a
casa, per
volergli bene, sfamargli, giocare con loro, farli vivere. E infine
sento che
questi fili invisibili che mi escono dalle membra si legano a tutto
ciò che mi
circonda: alla coppia di anziani davanti a me, che con gli occhiali
posati sul
naso, leggono lo stesso libro, aspettandosi a vicenda per girare le
pagine; a
quella bambina dentro il passeggino che sorride alla propria giovane
mamma ogni
qual volta lei abbassa la testa per ammirarla, mettendola di buon
umore; a quel
ragazzo con un cappello calato sulla fronte, che ora mi sembra
arrabbiato,
forse con il padre, la ragazza, l’insegnante di scienze o il
mondo intero, come
è normale quando si ha la sua età. Come
è normale anche quando si ha la mia
età.
«I’m
seventeen and looking for a fight…»,
sussurro.
«Cosa?»,
mi chiede Francis, seduta affianco a me.
Scuoto
la testa. «Niente», le dico, e invece vorrei dirle
che anche io, come quel
ragazzo che ora si morde le unghie delle mani, strappandole come se con
esse
anche la rabbia potesse andare via, che anche io, come quel giovane
Shannon
logorato dalla droga che si era rifugiato nell’aiuto del
fratello perché non voleva più
soffrire, che anche io, come Jared quando aveva diciassette anni, mi
sento
confusa, arrabbiata, stanca di un mondo che spesso non mi da quello che
voglio,
desidero, sogno, ma allo stesso tempo vorrei dirle che sono
così che contenta
di essere qui, in questo esatto momento, a guardare le persone partire
per mete
lontane, per una nuova vita, per una nuova vacanze, per creare delle
nuove
parti di se stessi.
«Deborah?»,
mi volto verso Tomo e gli sorrido per incoraggiarlo a continuare la
frase. «Chi
è l’assassino, alla fine del libro?»
Alzo
gli occhi al cielo. «Me l’hai chiesto mille volte,
Tomislav. Che è, stai
diventando sordo, forse?»
«Forse,
dato che non ho mai sentito arrivare la tua risposta».
Mi
stringo nelle spalle. «Non te lo dico».
«E
come faccio a scoprirlo?»
«Quando
lo leggerai, lo scoprirai».
«Ma
è in italiano!», sbotta lui, un sorriso che
però lo tradisce.
Ridacchio.
«Lo sappiamo tutti che tu e google traduttore siete grandi
amici».
«Ciao
miei compagni pasta sgranocchiando pazzo popolo italiano!»,
esclama Francis,
piegata in due dalle risate ricordando uno dei più celebri
tweet del
chitarrista.
«Fateci
mangiare pasta insieme!», continua Rain, sotto lo sguardo
altezzoso di Tomo.
«Volete
spiegarmi, per favore, per quale motivo mi state apertamente prendendo
in giro?»
«Chi
sta prendendo in giro chi?», dice una voce alle nostre spalle
che riconosco
immediatamente come quella di Shannon. Quando mi volto, infatti, lui e
Jared
sono in piedi a guardarci curiosi, i sorrisi nascosti dalle lunghe
barbe che
ormai, temo, si siano impossessate dei loro volti. Vedendo i nostri
sguardi
inquisitori, alza le spalle. «Abbiamo finito in tempo e
abbiamo pensato di fare
un salto sperando non vi foste già imbarcate».
«How
cute», esclamo. Quello che i sei occhi che mi fissano
straniti per la mia
uscita non sanno è che quell’affermazione pensavo
di averla solo pensata. «Intendo,
carino da parte vostra. Insomma, qua potrebbero riconoscervi tutti e
…»,
comincio a gesticolare e ad impapinarmi in preda al nervosismo.
«Abbiamo
capito», dice Jared e gli altri annuiscono. Alzo il pollice e
sfodero un
sorriso da “datemi una buca per sotterrarmi in questo mare di
cemento” e faccio
ridere tutti. «Chi prende in giro chi?», domanda
lui evidentemente togliendomi
dall’imbarazzo. «E per la cronaca»,
continua guardandomi dritta negli occhi, «a noi non interessa
quando, dove
e con chi ci vedono i paparazzi. È la nostra vita e non
possiamo viverla
barricati nel MarsLab, anche se è quello che principalmente
facciamo quando non
siamo in tour, quindi non preoccupatevi per noi».
Mi
sento gli occhi brillare di lacrime e abbasso la testa per non farmi
beccare. Questa
situazione è troppo per il mio cuoricino romantico. Ho come
l’impressione che
da un momento all’altro ci lascerò le penne, a
causa di tutte queste belle
emozioni, accipicchia.
«Mi
prendevano in giro riguardo ad un tweet che ho scritto, ma non ne
capisco il
motivo», riprende il filo Tomo, le braccia incrociate al
petto con fare
indignato.
«Hai
scritto una cosa veramente senza senso secondo la grammatica italiana,
che nel suo
complesso fa molto, e ripeto, molto ridere. Molto».
«Molto?»
«Moltissimo».
«Quindi
il mondo sa che uso google traduttore e non sono un
poliglotta», afferma.
«Già»,
diciamo in coro. «Ma anche Leto qui non scherza»,
aggiunge Rain.
«Io?»,
dice Shannon puntandosi un dito contro.
«No,
tu scrivi la stessa frase per ogni tappa del tour ormai.
Però sbagli i nomi
delle città, a volte, e anche quello è molto
divertente», ridacchia Rain. «In
ogni caso mi riferivo a Jared, che a suon di hastag bizzarri e xo ci fa
sbellicare ogni volta».
«Veramente
ha rotto le palle con quegli xo», borbotto io.
«E
con la Francia», aggiunge Francis.
«E
con le bionde», dice invece Rain.
«Avete
finito?», ci chiede Jared, che come Tomo e Shannon ora ha
assunto un’espressione
offesa, incrociando le braccia sul torace.
«Ci
sarebbero molte cose da dire ancora, ma sì, credo che
abbiamo finito qui. Per
il momento», sogghigna Francis.
«Ingrate»,
soffia Shannon ricevendo approvazione dagli altri due.
Mentre
noi tre ragazze ci sbellichiamo dalle risate per la reazione dei tre
“uomini”
che abbiamo davanti, che in realtà assomigliano di
più a gatti irritati,
sentiamo annunciare che il nostro volo è stato assegnato al
terminal numero 5,
e che i passeggeri sono gentilmente invitati a recarsi al check-in.
«Immagino
sia ora che voi ve ne andiate», dice Tomo.
«Finalmente!»,
esclama Shannon, con però un sorriso benevolo in faccia.
Mi
sarei aspettata tutto tranne che i tre che si avvicinano a noi e ci
abbracciano
come un sol uomo, scompigliandoci i vestiti e i capelli. Un
po’ come quando dei
vecchi amici che ormai vivono in luoghi diversi, si salutano affianco
ad un
treno che a breve partirà, non sapendo quando si rivedranno,
ma celando dentro
di essi un sentimento che difficilmente può essere
cancellato, nemmeno dalla
distanza.
«Okay
okay, basta o scoppio a piangere», dico tirando su col naso,
perché qualche
lacrima in realtà mi è già scesa.
«Giusto»,
dice Shannon, una voce roca. «Andate o ci tocca vedervi per
ancora chissà
quanti giorni, se perdete questo aereo».
«Sai
cosa Shan? Vaffanculo», dico, e gli mando una linguaccia
mentre raccolgo i miei
bagagli.
Lui
scoppia a ridere. «Sì, vaffanculo anche a te
Deborah».
E
lo so che questo è il loro modo per dirci addio, sperando
che sia un arrivederci,
che altro non è che un vediamoci presto, perché
sappiamo che a breve sentiremo
la vostra mancanza, voi che altro non siete che parte della nostra
enorme
famiglia chiamata Echelon.
Umh.
Ora parto con la raffica di scuse, okay?
Esami
di maturità che mi hanno tenuta incollata ai libri per un
mese, più o meno. Per
fortuna sono finiti e anche bene, un ostacolo in meno da superare.
Sul
più bello che gli esami sono finiti, mi si è
rotto di nuovo il computer. Qualcuno
ci ha lanciato un malocchio sopra, secondo me, perché questo
catorcio non
smette di avere problemi.
È
tornato e ho dovuto scrivere una cosa per il Campiello,
perché credo di non
averlo comunicato qui, ma sono *rullo di tamburi immaginario* una delle
cinque
finaliste del concorso Campiello Giovani. Sì, mi sento alla
grande. Sì, è tutto
fighissimo. Sì, sono emozionata. E sì, ho
un’ansia allucinante.
Ultima
ma non meno importante scusa è che la mia ispirazione era
andata a farsi un
viaggetto in qualche isola caraibica e non aveva più
intenzione di tornare a
casa.
Ma
ora eccomi qui con quello che è l’ultimo capitolo.
Quindi dobbiamo salutarci e
io non sono brav…
No,
non è vero, c’è ancora
l’epilogo. Ergo a presto (spero), e (spero) che qualcuno
leggerà questa schifezza e non verrà a sgozzarmi
nel sonno ritenendola una non schifezza.
Bacini
sul naso, Deborah.