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Autore: sleepingwithghosts    20/07/2014    3 recensioni
(...) mi ripetete come, di preciso, riusciremo a scovare Jared, Shannon e Tomo?»
Una malsana idea nata subito dopo aver visto Artifact. Tre amiche che partono alla ricerca dei loro eroi, prendendo un volo last minute per Los Angeles e che finiranno per mangiare tante ciambelle, questo è sicuro. Ma li incontreranno? Ci riusciranno davvero? Che l'avventura abbia inizio.
Genere: Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Tomo Miličević, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Io mi fido di voi, ragazze, ma tutta questa situazione mi sta spaventando, e non poco», dice Tomo.

«Non devo ricordarvi che sono ancora convalescente, giusto?», aggiunge Shannon.

Sbuffo. «Ma volete tacere? Non vi stiamo portando al patibolo, se la cosa vi può rassicurare», dico calcando un pochino la mano sulla schiena di Jared per guidarlo mentre cammina. Non vorrei mai che, bendato com’è, cadesse di faccia e si rovinasse il suo bel nasino. Anche perché probabilmente dovrei cambiare identità, dato che i soldi per pagare gli avvocati non li avrei. Rabbrividisco. «È una cosa che vi piacerà», aggiungo.

L’idea ce l’ha avuta Rain qualche giorno fa. Con l’aiuto di Emma siamo riuscite ad entrare in una delle stanze del The Hive inutilizzata (trovandoci al suo interno pile stipate di volantini, corde di chitarre abbandonate per terra, pantofole di colori improbabili, montagne di polvere e fogli con note musicali a me incomprensibili) e dopo averla sistemata e pulita da cima a fondo, l’abbiamo addobbata a modo nostro. Abbiamo deciso che non vogliamo che si dimentichino di noi.

«Ecco, ci siamo quasi», dice Francis aprendo la porta con una mano e spingendo Shannon in avanti con l’altra.

«Vernice fresca», borbotta Jared, «c’è odore da vernice fresca qua dentro».

«Io direi di pulito», ribatte Shannon.

«È vernice fresca, fidati di me. Io ne so di queste cose».

«Disse l’artista», borbotto fra me e me.

«Hai detto qualcosa, Deb?», domanda Jared.

Tossicchio. «Siete pronti?»

«Of couuurse», rispondono insieme.

Togliamo le bende alle nostre vittime e attendiamo in silenzio le loro reazioni. In un primo momento vedo la confusione dipingersi nei loro volti, poi la curiosità prevale, e tutti e tre si avvicinano ai muri della stanza. Non riesco a non farmi scappare un sorriso.

«Allora, vi piace?», chiede Rain.

Tomo si volta verso di noi. «Come avete fatto a racimolare tutte queste cose?»

«Da quant’è che stata a lavorando in segreto a questo progetto?», ci domanda invece Jared.

«È fantastico. Davvero fantastico», è tutto quello che dice Shannon.

«Quando siamo partite per Los Angeles», comincia Francis, «i nostri amici ci hanno chiesto di consegnarvi tutte le lettere e i disegni che vedete attaccate a queste pareti, se per caso un giorno saremmo davvero riuscite ad incontrarvi».

«Si erano aperte scommesse al riguardo. Non serve precisare il fatto che tutti tranne due avevano scommesso non vi avremmo visto nemmeno con il binocolo su un giornale di gossip, vero?»

«Ma sono tantissime», dice Jared.

«Abbiamo molti amici echelon», acconsento.

I tre si guardano per alcuni minuti intorno. Leggono, toccano disegni fatti a matita con le dita, sporcandosele, annusano, scrutano, percepiscono i sogni, l’amore, la speranza che tutti gli echelon che abbiamo conosciuto ci hanno affidato. Perché sì, noi siamo le loro portavoce, ma ora essi sono qui con noi, in questa stanza, e intorno a me vedo le facce di tutti i miei amici, delle persone con cui per mesi mi sono sentita per messaggio, magari dopo aver passato con loro ore in fila ad aspettare un concerto, al caldo, con i raggi del sole che ci battevano sulle teste e ci facevano cantare, anche se eravamo stonati, anche se magari le parole delle canzoni non le sapevamo proprio tutte, o bene, perché eravamo felici, di essere lì, di poter affermare che sì, quella era veramente una delle più belle giornate di tutto l’anno e chissà, magari anche di tutta una vita; posso sentire le loro voci, vedere i loro sorrisi, perché tre tra le persone più importanti della loro vita ora sanno che esistono, i loro tre eroi. Quelle tre persone che ogni giorni sono lì, con la loro musica, dentro alla loro testa, a ricordare loro che va bene lottare per un sogno, che è giusto provare e anche fallire, che va bene cadere ogni tanto, ma che bisogna poi rialzarsi, rimboccarsi le maniche, lavorare per arrivare in cima, e una volta arrivati, cercare un’altra vetta da scalare, perché la vita un secondo ti da tutto, e quello dopo è capace a togliertelo.

«E questa bandiera? Non riesco bene a capire che cosa c’è scritto», dice Tomo.

Mi avvicino a lui. «C’è scritto spritz».

«Cosa sarebbe, se posso chiedertelo?»

«È una bevanda tipica di una regione d’Italia, quella da cui tutte noi tre proveniamo. Diciamo che il sogno del nostro gruppo, della nostra division-non-ufficiale, è quello di presentarci ad un vostro meet and greet e di farvi ubriacare».

«Cosa?», chiede Jared con un tono sconvolto.

«Sto scherzando, capretta. Lo so che l’unica cosa che tu apprezzi è l’erbetta fresca».

«Sempre gentile, Deborah».

Sorrido. «Lo so».

Shannon si avvicina e ci guarda negli occhi una ad una. «Loro sanno del mio ginocchio, questi vostri amici?»

«Dovevamo dirglielo», dice Francis guardandosi i piedi. Shannon continua a fissarci, e non riesco a capire che cosa voglia dirci con il suo sguardo. «Però, aspetta, non arrabbiarti, prima ascolta questo». Estrae il telefono dalla tasca, pigia lo schermo e poi lo da in mano a Shan. «Clicca play quando sei pronto».

Un ultimo sguardo, un sospiro e poi fa partire la registrazione. Quello che esce è un coro di voci che canta City of Angels. Riconosco la voce di Gloria, Ilaria, Ludovica. Sento Arianna sbagliare qualche parola, perché si sa che a lei non piace l’inglese, e l’altra Arianna, invece, me la immagino cantare il quel sorriso che mi fa sempre tenerezza. Sento Sara, Riccardo, Alessia, Emma, Marta, sento Camilla e Ludovico ridere, sento Linda e Melissa sussurrare le parole, perché dicono sempre che sono stonate. Sento quelle persone che non vedo più da qualche mese, sento la loro mancanza, ma soprattutto sento che tutta quella forza che stanno facendo uscire dalle loro corde vocali è per Shannon, per il loro batterista preferito, che ha bisogno di loro anche se forse non lo sa.

Istintivamente comincio a canticchiare anche io, a voce bassa, e guardo Shannon, che ho la fortuna di avere davanti a me. Con un ginocchio dolorante, questo è vero, ma sta bene, ed è pronto a continuare a vivere il suo sogno, anche grazie a me, anche grazie a tutti noi. Quello di cui non mi accorgo subito è che i suoi occhi sono diventati lucidi, come se fosse sul punto di piangere. Prendo un sospiro e alzo la voce, cantando più forte, e anche Francis e Rain lo fanno. Cantiamo per lui, perché lui ci ha salvato tante volte e ora vogliamo salvarlo noi. Quando la canzoni finisce mi ritrovo a trattenere il fiato per alcuni secondi.

«È per me?», chiede lui.

Annuiamo. «È per te. Siamo una famiglia, no?», dice Rain.

«Non credo ci dimenticheremo facilmente di voi tre piccole rompiscatole», risponde lui, la voce che tradisce belle emozioni.

«Lo credo anche io», concorda Tomo. «E poi siete le uniche che comprendono il nostro amore per le ciambelle, sono sicuro che Emma non ce le porterà mai neanche se gliele chiediamo in ginocchio».

Scoppio a ridere. Non lo dico, ma anche io non mi dimenticherò presto di loro. Anzi, sono sicura che loro continueranno ad esserci nella mia vita per molto, molto tempo, perché senza di loro non sarei dove sono adesso, probabilmente non sarei nemmeno la stessa persona.

 

***

 

«Quindi ve ne andate davvero», sussurra Tomo.

Siamo seduti su delle sedie parecchio scomode all’interno dell’immenso aeroporto di Los Angeles, ad aspettare che negli schermi appaia il numero del terminal del nostro volo che ci riporterà in Italia. Gioco con un elastico per capelli che ho al polso, incapace di rispondere. Credo che chiunque vedendomi ora potrebbe scorgere la mia tristezza. Annuisco. «Già, pensavi fosse uno scherzo?»

«Vi avrei anche perdonato per avermi fatto svegliare alle sette di mattina», aggiunge lui, il tono lamentoso.

«Quale sacrificio», ridacchia Rain.

Shannon e Jared non hanno potuto accompagnarci in quanto dovevano essere presenti ad un importante meeting con la casa discografica, al quale Tomo poteva assentarsi non essendo un membro fondatore della band. Gli avevamo salutati – con gli occhi decisamente lucidi, per quanto mi riguarda – la sera precedente, dopo avere bevuto un vegan frappè a casa di Leto Junior. Vegan frappè da lui preparato. Avevamo scoperto con immenso stupore che almeno il frullatore lo sapeva utilizzare nel modo giusto. Fin che stava lontano dai fornelli, a quanto pare, andava tutto bene.

Mi ritrovo a pensare a quanto io sia stata fortunata nell’ultimo mese: ho ascoltato Alibi a pochi passi dalle chitarre che emettevano quella melodia che da anni mi cullava a letto quando qualcosa nella mia vita non andava come speravo, ho detto a Jared, Shannon e Tomo un numero spropositato di volte grazie, una parola che per me ha un grande valore, un grazie che racchiude tutto quello che loro mi hanno fatto superare, anche solo attraverso i fili delle cuffiette, i fili del computer, i fili elettrici delle casse che a pochi metri da me, quella prima volta che li avevo visti in concerto, mi avevano fatto ritrovare di nuovo me stessa.

Fili invisibili che in questo momento sento uscirmi dal petto, dalle punta delle dita, dalle labbra, da qualsiasi parte del mio corpo e collegarsi alle mie amiche, che come me cercano di non pensare al loro futuro, perché fa paura, perché non lo conosciamo e vogliamo vivercelo ma abbiamo paura di non riuscire a farlo nel modo giusto; collegarsi a Tomo, che ci guarda come se fossimo anche noi uno di quei gatti randagi che trova per strada e porta a casa, per volergli bene, sfamargli, giocare con loro, farli vivere. E infine sento che questi fili invisibili che mi escono dalle membra si legano a tutto ciò che mi circonda: alla coppia di anziani davanti a me, che con gli occhiali posati sul naso, leggono lo stesso libro, aspettandosi a vicenda per girare le pagine; a quella bambina dentro il passeggino che sorride alla propria giovane mamma ogni qual volta lei abbassa la testa per ammirarla, mettendola di buon umore; a quel ragazzo con un cappello calato sulla fronte, che ora mi sembra arrabbiato, forse con il padre, la ragazza, l’insegnante di scienze o il mondo intero, come è normale quando si ha la sua età. Come è normale anche quando si ha la mia età.

«I’m seventeen and looking for a fight…», sussurro.

«Cosa?», mi chiede Francis, seduta affianco a me.

Scuoto la testa. «Niente», le dico, e invece vorrei dirle che anche io, come quel ragazzo che ora si morde le unghie delle mani, strappandole come se con esse anche la rabbia potesse andare via, che anche io, come quel giovane Shannon logorato dalla droga che si era rifugiato nell’aiuto del fratello perché non voleva più soffrire, che anche io, come Jared quando aveva diciassette anni, mi sento confusa, arrabbiata, stanca di un mondo che spesso non mi da quello che voglio, desidero, sogno, ma allo stesso tempo vorrei dirle che sono così che contenta di essere qui, in questo esatto momento, a guardare le persone partire per mete lontane, per una nuova vita, per una nuova vacanze, per creare delle nuove parti di se stessi.

«Deborah?», mi volto verso Tomo e gli sorrido per incoraggiarlo a continuare la frase. «Chi è l’assassino, alla fine del libro?»

Alzo gli occhi al cielo. «Me l’hai chiesto mille volte, Tomislav. Che è, stai diventando sordo, forse?»

«Forse, dato che non ho mai sentito arrivare la tua risposta».

Mi stringo nelle spalle. «Non te lo dico».

«E come faccio a scoprirlo?»

«Quando lo leggerai, lo scoprirai».

«Ma è in italiano!», sbotta lui, un sorriso che però lo tradisce.

Ridacchio. «Lo sappiamo tutti che tu e google traduttore siete grandi amici».

«Ciao miei compagni pasta sgranocchiando pazzo popolo italiano!», esclama Francis, piegata in due dalle risate ricordando uno dei più celebri tweet del chitarrista.

«Fateci mangiare pasta insieme!», continua Rain, sotto lo sguardo altezzoso di Tomo.

«Volete spiegarmi, per favore, per quale motivo mi state apertamente prendendo in giro?»

«Chi sta prendendo in giro chi?», dice una voce alle nostre spalle che riconosco immediatamente come quella di Shannon. Quando mi volto, infatti, lui e Jared sono in piedi a guardarci curiosi, i sorrisi nascosti dalle lunghe barbe che ormai, temo, si siano impossessate dei loro volti. Vedendo i nostri sguardi inquisitori, alza le spalle. «Abbiamo finito in tempo e abbiamo pensato di fare un salto sperando non vi foste già imbarcate».

«How cute», esclamo. Quello che i sei occhi che mi fissano straniti per la mia uscita non sanno è che quell’affermazione pensavo di averla solo pensata. «Intendo, carino da parte vostra. Insomma, qua potrebbero riconoscervi tutti e …», comincio a gesticolare e ad impapinarmi in preda al nervosismo.

«Abbiamo capito», dice Jared e gli altri annuiscono. Alzo il pollice e sfodero un sorriso da “datemi una buca per sotterrarmi in questo mare di cemento” e faccio ridere tutti. «Chi prende in giro chi?», domanda lui evidentemente togliendomi dall’imbarazzo. «E per la cronaca», continua guardandomi dritta negli occhi, «a noi non interessa quando, dove e con chi ci vedono i paparazzi. È la nostra vita e non possiamo viverla barricati nel MarsLab, anche se è quello che principalmente facciamo quando non siamo in tour, quindi non preoccupatevi per noi».

Mi sento gli occhi brillare di lacrime e abbasso la testa per non farmi beccare. Questa situazione è troppo per il mio cuoricino romantico. Ho come l’impressione che da un momento all’altro ci lascerò le penne, a causa di tutte queste belle emozioni, accipicchia.

«Mi prendevano in giro riguardo ad un tweet che ho scritto, ma non ne capisco il motivo», riprende il filo Tomo, le braccia incrociate al petto con fare indignato.

«Hai scritto una cosa veramente senza senso secondo la grammatica italiana, che nel suo complesso fa molto, e ripeto, molto ridere. Molto».

«Molto?»

«Moltissimo».

«Quindi il mondo sa che uso google traduttore e non sono un poliglotta», afferma.

«Già», diciamo in coro. «Ma anche Leto qui non scherza», aggiunge Rain.

«Io?», dice Shannon puntandosi un dito contro.

«No, tu scrivi la stessa frase per ogni tappa del tour ormai. Però sbagli i nomi delle città, a volte, e anche quello è molto divertente», ridacchia Rain. «In ogni caso mi riferivo a Jared, che a suon di hastag bizzarri e xo ci fa sbellicare ogni volta».

«Veramente ha rotto le palle con quegli xo», borbotto io.

«E con la Francia», aggiunge Francis.

«E con le bionde», dice invece Rain.

«Avete finito?», ci chiede Jared, che come Tomo e Shannon ora ha assunto un’espressione offesa, incrociando le braccia sul torace.

«Ci sarebbero molte cose da dire ancora, ma sì, credo che abbiamo finito qui. Per il momento», sogghigna Francis.

«Ingrate», soffia Shannon ricevendo approvazione dagli altri due.

Mentre noi tre ragazze ci sbellichiamo dalle risate per la reazione dei tre “uomini” che abbiamo davanti, che in realtà assomigliano di più a gatti irritati, sentiamo annunciare che il nostro volo è stato assegnato al terminal numero 5, e che i passeggeri sono gentilmente invitati a recarsi al check-in.

«Immagino sia ora che voi ve ne andiate», dice Tomo.

«Finalmente!», esclama Shannon, con però un sorriso benevolo in faccia.

Mi sarei aspettata tutto tranne che i tre che si avvicinano a noi e ci abbracciano come un sol uomo, scompigliandoci i vestiti e i capelli. Un po’ come quando dei vecchi amici che ormai vivono in luoghi diversi, si salutano affianco ad un treno che a breve partirà, non sapendo quando si rivedranno, ma celando dentro di essi un sentimento che difficilmente può essere cancellato, nemmeno dalla distanza.

«Okay okay, basta o scoppio a piangere», dico tirando su col naso, perché qualche lacrima in realtà mi è già scesa.

«Giusto», dice Shannon, una voce roca. «Andate o ci tocca vedervi per ancora chissà quanti giorni, se perdete questo aereo».

«Sai cosa Shan? Vaffanculo», dico, e gli mando una linguaccia mentre raccolgo i miei bagagli.

Lui scoppia a ridere. «Sì, vaffanculo anche a te Deborah».

E lo so che questo è il loro modo per dirci addio, sperando che sia un arrivederci, che altro non è che un vediamoci presto, perché sappiamo che a breve sentiremo la vostra mancanza, voi che altro non siete che parte della nostra enorme famiglia chiamata Echelon.

 

 

 

 

 

 

Umh. Ora parto con la raffica di scuse, okay?

Esami di maturità che mi hanno tenuta incollata ai libri per un mese, più o meno. Per fortuna sono finiti e anche bene, un ostacolo in meno da superare.

Sul più bello che gli esami sono finiti, mi si è rotto di nuovo il computer. Qualcuno ci ha lanciato un malocchio sopra, secondo me, perché questo catorcio non smette di avere problemi.

È tornato e ho dovuto scrivere una cosa per il Campiello, perché credo di non averlo comunicato qui, ma sono *rullo di tamburi immaginario* una delle cinque finaliste del concorso Campiello Giovani. Sì, mi sento alla grande. Sì, è tutto fighissimo. Sì, sono emozionata. E sì, ho un’ansia allucinante.

Ultima ma non meno importante scusa è che la mia ispirazione era andata a farsi un viaggetto in qualche isola caraibica e non aveva più intenzione di tornare a casa.

Ma ora eccomi qui con quello che è l’ultimo capitolo. Quindi dobbiamo salutarci e io non sono brav…

No, non è vero, c’è ancora l’epilogo. Ergo a presto (spero), e (spero) che qualcuno leggerà questa schifezza e non verrà a sgozzarmi nel sonno ritenendola una non schifezza.

Bacini sul naso, Deborah.

 

 

  
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