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Autore: pandaivols    20/07/2014    4 recensioni
▪ DAL PROLOGO:« Signor Hidden, vuole invece rivelare ai telespettatori cosa dovranno aspettarsi i nuovi ventiquattro tributi di quest'anno dall'Arena? » [...]
« Ti dirò la verità, Flickerman: penso proprio
nulla. » Il volto del conduttore era la sorpresa e la confusione fatta persona, così come tutte le altre facce che componevano la platea di quella sala.
Inaspettatamente, dopo essersi goduto la reazione che aveva suscitato, Frank Hidden continuò: « Perché potrebbero aspettarsi veramente
di tutto. »
Un coro di espressioni sorprese - e desiderose di vedere quei secondi Hunger Games in azione - si sparse per tutto il pubblico.
[...]
Il presentatore si alzò, spalancando le braccia ed annunciando a gran voce: « Signore e signori, che i secondi Hunger Games abbiano inizio! »


Ecco a voi, intrepidi capitolini, la seconda edizione dei Giochi della Fame. Chi saranno i ventiquattro tributi pronti ad uccidersi, vivere o morire per la vittoria? Sta a voi deciderlo; e tenete gli occhi bene aperti, avventurosi lettori, perché il pericolo, il sangue e la morte potrebbero essere proprio dietro l'angolo.
Genere: Azione, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Altri tributi, Nuovi Tributi, Nuovo personaggio
Note: Cross-over, Lime, Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il sangue del vicino è sempre più rosso.'
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Il sangue del vicino è sempre
più rosso.

 

 







 

No one wants to die (wanna try?)


.




 
Everybody wants to change the world
Everybody wants to change the world
But no one,
No one wants to die
Wanna try, wanna try, wanna try
Wanna try, wanna try, oh?
I’ll be your detonator.

 [ Na Na Na - My Chemical Romance ]


 
I. Primo tempo – L'uomo nero.
Le parve di essere lì da una vita intera, gli arti erano intorpiditi e anche la testa era pesante, ma pian piano riusciva a controllare il suo corpo e tutto sembrava tornare normale. Gli occhi neri puntavano sul posto d'onore in alto, così familiare...
Naomi era già stata lì, ne era certa. Si guardò attorno: in alto il luogo era completamente circondato dalla platea e lei si trovava nella piazza sottostante, brulicante di gente; si soffocava lì per quanta gente ci fosse, non si riusciva neanche a respirare, ma a Naomi non importò, perché ricordava chiaramente di aver sfilato in quella piazza su un carro, appena pochi giorni prima.
Sentiva il corpo pervaso da una strana sensazione, come se stesse dormendo o come se si fosse appena svegliata. Era confusa, ma lo fu ancor di più quando tornò a fissare di fronte a lei, in alto, su quel posto d'onore. L'ultima volta vi aveva visto la chioma chiara come la neve del presidente Rigel e anche la maschera da cervo di Hidden. Ora invece vi era un uomo alto, piazzato, dal volto squadrato coperto dalla barba incolta, i capelli biondo-rossicci scompigliati e gli occhi azzurri; a fianco vi era un uomo molto più giovane, era poco più che un ragazzo, coi capelli biondi così chiari da far più male degli occhi puntati fissi sul sole e le iridi quasi trasparenti.
Naomi non capiva. Che cosa diavolo stava succedendo? L'ultima cosa che ricordava era di aver ingerito quella dannatissima pillola e di essere entrata in una specie di tubo.
Avrebbe tanto voluto Mason o Jewel accanto a sé, o perfino Klaire e Maximus, chiunque le sarebbe andato bene, bastava che le spiegasse che cosa stava accadendo, cosa significava tutto ciò e, soprattutto, che cosa dovesse fare.
« Guarda, Amanda, là sopra c'è il tuo papà. »
Quelle parole attirarono l'attenzione della mora: si trattava di una donna nella fila davanti a lei, aveva i lunghi e lisci capelli biondi, gli occhi azzurri, un viso paffuto e sorridente, che teneva in braccio una bimba in fasce. La piccola mano nella neonata andò a sfiorare la folta barba scura dell'uomo accanto alla bionda, che cercava di far ridere la bambina facendo delle smorfie buffe.
Distolse lo sguardo, che si posò sulla donna accanto a sé: lunghi capelli mossi, neri come gli occhi, un sorriso malinconico, ma quasi liberatorio.
« Mamma » la chiamò, la voce inaspettatamente flebile, quasi non riuscisse a tirarla fuori. La donna si voltò, incrinando il capo e continuando a mantenere quel triste sorriso. Teneva gli occhi aperti per paura che sbatterli avrebbe potuto mandar via tutto quello che stava vedendo, ma ora iniziavano a dolerle. « Che succede? »
« Il nuovo presidente sta per fare un discorso » spiegò come se fosse ovvio, ma pazientemente.
Nuovo presidente? La mente della ragazza si riempì di nuove domande che si aggrovigliavano le une sulle altre. Tutto ciò non aveva senso. Quell'uomo, Randy Wane, era morto, ne era certa; e anche il suo compagno, Hans Coin, molto probabilmente era finito ridotto in cibo per ghiandaie dopo le bombe.
La testa di Naomi scattò nella direzione opposta, scrutando fra la gente, ansimando, alzandosi sulle punte per scorgere qualche volto familiare. Fino a che non vide Jewel e per un attimo si sentì al sicuro. Prese a correre, senza nemmeno riflettere.
« Naomi, dove vai? » le gridò dietro sua madre, ma lei non vi badò. Se era viva e se tutto quello era vero, l'avrebbe ritrovata.
Non ricordò un momento in cui era stata così felice e sollevata, quando notò che vicino alla mentore c’era anche Mason.

 
* * *
 
Kenia si guardò attorno: era circondata da bambini frignanti, rinchiusi in una sala grigia e spoglia, cadente. Non stringeva più Betty al petto e questo la disorientò, facendola entrare nel panico. C’era qualche Pacificatore che faceva avanti e indietro e così, prendendo coraggio, andò da loro. Erano Pacificatori, in fondo, non le avrebbero mai fatto del male una volta chiarito chi fosse suo padre.
« Mi scusi, signore. » Tirò il lembo della divisa di uno, attirando la sua attenzione. « Dove siamo? »
L'uomo la spintonò col manico del fucile, facendola cadere. « Sta’ alla larga, ragazzina. »
Kenia si alzò, tentando di nuovo: « Mi scusi, ma forse lei conosce mio padre. Si chiama Kingsley Reaper. »
La ormai tredicenne non riusciva a vedere gli occhi dell'uomo sotto quella visiera, ma comunque li sentiva fissi su di lei. « Kingsley Reaper? » ripeté lentamente, stringendo il fucile in mano e puntando la canna di scatto sulla fronte della minore, che sobbalzò, spaventata. Era questo il modo in cui sarebbe morta? Sparata da un Pacificatore?
Un collega intervenne, distogliendo la canna dalla traiettoria della riccia, che non osava tirare un respiro di sollievo. « Ma che fai? »
Il primo Pacificatore strattonò l'arma, togliendola dalla presa dell'altro. « Hai ragione. Tanto il resto della sua famiglia è andata a farsi fottere sotto terra. »
Il cuore le si bloccò e capì che di certo quelli non erano i Pacificatori che conosceva e con cui suo padre aveva lavorato durante i Giorni Bui. Ma cosa significavano quelle parole?
Qualcuno la tirò velocemente indietro, tappandole la bocca in modo da non poter urlare. « Vuoi chiudere quella tua dannata bocca? » le intimò, rabbioso.
Kenia vide il volto del suo Logan di fronte a lei. Lo sapeva che sarebbe tornato! Lo sapeva che lui vinceva sempre! Sorrise di gioia, ma non osò abbracciarlo e poi, dietro di lui, riconobbe Charlie, Cip e Ciop, strette fra loro e visibilmente spaventate. « Ci farai uccidere tutti. » La costrinse stare giù e a restare col resto dei bambini frignanti, abbassando il tono della voce: « Dobbiamo aspettare, te l'ho già ripetuto, solo così riusciremo a scappare. »
Avrebbe tanto voluto chiedergli perché e da dove dovevano scappare, ma Kenia preferì non fare domande, come era abituata con Kingsley. L'unica che non voleva abbandonare la sua mente era dove si trovasse Delphi in quel momento.

 
* * *
 
Quando Go aprì gli occhi le sembrò esattamente di averli sempre tenuti aperti, per un tempo interminabile, tanto che fu costretta a sbattere ripetutamente le palpebre perché la luce per poco non l’accecò. Si rese conto che c’era veramente tanta… folla, intorno a lei, e cercò di capire in che luogo si trovasse. Non poteva di certo essere l’Arena, quella, a meno che tutte quelle persone non fossero state dei mostri cannibali pronti a mangiarla. Un piccolo brivido le scese lungo la spina dorsale; poi notò che c’erano anche molti bambini, per cui si tranquillizzò e si lasciò sfuggire un sospiro dalle labbra. Forse quello era un effetto collaterale della pillola. O forse doveva stare più attenta di quello che pensava.
Si voltò a destra e a sinistra, dove trovò una donna che la teneva per mano – non ci aveva fatto nemmeno caso, le sue membra sembravano troppo intorpidite –, con i suoi stessi tratti orientali e i lunghi capelli neri come o più dell’ebano, il ciuffo raccolto da una forcina decorata da un piccolo ma finto fiore di loto. Si domandò per un istante perché non fosse sua nonna, poi prese a fissarla timidamente, sperando che non le avrebbe dato fastidio. Ma se quella non era Kaori, allora non poteva essere altri che sua…
« Mamma? »
La donna si voltò verso di lei con un sorriso luminoso. « Sì, tesoro? »
Go mormorò qualche frase di stupore che sua madre non colse. « D-dove siamo? » balbettò la dodicenne, sentendosi la mano sempre più sudata. Accarezzò le dita della donna, le sembravano così vere. Possibile che fosse soltanto un’allucinazione? Eppure doveva essere così per forza, sua madre era morta, quando lei era ancora molto piccola.
« Come “dove siamo”? » chiese. « Il discorso di Randy Wane, hai dimenticato? »
Go le riservò un’occhiata a dir poco perplessa. « Randy Wane? » Che razza di allucinazioni provocava, quella pillola?
Sua madre sembrò stranita, ma prima che potesse ribattere, guardò alle sue spalle e cambiò completamente espressione. « Go, tesoro! » esclamò con gioia, portandosi la mano libera alla bocca. « Sanguini! »
La bambina sobbalzò; girò il capo e si guardò la schiena, tentando di capire da dove sanguinasse e perché. Non sentiva alcun tipo di dolore, eccetto che un fastidio alla pancia.
Eppure notò che la gonna che indossava era davvero tutta insanguinata, dal fondoschiena in giù. All’inizio si spaventò, ma poi capì perché sua madre fosse così felice. Non si aspettava che quel momento sarebbe arrivato proprio adesso.
Le sue guance arrossirono di botto per l’imbarazzo e sua madre la trascinò, sempre sorridendo, via di lì.
« Forza, cerchiamo il bagno » disse. « Ora sei una donna, bambina mia! »
Go continuò a stringere la mano della madre senza poter fare altrimenti. Qualcosa le diceva che avrebbe preferito avere nonna Kaori accanto a sé, ma non aveva idea di dove potesse essere.

 
* * *
 
Confuso come in quel momento non lo era mai stato, neanche quando l'esercito l'aveva strappato dalle braccia di sua madre e l'aveva rinchiuso in una cella sotterranea di Capitol City.
Qualcuno picchiettò sulla sua spalla, facendolo voltare di scatto. Mason tra poco non ci rimaneva secco nel vedere sua madre. Le afferrò il volto di getto, senza neanche pensarci, osservandola e tastandola, incerto se fosse reale o no.
Quella sbatté le palpebre, perplessa. « Mason, che fai? » chiese, benché le venisse un poco da ridere. Gli prese le mani nelle sue, dolcemente, per poi sussurrargli all'orecchio: « Vado a informarmi sui cadaveri. » La donna si scostò, alzando le spalle e sentendosi un po’ sciocca. « Probabilmente i capitolini avranno gettato il suo corpo molto tempo fa, ma mi piacerebbe seppellirlo... se lo ritrovano. »
Mason annuì, vedendo sua madre allontanarsi, ma fu un'azione meccanica, in quel momento non riusciva a concretizzare nulla. Sua madre di certo stava parlando di suo fratello. Si era ritenuto sempre fortunato ad essere vivo, a non essersi beccato una pallottola in testa alla roulette russa, al contrario di Alec. Strinse i pugni, mentre la rabbia cominciava a ribollirgli, come ogni volta che iniziava a domandarsi chi avesse mai sparato a suo fratello. Ma in fondo come poteva biasimare quell'assassino? Era in gioco la vita sua o quella di Alec e ben pochi si sarebbero sacrificati per salvare un estraneo.
Qualcuno gli accarezzò il pugno, infondendogli tranquillità e stringendogli la mano. Si voltò e riconobbe un paio di occhi verdi smeraldo, i lunghi capelli biondi lisci che iniziavano ad arricciarsi col caldo. Poteva benissimo essere scambiata per Jewel, ma lui l'aveva conosciuta fin troppo bene per essere così sciocco da non distinguerle. Eppure Lucy Hall, la sua ex compagna di classe, gli stava tenendo la mano e gli sorrideva teneramente come non aveva mai fatto.
« Va tutto bene » disse, come se già sapesse, confondendo ancora di più Mason.
Durò solo un attimo, però, perché subito dopo iniziò a pensare che se c'era Lucy, allora doveva esserci anche Jewel. Spostò lo sguardo e riconobbe la sua figura da dietro. I ricci che le scendevano sulle spalle, la figura alta e snella. Era di fronte a lui.
« Jewel? » la chiamò, quasi con timore, mentre sentiva i suoi occhi iniziare e prudergli.
La ragazza si voltò: era lei. Le labbra di Mason si tirarono in alto in un sorriso e si lanciò ad abbracciarla, a stringerla sul suo petto, intrecciando le mani nei suoi capelli per assicurarsi che stesse bene. Da quando Mason non sorrideva? Da quando non abbracciava una persona sentendo che teneva veramente a lei?
Ma due mani premettero sul suo torace, spingendolo via. Le sopracciglia aggrottate della sua mentore, gli occhi smeraldini lo fissavano duri, la bocca contratta.
« Che diavolo stai facendo con la mia ragazza? » domandò bruscamente una voce. Mason ne scorse il proprietario e fu certo che non avrebbe mai rischiato di avere un infarto se non in quel momento. Alto, muscoloso, chioma bionda di capelli e i tipici occhi verde smeraldo del Distretto 1. Mason non stava capendo più nulla. Come era possibile che Blaze Price era di fronte a lui se era morto, ucciso per sbaglio nell’arena dalla stessa Jewel, di cui ora stringeva possessivamente la mano?
Spostò lo sguardo sulla mentore, cercando una spiegazione, ma ottenne solamente un'occhiata accusatoria. Avanzò di un passo. « Ricordati che hai già una ragazza » sibilò a denti stretti, per non farsi sentire dagli altri.
Mason strabuzzò gli occhi, guardandosi alle spalle, dove Lucy era rimasta a guardare, sentendosi a disagio e forse anche tradita. La bionda chinò il capo, non riuscendo ad affrontare le sue iridi scure che la puntavano. Conosceva Lucy Hall da anni e l'aveva sempre vista forte, invece ora gli pareva la ragazza più fragile del mondo.
Ma lui? Loro? Com'era possibile? No, Mason non aveva una ragazza, nulla del genere, almeno da quando li avevano catturati. E improvvisamente il diciottenne si ricordò chi fosse realmente importante in quel momento.
« Jewel! » sentì la sua voce, poco lontano, e gli parve un'allucinazione. « Mason! » gridò di nuovo e stavolta il ragazzo si costrinse a voltarsi, vedendo la chioma scura di Naomi che arrancava fra la gente, facendosi strada con braccia e spintoni.
Gli saltò addosso e lui non esitò a stringerla, preoccupato, quasi sul punto di piangere, di confessarle che aveva paura e che non capiva più nulla. Avrebbe attaccato a farle tremila domande, se non fosse per il pugno in pieno viso che lo colpì, facendogli perdere l'equilibrio e facendolo finire a terra. Sentì alcune grida, la gente si spostò, facendogli spazio.
Naomi non si rese conto inizialmente di cosa stesse succedendo, ma le parole le uscirono di bocca, senza che potesse fermarle. « Che cazzo di problemi hai? » chiese, riconoscendo in seguito l'aggressore.
Christian Adams era di fronte a lei, impossibile non riconoscerlo coi suoi inusuali capelli castani e quella tonalità differente di verde che variava verso l'olivastro nelle sue iridi. Si concesse qualche istante per analizzare la situazione: Mason era a terra, Chris di fronte a lei, dietro Lucy Hall era scoppiata a piangere e di fianco vi era Jewel, stretta a... No, si disse, non era possibile.
« Tu eri morto... » mormorò in direzione di Blaze, sentendo il sangue gelarsi nelle sue vene. Nessuno sembrava averle dato retta.
« Tu dovresti spiegarmelo! » le urlò contro Chris, visibilmente confuso e infuriato.
« Te la fai ancora con lei, non è vero? » gridò Lucy fra le lacrime, mentre Mason cercava di rimettersi in piedi.
Gli occhi di Naomi guizzarono subito in direzione del suo compagno, sperando che lui sapesse qualcosa in più.
« Perché perdi tempo con lei, Chris? » domandò aspramente Jewel, osservandola con lo sguardo sprezzante che le rivolgeva un tempo. « Non cambierà mai, te l'avevo detto che ti avrebbe tradito. »
« Smettila! » la zittì il moro, allontanandola con un gesto della mano. « Lo sai che non voglio che parli di lei così. »
« Perché no? » domandò, permalosa. « Non è colpa mia se è fedele peggio di un cane. »
Blaze, stringendola a sé, corrugò la fronte, perplesso. « Tesoro, ma i cani sono fedeli. »
« Si sposano? Si giurano eterno amore? Celebrano matrimoni? » Ovviamente la bionda non si aspettava una risposta. « No. Si scopano qualsiasi cagna che hanno di fronte, come lei » additò la mora, proseguendo: « Quindi no, i cani non sono fedeli. »
Naomi cercò di farsi scivolare via tutte quelle accuse, come era sempre stata abituata. Ma notò che parole del genere facevano ancora più male se dette da Jewel. Scansò quel pensiero solo perché un altro in quel momento occupava la sua mente.
Quasi non le venne da ridere, ma per il nervoso. « Noi due non stiamo assieme » affermò convinta a Chris.
« Mi stai lasciando? » chiese lui, puntandole gli occhi tristi addosso. Additò Mason, accusandolo. « Per lui? »
Lucy, dietro, si passò una mano fra i capelli, sul punto di avere una crisi isterica e la migliore amica tentò di abbracciarla per consolarla.
« No » rispose prontamente. « Cioè... è impossibile che stiamo assieme. A me piacciono le ragazze! »
« Cosa? » Naomi serrò la bocca non appena capì cosa si era lasciata sfuggire. L'espressione di Chris diventò ancora più cupa. « Quindi non sono che un rimpiazzo? »
« Allora devo stare attenta che non punti me invece che il mio ragazzo! » sbraitò Lucy.
« Ovvio, lei ti lascia e tu vieni a consolarti da me. Che stupido, aveva ragione J. » continuò il maggiore.
Quella frase fece nascere un brivido di rabbia in tutto il corpo di Naomi. « Lei non mi ha lasciato » sibilò, tentando di trattenere tutta la sua frustrazione. Aveva risposto immediatamente, pensando a Lucinda Harvey, la sua Lucy, non quella biondina di fronte a lei che le serbava solo odio. « Lei non mi ha lasciato! » ripeté a voce più alta.
« Certo, ti ha solo gentilmente chiesto di non avere più niente a che fare con lei e poi se ne è ritornata nel Distretto 2 per... che ne so, progettare giocattoli per bambini. »
Uno sprazzo di speranza le attraversò la mente. Era tornata nel Distretto 2? Lucy? « Lei è... viva? » sussurrò, flebile.
« Sei forse impazzita, Naell? » domandò Jewel, prendendola seriamente per matta. Come l'aveva chiamata? Naell? Naomi era come pietrificata. Jewel non aveva mai conosciuto il suo vero cognome, né lei gliel'aveva mai rivelato. Ma allora com'era possibile? Non se l'era immaginato, aveva proprio detto "Naell".
« Pensavo che quell'anello contasse qualcosa per te. Ma forse mi sbagliavo » sputò Chris, deluso e ferito.
Istintivamente Naomi si guardò le mani e riconobbe sull'anulare sinistro un anello che ultimamente aveva visto fin troppo spesso. Non aveva dubbi, era quello di Jewel, era quello che Chris le aveva regalato prima di andare in Arena, quello in cui era nascosta una piccola lama e con cui aveva ucciso Blaze.
Non riuscì a pensar altro, che venne bruscamente afferrata e trascinata via da Mason. « Vieni! » gridò, iniziando a correre nella folla per allontanarsi da lì. Naomi non capiva, ma poi, dietro al gruppo di ragazzi, vide una figura alta e imponente, completamente nera e incappucciata, ma senza volto, che avanzava decisa verso di loro, a passo svelto. Eppure sembrava che nessuno vi badasse.
Sentì qualcuno gridar loro dietro, ma Naomi era così confusa da essere incapace persino di distinguere le voci.
« Lei è viva » riuscì solamente a mormorare, incredula. « Lei è viva, Mason! »
« Lo so, lo so. Ma ora dobbiamo andarcene di qui se vogliamo vivere anche noi » rispose il moro, « e capire cosa cazzo succede. »

 
* * *
 
« Hey, Will, cosa ne dici di questo? » chiese una ragazzina dai capelli e occhi castani. Sembrava più piccola di lui, non l'aveva mai vista in vita sua e gli stava mostrando quello che pareva essere un abito da sposa.
Qualcuno gli schioccò le dita di fronte agli occhi, facendolo sussultare. « Pronto? Ti sei imbambolato? » fece un’altra voce femminile accanto a lui.
Si voltò e vide Roxy coi suoi lunghi capelli scuri, gli occhi verdi e il piccolo naso cosparso di delicate lentiggini, alta e gracile come uno stuzzicadenti come se la ricordava prima che esplodesse e il suo corpo si tramutasse in brandelli di viscere e poltiglia quasi disintegrata.
Le palpebre erano dannatamente pesanti e quasi gli sfuggì un sorriso: in fondo non era raro che la sua gemella gli parlasse in sogno.
« Ah, sei viva » mormorò, perdendosi fra i frammenti felici che i sogni potevano donargli.
« Perché, dovrei essere morta? » domandò, alzando un sopracciglio.
« Perché ti ho visto saltare in aria » bofonchiò, sbadigliando.
« Su un tappeto elastico, magari » scherzò. « Ma se vuoi costruisco una macchina del tempo, torno indietro, salvo mamma e papà e prendo il loro posto. Così, a random, magari poi divento anche l'eroina della ribellione e pretendo che tu mi faccia costruire una statua. La voglio d'oro e gigantesca. »
Qualcuno ridacchiò, poco lontano da loro, ma William non vi badò e quasi preferì ritornare a chiudere gli occhi.
« Un'eroina, come la moglie di Randy Wane. »
« Ah, quanto è bella! » esclamò qualcun'altro.
« Bah, mica tanto » si aggiunse una terza voce.
« Hey, Jamie, dì qualcosa al tuo promesso sposo. Sta decisamente dormendo in piedi, oggi! »
A quel nome William aprì di nuovo gli occhi e, fra tutto quel bianco e tutti quei vestiti, riconobbe l'esile figura della sua Jamie di fronte a lui, su un piedistallo, con addosso un sontuoso e lungo abito. Ne rimase estasiato e si convinse ancora di più che quello fosse un sogno. Le pareva bellissima come un angelo e restò a bocca aperta, senza la forza di dire nulla.
« Non sai sceglierteli, gli uomini » la rimproverò Roxy, schioccando la lingua sul palato e prendendo in giro l'espressione da ebete del gemello.
Jamie lo guardò intimorita coi suoi occhioni ambrati. Si sentiva spaesata, inconsapevole del perché stesse in un negozio di abiti da sposa e del perché ne stava indossando uno. All'inizio essere circondata da quei volti sconosciuti l'aveva spaventata, ma poi pian piano ne aveva riconosciuto i lineamenti, troppo simili ai suoi. L'ultima volta che aveva visto quelle tre ragazze che la circondavano erano poco più che bambine, ma forse erano una delle poche cose che ricordava del suo passato: Margaret, Andreah, Jonah... ricordava chi fossero le sue sorelle così come ricordava che erano state fucilate davanti ai suoi occhi, mentre lei era caduta rimanendo indietro e l'anziana Maelh l'aveva trovata, salvandola.
Will si torturò le mani, nervoso per quella situazione, ma le sue dita toccarono qualcosa di freddo e metallico. Abbassò lo sguardo sulle proprie mani e vide un anello di fidanzamento, sottile e argenteo. Alzò di scatto gli occhi verdi verso quelli di Jamie, notando che anche lei aveva avuto la sua stessa reazione.
Qualcosa gli balenò improvvisamente nella mente, stringendogli il cuore in una morsa. « Roxy, dov'è Nico? » domandò.
La mora assottigliò lo sguardo, non capendo. « Nico? » ripeté. « Che razza di sogno hai fatto? Lo sai che andare a dormire senza mangiare ti fa male. »
 
* * *

« Molto probabilmente ci faranno evacuare per un po' dal Distretto 4, in modo da ripulire le tubature dell'acqua. »
Ocean fu attirato immediatamente dalla voce inconfondibile di suo fratello Elijah. Sbarrò gli occhi nel riconoscere i ribelli Wane e Coin che parlavano sulla tribuna.
« Ma non erano morti? » domandò, ma le ultime sillabe gli morirono in gola. Prima di tutto, perché suo fratello era nell'Arena? Secondo, che razza di Arena era? Terzo, perché Elijah non era su una sedia a rotelle? Era lì, accanto a lui, in piedi, forte e fiero come l'aveva sempre ricordato prima dei Giorni Bui. « Le tue gambe! » gridò.
Elijah se le guardò, disinteressato. « Che hanno fatto? »
« Dove hai trovato i soldi per l'operazione? » chiese il diciassettenne, scandalizzato.
Elijah corrugò la fronte, non capendo di cosa il minore stesse parlando. « Quale operazione? »
« Ma... le tue gambe... insomma... Dove sono papà e mamma? » cambiò domanda, notando che stava iniziando a balbettare e che quella fosse la cosa più giusta da chiedere.
Elijah lo guardò sconvolto, domandandosi se stesse dicendo sul serio. « Al cimitero » rispose, come se fosse ovvio.
Ocean aggrottò le sopracciglia. « E che ci stanno a fare? »
Il maggiore si guardò attorno, sentendosi preso per il culo. « I morti non hanno ancora imparato ad andarsene in giro, Ocean. »
Il biondo si paralizzò, stavolta l'avrebbe voluta lui una sedia a rotelle, perché sentiva le gambe farsi molli. « Dov'è Leila? »
« Sicuro di sentirti bene? » Per Elijah suo fratello si stava comportando in modo fin troppo strano. Perché poi voleva sapere dove fosse la nipote del sindaco? « Dovrebbe stare fuori » concluse, pensando che era meglio non indagare troppo.
Il minore iniziò a correre fra la folla, facendosi strada. Doveva trovarla, ma allo stesso tempo era ansioso di prendere una boccata d'aria. Uscì dal padiglione, respirando a pieni polmoni. Sopra di lui si ergevano i grattacieli vertiginosi di Capitol City, molti distrutti e le strade dovevano ancora essere completamente ripulite dalle macerie, ma più o meno gli era tutto familiare, per quel poco che aveva visto della metropoli. Nei paraggi di una delle entrate minori della struttura notò Leila – coi biondi capelli intrecciati laboriosamente per l'occasione – intenta a parlare con qualcuno. Le corse incontro, desideroso di abbracciarla, ma dovette fermarsi immediatamente quando la vide baciarsi con quella persona.
Sgranò gli occhi, sconvolto. « Che fai? » li interruppe.
I due furono costretti a separarsi e Leila ridacchiò, imbarazzata, aggiustandosi il vestito per controllare che fosse in ordine. La cosa più sconvolgente fu riconoscere il ragazzo: folti capelli biondo scuro che urgevano un taglio, grandi occhi azzurri, labbra carnose e carnagione abbronzata.
« Hey, Ocean » lo salutò Leila – che per lo meno fino a qualche minuto fa credeva la sua ragazza – ma lui per una volta la ignorò, concentrandosi sull'altro.
« Chord, dovè Beryl? » gli domandò duramente, preoccupato.
Il ragazzo sembrò fin troppo perplesso. « Chi è Beryl? » 
 
* * *

« Sarà un caso che Ophelia ha smesso di piangere proprio quando Randy ha cominciato il discorso? » domandò una voce estremamente familiare accanto a lui.
All’inizio Benvolio si sentì la testa talmente pesante che non riuscì nemmeno a girarla; quando poi si voltò, trasalì di botto. « Giselle? » chiese, stupito e terrorizzato al contempo. « Cosa ci fai qui… l’Arena… Randy…? »
Giselle lo osservò con uno sguardo a metà tra il rimprovero e la beffa. « Ma che stai dicendo, Ben? »
Benvolio prese a fissare il frugoletto dalle treccine castane che la sua fidanzata aveva tra le braccia e il suo cuore perse un battito. « Chi è questa bambina? » continuò a domandare, gli occhi spalancati.
Giselle sembrò avere una paresi facciale per quanto rimase atterrita. « Ben, mi stai spaventando. E’ tua figlia, Ophelia! Che cavolo ti prende? »
Una serie di altre domande si affollò nella mente del biondo e lui inspirò profondamente per tentare di calmarsi. Perché Giselle era lì, perché diceva che avevano una figlia? Una figlia! Lui non ci aveva neanche mai pensato, a dei figli.
E poi la ragazza aveva parlato di Randy Wane… e in effetti lo vedeva perfettamente, lì in posizione eretta sulla tribuna d’onore dell’anfiteatro dove, diamine, pochi giorni prima c’era stata la parata dei tributi.
Era davvero quella, l’Arena? Una ricostruzione di Capitol City? No, impossibile. Giselle era al sicuro a casa sua, al Distretto 9 e Randy Wane era morto, fatto a pezzi dalle bombe di Rigel.
Che sta succedendo?
Se a quello si aggiungeva che appena la sera prima aveva tradito Giselle con Melanie – anche se alla fine non aveva ancora capito perché proprio nel momento cruciale la sua compagna di distretto si fosse messa a urlare, e non di piacere o di dolore, e perché l’avesse cacciato dalla stanza, così da non concludere un bel niente – era sicuro che sarebbe impazzito a breve.
« Sì, scusami… » mormorò in direzione della fidanzata, che sembrava alquanto contrariata dal suo comportamento. « Mi gira un po’ la testa… »
L’espressione di Giselle cambiò l’istante successivo. « Forse è questa maledetta tuta da Pacificatore che non ti fa respirare » disse, apprensiva, e con una mano gli allentò il colletto della tuta.
Benvolio sentì una goccia di sudore scivolargli lungo la tempia. Effettivamente aveva molto caldo e si sentiva soffocare. Si guardò gli abiti: una bianca tuta da Pacificatore, proprio come aveva detto la ragazza; eppure ricordava che l’avevano fatto vestire in tutt’altro modo per l’Arena. Un’altra stranezza che si andò ad aggiungere a tutto ciò che già lo circondava. Se impersonava un Pacificatore, allora perché poteva permettersi di avere una moglie – l’aveva capito dalla fede che Giselle portava all’anulare – e una figlia? Più i minuti passavano, meno capiva.
« Vado… » biascicò, scrutando la folla in cerca di una via di fuga, « vado a prendere una boccata d’aria. » Giselle annuì e lo lasciò andare.
Benvolio cominciò a camminare a passo spedito, facendosi strada tra uomini e donne di varia età e ceto sociale, tra spinte e spallate poco gentili a cui seguirono delle imprecazioni altrettanto sgarbate.
Doveva fare qualcosa, era tutto troppo strano.
Raggiunse finalmente un luogo relativamente isolato e si appoggiò con le mani alle ginocchia, respirando piano. Decise che per prima cosa avrebbe provato ad uscire dall’anfiteatro, quando vide poco lontano un Pacificatore – un collega, magari?, anche se lui portava il classico casco – che gli si avvicinava con una certa fretta.
« Hey, Winslet! » lo chiamò. « C’è bisogno di te, abbiamo un problemino nelle ultime file. »
Benvolio si chiese se stesse chiamando proprio lui, ma non c’erano altri Pacificatori o Winslet in zona, e così decise di seguirlo, perché non aveva alternativa migliore. Forse qualcuno di loro gli avrebbe spiegato cosa stesse accadendo, anche se ne dubitava altamente.
 
* * *

La prima cosa che percepì nel ritornare cosciente fu qualcosa di morbido e umido che si poggiava sulle proprie labbra. Rimase con gli occhi chiusi, così, ad assaporare quella sensazione meravigliosa, inebriandosi del profumo di cannella che gli invase le narici.
Sembrava quasi che stesse baciando qualcuno…
Prima ancora che potesse decidersi a guardare cosa stesse accadendo, sentì delle mani piccole che fecero pressione sul proprio petto, allontanandolo.
« Jeyl, ma cosa stai facendo? » Un sussurro timido, eppure contrariato.
Jeyl spalancò gli occhi di botto a quella voce e ciò che vide lo lasciò spiazzato. « V-Virginia? » balbettò, imbarazzato, a pochi centimetri di distanza da lei. Si erano davvero baciati? Ma lui non doveva essere in Arena? E lei…
« Parli? » chiese, ancora, rendendosene conto solo in quel momento e scattando in piedi dalla panchina su cui era seduto.
La ragazza lo fissò con sguardo perplesso. Non rispose a quella domanda così assurda, limitandosi a dire, piuttosto: « Non so cosa tu abbia capito, Jeyl, ma io ti vedo solo come un amico… Mi dispiace… »
Jeyl sentì il cuore comprimersi in una morsa, ma cercò di collegare i punti nella sua testa invece di rimanere ferito da quelle parole. « Virginia… io… » provò a dirle, prendendole il viso tra le mani. Prima che potesse concludere la frase, però, la rossa strabuzzò gli occhi e gli indicò con un cenno del capo qualcosa poco lontano da lì.
Jeyl si voltò e notò Coraline che si era bloccata a qualche metro di distanza, con un paio di coni gelato tre le mani, e che li fissava senza la capacità di proferire parola. Il ragazzo le sorrise, esterrefatto – ma cosa diavolo era quell’Arena? – quando poi si accorse che le sue guance erano rigate di lacrime fresche.
« Coraline » tentò di chiamarla, ma lei fu più veloce, voltò i tacchi e scappò nella frazione di un secondo, lasciando cadere i gelati a terra.
Jeyl rimase quasi imbambolato e fu Virginia a riscuoterlo dal torpore, tirandogli una manica della maglia. « Perché fai così? Insomma, ormai state insieme da due anni! »
« Cosa? » domandò l’altro in un sibilo. « Non è vero! Lei è la mia migliore amica! »
« Avanti, stupido, va’ da lei! » lo incitò la rossa, scuotendo la testa. « Sei forse impazzito, oggi? »
E in realtà Jeyl non lo sapeva, perché se lo stava domandando anche lui. Schizzò in avanti con uno scatto e seguì i passi di Coraline, correndo e tentando di raggiungerla. Vide i suoi capelli neri sparire ad una curva e quindi imboccò la stessa strada, senza smettere di correre.
L’amica – amica? – non riuscì a seminarlo, per cui se lo trovò alle costole dopo pochi istanti. Jeyl le afferrò un polso saldamente, ma senza essere troppo rude, per frenarla.
« Che vuoi?! » urlò Coraline, versando altre lacrime, ma fermandosi finalmente davanti a un negozio di abiti da sposa. « Vattene via! Torna da Virginia, se è lei che ami! »
Il ragazzo avrebbe voluto rispondere che sì, era lei che amava, ma non gli sembrò il caso di dirlo in quella situazione. Piuttosto, avrebbe preferito capirci qualcosa.
« Hey, Cora… » cominciò, ansimando un poco per la corsa, « mi spieghi cosa sta succedendo? Io… non lo so, davvero. »
Coraline sembrò trattenere con rabbia un singhiozzo e si liberò della sua presa con uno strattone. « Ah, io dovrei spiegartelo? Sei stato tu a baciarla! »
Jeyl tentennò. « Non… non mi riferisco a quello… è che… insomma, gli Hunger Games, l’Arena… » Non seppe più come continuare la frase e si passò una mano sul volto. « Senti, forse sono morto o forse è una specie di sogno, ma devi aiutarmi a capire, per favore. »
Coraline fece un’espressione indignata e si asciugò le lacrime con la manica della maglietta. « Non mi chiedi nemmeno scusa… lo sapevo, sei solo come tutti gli altri… uno… uno… » sembrava trattenersi dal dire qualcosa di cattivo, ma alla fine sbottò: « uno stronzo! »
 
* * *

Beryl non badò né a Randy Wane, né ad Hans Coin. L'unica cosa su cui si concentrò quando riprese conoscenza fu il brusio di gente che la circondava. Tirò un sorriso involontario, perché la quattordicenne amava essere fra la folla. Non pensava, però, che un'Arena potesse essere di quel tipo. L'anno precedente era stata così spoglia e misera, invece ora vi erano luci, spalti e persone tutte intorno.
« Ocean! » le venne da gridare, in un barlume di panico quando si rese conto che non conosceva nessuna delle facce che scorgeva.
« Tesoro, che hai? »
Quella voce maschile attirò subito l'attenzione della ragazza, dapprima vedendo sua madre e poi un uomo alto e magro, con dei corti capelli rossi, un accenno di barba e spiccanti occhi verdi.
Per la prima volta nella sua vita Beryl non sapeva cosa dire, non le uscivano proprio le parole e credettee che il suo cuore si fosse veramente fermato.
« Papà! » gridò, saltandogli al collo, fra le lacrime. L'uomo la strinse fra le braccia, ridacchiando, ma poi la quattordicenne si staccò quando un terribile pensiero le attraversò la mente. « Oddio, sono morta? »
Entrambi i suoi genitori scoppiarono a ridere e fu la madre a risponderle: « No, sciocchina. Tutto il contrario! La parata deve averti fatto male. »
Il sorriso le si allargò fino a farle dolere gli zigomi e non riusciva più a smettere di piangere dalla gioia, ma non le importava. « Non vedo l'ora di dirlo a Chord! » trillò entusiasta, non accorgendosi che aveva iniziato a saltellare sul posto.
« Chord? » intervenne suo padre. « Chi è Chord? »
« Ah, è mio fratello » rispose sbrigativamente, eccitata. « Devo raccontarti un mucchio di cose! »
Ebony sbuffò, scocciata dalle fantasie che spesso aveva la giovane. « Quale fratello? Hai sbattuto la testa, per caso? »
Suo padre ridacchiò, lanciando un'occhiatina alla moglie. « Beh, se vuoi, Beryl, potrai averne uno. » Quel commento fece arrossire la donna, che non gli risparmiò un buffetto sul braccio.
Beryl cominciò a rendersi conto che la situazione era strana, preoccupandosi. Era stata felice di vedere suo padre in un primo momento, ma ora si accorgeva che tutto ciò che diceva non corrispondeva a ciò che gli altri credevano.
« Comunque, dicevo che appena finisce il discorso è meglio tornare nel Tredici. La gente in queste occasioni si fa prendere un po' troppo la mano » commentò Aaron, l'uomo.
« Ma il Distretto 13 è stato distrutto, che ci andiamo a fare? »
Gli altri due si scambiarono uno sguardo, preoccupati, e la madre scosse la testa. « Beryl, smettila di giocare. »
Non volle sentire altro, un po' perché odiava quando sua madre la rimproverava, un po' perché non ci capiva più nulla. Fuggì, non guardandosi indietro e svoltando non appena fu uscita da uno dei portoni. Riprese fiato, guardandosi attorno, sperando di riconoscere qualcuno che potesse aiutarla. Le si illuminarono gli occhi quando riconobbe Chord da lontano.
« Chord! » lo chiamò, riprendendo a correre.
La sua voce fece voltare di scatto Ocean, che sgranò gli occhi. « Beryl! » gridò, andandole incontro.
« Ocean! » La ragazza aumentò la velocità, aprendo automaticamente le braccia e stringendole attorno al collo del ragazzo una volta che questo la sollevò in aria. Una volta con i piedi di nuovo per terra, lo sorpassò, riconoscendo Leila vicino al suo fratellastro. « Chord! » lo chiamò di nuovo, andandolo ad abbracciare, ma quello indietreggiò, scansandola.
« La conosci? » gli sussurrò Leila e il sedicenne scosse la testa, intimorito.
Beryl si sentì schiacciare il petto da un masso, restando paralizzata.
Lo sguardo dei tributi del Quattro, però, si focalizzò oltre i due ragazzi, sulla figura nera e incappucciata che era appena spuntata dall'angolo della via e si stava dirigendo verso di loro a passo spedito, con le braccia lungo i fianchi e i pugni stretti. Ciò che li attirò fu il fatto che quell'uomo era senza volto, al cui posto c’era soltanto una porzione informe di pelle.
Ocean afferrò prontamente la mano della compagna, trascinandola e allontanandosi di corsa nelle vie di Capitol City.
« Perché non mi riconosce? » domandò la minore, con le lacrime agli occhi.
« Non ne ho idea » rispose sinceramente il biondo.
« Dove stiamo andando? »
« Non ne ho idea, Beryl. »
« E chi era quel tizio? Perché non aveva la faccia? »
« Non ne ho idea » ripeté, facendo trapelare la paura nella sua voce.
 
* * *

« Magnifica idea quella di venire a visitare le rovine di Capitol City, mia cara » si complimentò il signor Gomez Addams, sfoggiando un passionale baciamano alla moglie.
Wednesday si scrutò attorno: era in una casa decadente, che un tempo doveva esser stata la ricca dimora di qualche capitolino con un orribile e pacchiano gusto nel design, ma ora i muri cadevano a pezzi, era tutto impolverato o distrutto.
« Dobbiamo ricordarci di portare qualcosa alla nonna » ricordò Morticia.
Zio Fester curiosava in giro per la stanza, aprendo barattoli e rovistando nei cassetti ancora intatti, in cerca di chissà cosa.
« Guarda cos'ho trovato » gridò Pugsley, attirando l'attenzione della sorella e sventolando di fronte al naso qualche posata argentea. « Quello che doveva abitare qui ne ha parecchie, una collezione intera, ma sono scadenti. »
Wednesday non si soffermò a domandarsi che cosa stesse accadendo, perché era con la sua famiglia e perché stavano visitando delle rovine... a Capitol City, per giunta; tanto meno si pose la domanda di dove fosse Pubert e perché non era con loro, tanto le fregava di quell'inutile marmocchio.
La dodicenne ghignò e l'unica cosa degna della sua attenzione fu il coltello che suo fratello stringeva fra le mani. « Proviamoli » suggerì, già eccitata nell'iniziare una nuova serie di torture su Pugsley.

 
* * *
 
« Non capisci? Devi sposarmi! »
Clarity iniziò a boccheggiare, come se per tutto quel tempo non avesse respirato. Effettivamente, era come se fosse morta e poi rinata, o almeno era la sensazione che provava. Si scrutò attorno, spaesata, puntando i volti delle persone che la circondavano e non riconoscendone neanche uno. Poi sentì le spalle pizzicarle e notò che i suoi capelli erano ancora lunghi come un tempo. Prese qualche ciocca, rigirandosela fra le mani e non capendo.
« Se non lo farai rischierai che un giorno di questi ti piantino una pallottola in testa come hanno fatto con la tua famiglia. »
Accanto a lei c'era Jeremy Cost, tutto rivestito e sempre con la puzza sotto al naso che, per qualche strano motivo, le stava parlando. Ty digrignò i denti in una smorfia di pieno disgusto.
« Io sono già sposata » sputò, sfuggendo alla presa del ragazzo. Anche il solo stargli vicino le faceva ribrezzo. Come aveva potuto andare a letto con lui quando lei e Perry avevano litigato? Che cosa le era saltato in mente? Ma, soprattutto, di cosa diavolo stava parlando quell'arrogante?
« Che stai dicendo? » chiese quello, aggrottando la fronte.
I pensieri di Ty balzarono immediatamente su suo marito, tralasciando tutto il resto; istintivamente portò lo sguardo all'anulare sinistro e notò che non vi era nulla. L'anello! Dov'era l'anello?
Prese a correre tra la folla senza pensarci due volte, gridando « Perry! Perry! Perry, dove sei? » senza mai prendere fiato, cercando di esaminare ogni volto in quell'immensa folla che la circondava.
Dov'era finita? Che cosa stava succedendo? Come ci era finita in quel posto? Che posto era? E, soprattutto, che cosa stava facendo prima? La sua testa era così pesante, ma allo stesso tempo così vuota.
Si fermò, credendo che da un momento all'altro sarebbe svenuta, come era successo quando era salita sulla pedana. Poi, improvvisamente, i suoi occhi finirono sul volto di un ragazzo, in lontananza: alto, asciutto, pelle chiara, lineamenti affilati, occhi scuri leggermente a mandorla e i capelli scuri raccolti in un codino. A Ty sembrava di conoscerlo, eppure era sicura di non averlo mai visto. Eppure, se solo cercava di immaginare il suo volto diversamente, se solo la metà di quel viso...
I suoi occhi nocciola si sgranarono.

 
* * *
 
Non sapeva esattamente quanto tempo fosse passato, ma sia lei che gli altri continuavano a restare in silenzio perché Logan non aveva ancora fatto il segnale per attuare il loro piano di fuga.
L'attenzione di Kenia fu destata solamente quando una ragazzina all'ingresso prese ad indicarla, parlando con alcuni Pacificatori. Strinse gli occhi in due fessure perché quella ragazzina le era terribilmente familiare, ma non riusciva a ricordare dove l'avesse già vista: aveva lunghi capelli neri e mossi, la carnagione scura, gli occhi color pece e uno sguardo duro rivolto verso di lei.
Clary.
La voce di Brian le rimbombò nella mente, facendole venire l'illuminazione. Si alzò di scatto, pensando che forse quella ragazza sapeva cosa stava succedendo e dov'era Brick; ma quando tentò di raggiungerla, un Pacificatore la colpì alla testa con il fucile. Cadde a terra, dolorante e, portandosi una mano alla tempia, vide che aveva iniziato a sanguinare. Cercò subito di rialzarsi, tendendo la mano verso la mora, ma quella girò i tacchi con indignazione e sparì nel giro di pochi secondi.
« Dove credi di andare? » domandò l'uomo che l'aveva colpita.
« Lei non capisce! » strillò, impaurita nel perdere di vista Clary. « Devo parlare con quella ragazza! »
« Io non credo proprio. » La risata sprezzante del Pacificatore le perforò le orecchie, facendola sentire indifesa.
« Ci penso io » intervenne un altro uomo in bianco. Era quello di prima che le aveva risparmiato una pallottola in fronte, lo riconosceva dalla voce. L'afferrò per un braccio e la costrinse ad alzarsi, spintonandola davanti a lui e puntandole il fucile contro per farla avanzare. « Vieni con me » le intimò.
La riccia vide Logan alzarsi in piedi di scatto, digrignando i denti, ma appena un paio di canne furono puntate verso di lui, tutto il suo impeto si spense; rivolse un'ultima occhiata verso la sua Barbie e poi si rimise a sedere verso le sorellastre minori. Kenia lo sapeva che il suo Loggie non avrebbe fatto nulla, gliel'aveva sempre ripetuto che doveva cavarsela da sola, avrebbe sempre pensato alla propria sopravvivenza piuttosto che alla sua, doveva accettarlo.
Percorse un corridoio austero, vuoto, con le pareti ingiallite e piene di crepe. Non sapeva dove la stava portando, ma man mano che avanzava incontrava sempre meno Pacificatori e ciò un po' la rassicurava. O forse non doveva? Forse la stava portando a morire? Il cuore cominciò a martellarle forte nel petto, perché la piccola Reaper non aveva mai pensato davvero alla morte, eppure era una cosa che l'aveva sempre perseguitata. Specialmente quel giorno, quello del suo compleanno.
Dopo qualche svolta, arrivarono alla fine del labirinto di corridoi, ritrovandosi davanti una porta sgangherata e con la vernice sbiadita. L'uomo la sorpassò, aprendo piano la porta e rivelando un vicolo all'apparenza normale e senza anomalie. L'uomo si tolse il casco bianco, rivelando un volto che Kenia aveva conosciuto solo qualche giorno prima: aveva i ricci biondi e dei piccoli occhi azzurri, il viso scavato, un naso aquilino e delle labbra sottili tirate in un gentile sorriso. Era il soldato che l'aveva accompagnata nella Sessione Privata e ora con un dito sulla bocca le intimava di fare silenzio e scappare.
La dodicenne acconsentì con la testa, ripetendosi che non doveva scoppiare in lacrime e che doveva smetterla di tremare. Avrebbe tanto voluto abbracciarlo per ringraziarlo, invece fuggì in un baleno fuori da quella porta, correndo e non voltandosi più indietro.

 
* * *
 
Tutte quelle luci gli facevano male agli occhi; continuava a sbattere ripetutamente le palpebre da... non sapeva neanche quanto. Il suo sguardo scuro era fisso sulla tribuna centrale più in alto, vi erano due figure che non aveva mai visto dal vivo, ma avrebbe potuto riconoscerle fra gli abitanti di tutta Panem per come glieli avevano descritti un sacco di volte e per tutte le foto e i documenti che aveva visto analizzare da suo padre su di loro. Eppure erano diversi da come i soldati di Capitol City li avevano sempre raffigurati, avevano qualcosa di diverso, di più... nobile.
Uno sbuffo attirò la sua attenzione verso destra e per poco non ci rimase secco: Katae era di fianco a lui, teneva gli occhi blu puntati verso i due capi ribelli e le braccia incrociate al petto. Al collo, il ciondolo che anni prima lui stesso le aveva preso.
La gola gli divenne improvvisamente secca e tutto ciò che uscì dalla sua bocca fu un tremulo mormorio: « S-Stai... stai bene? »
La castana si voltò, alzando un sopracciglio. « Si, perché? Tu, piuttosto. Stai sudando » osservò.
« Forse è meglio se vai a prenderti una boccata d'aria, figliolo. Qui dentro non si respira. »
La testa di Zhu scattò alla propria sinistra, accorgendosi della presenza dello zio. Non riusciva a formulare una frase decente che avesse un significato, continuava solamente a balbettare cose senza senso come « Tu... lei... perché... cosa... dove... ? » ai quali i due rispondevano con espressioni confuse.
« Meglio se fai come ti ha detto » concluse Katae, ritornando a fissare davanti a sé, « così almeno mi fai ascoltare il discorso in pace. »
« Ma... voi state qui... vero? » chiese col timore di abbandonarli. Sentì che stava iniziando a tremare, eppure quasi gli sembrava di soffocare lì dentro. Non riusciva a formulare un pensiero sensato e ciò lo faceva impazzire.
Suo zio ridacchiò, bonario come sempre. « E dove dovremmo stare? »
Zhu si allontanò lentamente, voltandosi ogni tre passi per guardare se effettivamente erano ancora lì. E c'erano, c'erano sempre.
Si portò le mani alla testa, sorreggendola e asciugandosi il sudore dalla fronte; fino a che si bloccò e i suoi occhi s'incatenarono a quelli scuri di una ragazza, che lo osservava da lontano. Aveva di nuovo i capelli lunghi, ma la riconobbe come una dei piccioncini del Due. Capì che anche quella l'aveva riconosciuto quando vide la sua espressione mutare e trasformarsi in una maschera di paura, per poi fuggire.
« No! » gridò, prendendo a inseguirla. « Aspetta! »
Forse lei sapeva qualcosa.

 
* * *
 
« Devo rimanere qui fino a che non finisce il discorso, ma poi ti porto a cena fuori » promise Fitzwilliam, per poi stringere a sé Jane e unire le loro labbra. Jason in una situazione normale avrebbe messo come priorità domandarsi dove fosse e perché Fitzwilliam stesse baciando sua sorella, se solo non fosse assolutamente certo che lui era morto.
La sua faccia doveva risultare disgustata, inorridita, sconcertata e chi più ne ha più ne metta, era una tavolozza di emozioni contrastanti e gli altri se ne dovevano essere accorti, perché sua sorella Mary lo strattonò e si mise a ridere.
« Ti fanno ancora schifo queste cose? » chiese, alzando un sopracciglio. « Abituatici. Sennò come farai quando ci presenterai una fidanzata? »
Non disse nulla in risposta e non perché non volesse, ma Jason si rese conto che la voce gli era morta in gola e non riusciva a spiccicar parola. O forse solamente non sapeva da dove cominciare con le domande che si aggrovigliavano nella sua mente.
Dove sono? Che succede? Perché Fitzwilliam è vivo? Perché ha baciato Jane? Perché Mary sta bene? Perché... perché... ? Si guardò attorno e poco distanti vide una donna che parlava con autorità a due ragazze. Sgranò gli occhi e spalancò la bocca ancor di più. Perché sua madre, Kitty e Lydia erano vive?
« Dev'essere un sogno... » mormorò, riuscendo finalmente a pronunciare qualcosa, per poi lanciare un'occhiata alle tre donne lì vicino, continuando: « O forse no. »
« Sì, è un sogno » confermò Mary entusiasta, prendendolo a braccetto e rivolgendo lo sguardo verso il palco. « Non posso ancora credere che abbiamo vinto. »
Vinto? Che significava che avevano vinto?
Guardò ciò che stava succedendo sul palco e vide due uomini impossibili da non riconoscere se si era vissuti nei Giorni Bui. Due uomini che sarebbero dovuti essere morti.
Tornò nuovamente a guardare in giro, contando le persone che conosceva e notò immediatamente che c'era qualcosa che non andava. Dov'era Bingley? Dov'era suo padre? Ma, soprattutto, dov'era Elizabeth?
Sentì il cuore iniziare a scoppiargli nel petto e l'intero corpo prendere a tremare. Stava entrando nel panico. Cercò di controllare il respiro, ma ci riusciva a malapena, era innaturale e Mary se n'era accorta, corrugando le sopracciglia e dicendogli qualcosa. Ma Jason non riusciva a sentire nulla, solo i suoi pensieri confusi che si accavallavano l'uno sopra l'altro nella sua testa.
Gli occhi scuri si assottigliarono nel momento in cui notò che assieme a Randy Wane e Hans Coin c'era qualcun'altro, qualcuno che gli sembrava di aver già visto.
La scena che seguì, però, gli tolse il fiato, mandandogli il cuore in gola e facendolo impazzire. Continuava a tremare, Jason, ma dalla paura di ciò che aveva appena visto. Il corpo di Hans Coin si era tramutato in una figura orribile, nera e anormale, che ora scrutava nel pubblico fino a giungere a lui. Non aveva la faccia, non aveva occhi per guardare, eppure Jason era convinto che gli stesse leggendo l'anima, fisso su di lui. Ma quell'essere – quel mostro – spostò il capo verso un'altro punto e si diresse deciso in mezzo alla folla.
Non osò tirare un sospiro di sollievo, nessun'altro sembrava avere paura o solo essersi accorto di cosa fosse successo su quel palco.
« Cos'è quello? » domandò, continuando a fissare l'uomo nero e incappucciato.
Mary seguì il suo sguardo, cercando di capire a cosa si riferisse. « Cosa? » domandò, non capendo.
« Quella... cosa. » Jason non riusciva a trovare un termine con cui definire quel mostro.
« Ehm... il nuovo presidente? » azzardò la sorella, guardando il palco come se nulla fosse accaduto.
Jason invece di seguire la figura dell'essere provò a guardare verso il punto che voleva raggiungere e a quel punto sentì la pelle accapponarsi. Scosse la testa, terrorizzato.
« No, no! » gridò, strattonandosi dalla presa di Mary e fuggendo via, cercando di farsi un varco tra la folla. « Mi sbagliavo, questo è un incubo! »
« Jason, aspetta! Dove vai? » sentì la sorella che gli urlava dietro, ma ora il suo obiettivo era raggiungere lei prima che lo facesse quell'uomo senza volto.
Ovunque si trovasse era certo che fosse peggio degli Hunger Games. Quella che gli avevano dato era la speranza, bramata, presa e gettata via un attimo prima che chiunque potesse raggiungerla.
 
* * *

« Natálie, ci vuoi anche il mais assieme al petto di pollo, stasera? » domandò una donna alla sua sinistra, accarezzandole delicatamente una spalla. Era bionda e con gli occhi azzurri, un viso delicato, ma molto diverso dal suo, diverso da qualsiasi altra persona che avesse mai visto, perché Nate non aveva la minima idea di chi fosse. Guardò la mano della donna con riluttanza, mentre quella stringeva la sua spalla. « Dico » proseguì, « Katyusha ci vuole le verdure, mentre Ivan il mais. Tu che preferisci? »
Nate non le rispose, continuò a rivolgerle una fredda occhiata, spostando poi gli occhi alla sua destra, dove vi era una ragazza alta e snella, il viso angelico ma segnato da un'espressione dura, coi lunghi capelli castano scuro e gli occhi nocciola; stringeva la mano di un bambino dagli occhi identici e i capelli di una tonalità più chiara, sul ramato.
« Decidi, tesoro. » Stavolta la voce provenne da un uomo alle sue spalle, era praticamente la fotocopia del bambino in versione matura.
Quei gesti, quelle occhiate, quei sorrisi, quel discorso, le facevano venire da vomitare. Chi diavolo erano quelle persone? Perché le parlavano? Come avevano osato chiamarla Natálie? Ma, soprattutto, come facevano i due maggiori capi ribelli ad essere ancora vivi se erano dati per morti e sepolti? Li aveva notati, lì, sulla tributa dell’anfiteatro capitolino dove appena qualche giorno prima avevano sfilato per la parata dei carri, a pronunciare un lungo discorso di ringraziamento che… a dire il vero non sapeva nemmeno quando fosse cominciato. A dire il vero, non sapeva nemmeno perché ci fosse tutta quella gente e non era certa che quella fosse davvero l’Arena. Era così diversa da quella dell’anno precedente, d’altronde…
« A Latasha non piace mangiare » affermò convintamente.
La donna incrinò la testa, curiosa. « Chi è Latasha, tesoro? »
« Mia sorella » si limitò a rispondere, come se fosse ovvio.
La ragazza di fianco a lei si voltò, fulminandola con lo sguardo. « Prova a sbagliare nome un'altra volta e ti do fuoco ai capelli. »
Quei visi d’un tratto le parevano così familiari, eppure la loro vista le provocava un gran mal di testa. Sospirò per cercare di calmarsi, sentendo i conati di vomito che le risalivano lungo la gola. Doveva andarsene, e subito.
« Natálie, dove vai? » domandò l'uomo.
« A prendere un po' d'aria, qui non si respira. »
Non ascoltò neanche la replica a quelle parole, l'unica cosa importante in quel momento era andare via da lì, da quella folla opprimente. Non voleva più stare con quella gente, la facevano sentire a disagio. Chi diavolo erano? Come osavano toccarla? Si proclamavano la sua famiglia, ma non lo erano, non aveva nessun ricordo di loro, non esistevano nel suo passato. La sua unica famiglia erano Babilon, Tonio e Chris e il resto degli Addams. Solo di questo era certa, ormai.
Il resto era un tunnel vuoto e oscuro, probabilmente senza fine.
 
* * *

Ryder si sarebbe aspettato di spuntare da una pedana, di avere lo stesso corno d’oro dell’anno precedente davanti a sé con il conto alla rovescia, di osservare i volti degli altri ventitré tributi prima di lanciarsi in quello che avevano soprannominato “Bagno di Sangue”… a dire il vero si sarebbe aspettato di tutto, meno che quello.
Quando aveva ripreso conoscenza, si era accorto di star trasportando un carrello manegevole, pieno di cibo in scatola e bibite gassate. Si era bloccato di botto, guardandosi attorno, e aveva capito di stare in una specie di magazzino per alimentari; ai suoi lati c’erano scaffali e scaffali di carne surgelata e più avanti riusciva a scorgerne uno dedicato solamente a vini pregiati.
Sbatté più volte le palpebre. In che razza di posto era finito?
Ricominciò a camminare, sempre trasportando il carrello per inerzia, e svoltò dove terminavano gli scaffali, per poi ritrovarsi davanti la figura di una donna alta e magra che sobbalzò nel vederlo. « Oh, Ryder, mi hai spaventata. Vieni, forza, non vorrei fare tardi al discorso di Randy Wane. »
Ryder si bloccò nuovamente, prendendo a fissare sua madre, che per qualche strana ragione era viva e parlava del capo dei ribelli che era morto. L’assurdità della situazione quasi lo disarmò.
« … mamma? » disse a bassissima voce, tanto che nemmeno lei lo sentì.
La donna continuò, piuttosto, guardandosi l’orologio da polso: « Oh, no, forse è già cominciato, dobbiamo sbrigarci! Hai preso tutto quello che ti avevo detto? »
Ryder continuò a fissarla con gli occhi spalancati, senza riuscire a formulare un pensiero di senso compiuto. Il suo stupore si intensificò quando da un altro corridoio di scaffali spuntarono Milo e Pandora, suo fratello e sorella minori, che erano morti esattamente come la madre durante i Giorni Bui. Li… li aveva visti morire davanti a lui, lo ricordava benissimo, riviveva spesso quel momento nei suoi incubi.
« Bravi i miei piccoletti! » disse Kaya, accarezzando i capelli dei bambini che le avevano portato delle buste di caramelle da offrire ai bambini.
« Possiamo comprare le barrette al cioccolato, adesso? » domandò Milo con un sorriso sornione, ma la madre scosse categoricamente la testa.
« Potrete mangiare tutti i dolci che vorrete al buffet » rispose, « adesso andiamo alla cassa, mi sembra che ci sia tutto » aggiunse, dando una veloce occhiata al carrello trasportato da Ryder.
Ryder che, continuava a pensare che fosse tutto un sogno. Era l’unica possibilità, per cui decise di assecondarlo.
Seguì la madre e i due fratelli alla cassa. Mentre Kaya pagava con banconote che non aveva mai visto, domandò flebilmente: « Adesso dove andiamo? »
La donna prese a infilare il cibo nelle buste velocemente, come se fossero in un gravissimo ritardo. « Ma all’anfiteatro, no? Non dimenticarti che ci siamo offerti volontari insieme ad altre famiglie per organizzare il buffet gratuito dopo il discorso del nuovo presidente! »
« Nuovo presidente…? »
« Randy Wane, scemotto » rispose Pandora, strattonandogli un polso. « E’ così figo. »
Kaya alzò gli occhi al cielo e diede alcune delle buste ai figli per farsi aiutare a portarle. « Sbrigatevi, su. »
Ryder si mosse automaticamente, senza pensare davvero a quello che stava facendo, mentre il nome di Randy gli rimbombava in testa. Non avrebbe mai pensato che la sua mente sarebbe arrivata al punto di giocargli scherzi del genere.
Quando uscirono dal supermercato, si diressero verso la fermata dell’autobus più vicina. Aspettarono qualche minuto, mentre Milo e Pandora ridevano spensierati.
« Ryder, ma… cosa c’è? Sembri giù di morale… » gli disse poi sua madre, in apprensione. Per fortuna non ebbe modo di rispondere, perché l’arrivo di un pullman li costrinse ad abbandonare quel principio di conversazione.

 
* * *
 
Jeremy si sentiva la testa incredibilmente pesante, tanto che dovette sorreggersela con entrambe le mani, se non voleva temere che gli si staccasse dal collo. Ma non solo… C'erano troppi rumori, troppe grida affinché le sue orecchie potessero distinguere i suoni. Era come essere all'interno di una gigantesca baraonda. Si stropicciò gli occhi e quando li aprì per bene capì che era proprio quello in cui si trovava.
Riconobbe suo padre e i suoi fratelli stringerlo e saltare come pazzi, assieme ad altre facce conosciute e amici del Distretto 12. C'era persino la sua banda al completo. Urlavano tutti, ma di gioia, e Jeremy non riusciva a comprendere cosa diceva ognuno di loro, riuscì a capire solo le frasi più ripetute, come « Abbiamo vinto! » e i nomi di Randy Wane e Hans Coin sulle bocche di tutti.
Si voltò improvvisamente verso il palco rialzato che fungeva da tribuna d’onore. Riconosceva quel posto, l'ultima volta che l'aveva visto era vestito da minatore, era su un carro e il presidente Rigel aveva fatto il suo discorso inquietante per la parata. Ma ora vi erano, fieri, i due leggendari capi ribelli a fare promesse e a portare gioia in quella nuova Panem. Si strofinò nuovamente gli occhi, ma non lo avevano ingannato.
Le labbra di Jeremy si tirarono in un sorriso così ampio da poter essere considerato quasi disumano. Improvvisamente dimenticò tutto, non si pose neanche una domanda e cominciò a sua volta a saltare allegramente in quell’ammasso di gente. « Sono vivi! Sono vivi! » esclamò eccitato, abbracciando tutti gli altri compagni. In quel momento non riusciva a odiare neanche suo fratello Abel.
Neanche si rese conto che ben presto si ritrovò attaccato a qualche bottiglia che gli avevano passato e beveva come se avesse trovato l'acqua in mezzo al deserto dopo giorni di cammino senza sosta.
Amava quell’atmosfera di festa, erano tutti uniti per una vittoria comune e Jeremy si sentì realizzato perché era proprio quello in cui aveva sempre sognato di ritrovarsi e magari un giorno al posto di quei due valorosi ribelli ci sarebbe stato lui e tutti l’avrebbero omaggiato e rispettato.
Forse era per il troppo alcol che aveva assunto in corpo, ma un’idea folle passò nella sua mente, così l’afferrò al volo e non ci pensò due volte ad agire, con la paura che un’occasione del genere non gli sarebbe mai più capitata. Si precipitò nelle prime file, velocemente sfuggì al blocco dei Pacificatori e corse su per le scale che portavano alla tribuna di Wane e Coin.
I due si accorsero di lui quando si avvicinò e rimasero perplessi; Jeremy invece era emozionato come non mai e non riusciva a smettere di sorridere come un ebete. Fece uno scatto e strinse le loro mani, iniziando a farneticare parole come « Oddio, non ci credo! » o « Siete i miei idoli! ». I due capi si scambiarono un’occhiata spaesata, ma quando poi Jeremy iniziò a parlare senza sosta, confidando quanto li ammirasse e quanto avrebbe voluto essere come loro – neanche fosse Beryl Straw – allora Randy iniziò a ridere bonariamente.
Era proprio come Jeremy se l’era sempre immaginato: un uomo alto, robusto, con un sorriso fiero sulle labbra, uno a cui daresti fiducia subito. Hans Coin invece lo fissava con un sorriso dolce e comprensivo, era proprio il ragazzino uscito dal nulla e che aveva imparato a combattere con le proprie forze come era stato descritto.
Il biondo si allontanò di poco, andando a prendere il microfono e tornando con esso. Un brivido di eccitazione percosse Jeremy; mentalmente si rimproverava di dover tornare coi piedi per terra, ma non poteva non immaginare che magari Hans Coin gli avrebbe concesso di parlare davanti ai cittadini di Panem. Lo pensò fino a quando il biondo ribelle non si trasformò in un battito di ciglia in un essere senza volto, che si era liquefatto, e gli attorcigliò velocemente il filo del microfono attorno al collo, stringendo la presa.
Jeremy si sentì soffocare, non riusciva a respirare e dalla bocca non riusciva ad emettere nient’altro che grida strozzate. Cadde in ginocchio e tentò di strappare il filo a mani nude, ma non riusciva neanche a prenderlo, figuriamoci ad allentarlo.
Aveva sempre pensato di morire combattendo contro le oppressioni, non perché era quasi riuscito a raggiungere il proprio sogno o perché uno dei suoi idoli si era trasformato nel suo assassino.
 
* * *

Il suo paffuto fratello era legato nel letto distrutto di chissà quale capitolino di cui un tempo era la casa che ora stavano visitando; era praticamente seminudo con tagli e segni di forchettate per tutto il corpo, le mani strette alla testata del letto con degli stracci trovati. Non sembrava provare dolore, anzi, stava ridendo, come se la sorella gli facesse il solletico.
Wednesday si era già stufata e lo lasciò lì, senza aiutarlo a slegarsi, uscendo dall'appartamento senza dire nulla.
« Stai uscendo a visitare qualche altra rovina? » domandò sua madre.
« Divertiti! » aggiunse suo padre.
La minore non rispose; continuò ad andare per la sua strada, stringendo la sua onnipresente bambola fra le braccia, uscendo dal palazzo e incamminandosi fra le vie di Capitol City. Quel posto era una noia mortale, non vi era nulla degno della sua attenzione, persino vedere zone completamente distrutte l'annoiava.
Si fermò solamente quando notò un piccolo negozio di tatuaggi dall'altra parte della strada. Attraversò senza guardare, ma in fondo non passava anima viva... e neanche morta! Socchiuse gli occhi, riducendoli a due fessure e riconobbe immediatamente le due figure oltre il vetro. Wednesday Addams non era famosa per la sua varietà di espressioni, eppure si sentiva chiaramente sorpresa da quella visione.
Sentì il rumore di alcuni veloci passi e, quando voltò la testa di lato, vide Kenia Reaper del Distretto 8 correre verso di lei e fermarsi non appena la riconobbe. I loro sguardi si incatenarono l'uno all'altro, poi entrambi si volsero verso la vetrina.
La riccia soffocò un urlo, lanciandosi ad aprire la porta. Wednesday tentò di afferrarla per un braccio, ma le sfuggì e non poté che correrle dietro, entrando a sua volta in quel negozio.
I due uomini presenti si voltarono a fissarle, domandandosi chi fossero. Winnow era disteso su una poltroncina e Delphi teneva l'ago in mano, con cui stava incidendo la carne dell'altro per ripassare il tatuaggio di un osso sulla spalla.
« Vi serve qualcosa? » domandò il presunto accompagnatore dell'Otto.
La piccola Reaper non ci pensò due volte e si gettò ad abbracciarlo, scoppiando in lacrime. L'uomo rimase interdetto, non sapendo cosa fare e trovandosi a disagio nel rispondere a quell'abbraccio, così restò con le mani – e l'ago – sospesi in aria.
Wednesday si limitò solamente a tirare un accenno di sorriso verso Winnow, che rimase impassibile a fissarla coi suoi occhi di ghiaccio. Se la secondogenita degli Addams avesse conosciuto la serenità, l'avrebbe di certo provata in quel momento, perché si era aspettata esattamente che lo stilista avrebbe avuto quella stessa reazione: il nulla, l'indifferenza, l'impassibilità. Si sentì quasi sollevata, perché voleva dire che era rimasto lo stesso. Sapeva però che la ragazzina dell'Otto avrebbe mandato tutto a monte per la sua sciocca impulsività.
Winnow spostò lo sguardo sull'amico, celando una muta domanda a cui Delphi rispose con la chiara confusione impressa sul viso.
Accadde, poi, tutto molto velocemente. All’improvviso i tatuaggi sul corpo dell'uomo-scheletro iniziarono a sciogliersi, scorrendo liquidi sulla sua pelle chiara, fino a toccare terra e a iniziare a solidificarsi, raggruppandosi come blob, innalzandosi e prendendo forma.
Dopo anni qualcuno avrebbe finalmente potuto vedere Winnow Spottiswoode al naturale, come era veramente sotto quello strato d'inchiostro perenne. Kenia, però, notando cosa stava accadendo, si strinse ancor di più al proprio accompagnatore, fissando il liquido nero che aveva preso la forma di un uomo incappucciato, alto, imponente e dalle spalle larghe. L'unica cosa che spiccava in quell'ombra era il volto indefinito sotto il cappuccio – o meglio, il fatto che ne fosse privo.
« Ops » si lasciò sfuggire la Addams, ghignando e strattonando l'altra dodicenne a sé, la quale cercò addirittura di ribellarsi. L'essere avanzò di un passo e gli occhi scuri di Wed notarono che gli altri due uomini erano rimasti esattamente nelle stesse posizioni di prima, come se non si accorgessero di ciò che stava accadendo. L'uomo senza volto fece uno scatto e la ragazzina fece altrettanto, trascinandosi dietro Kenia e uscendo il più velocemente possibile da quel negozio. La riccia buttò uno sguardo alle spalle e vide l'ombra inseguirle, ma non stava correndo, camminava solamente con ampie falcate, eppure sembrava restare sempre alla stessa distanza da loro, anche se cercavano di correre più veloce che potevano. Non riuscivano a seminarlo.
Si bloccarono immediatamente quando se lo ritrovarono davanti. Nessuna delle due capì come avesse fatto, visto che erano sicure che un attimo prima fosse alle loro spalle. L’uomo allungò la mano verso Wednesday, ma non avanzò neanche di un passo.
Kenia osservò la scena, non capendo cosa volesse fare, ma vide la mora iniziare ad avere degli spasmi e accasciarsi molto lentamente a terra. Non gridava, non sembrava neanche che avesse paura o forse non aveva avuto il tempo di realizzare, ma la sua espressione pareva più incredula e indignata. Wednesday Addams non era certo il tipo da perdere, non a quel modo.
Quando il suo corpo fu a terra e immobile, Kenia vide come bava e sangue iniziavano a uscire dalla sua bocca e ne rimase inorridita.
Tornò a puntare le iridi verdi verso quel mostro senza volto; gli occhi erano grondanti di lacrime e tutto il suo gracile corpo aveva preso a tremare. « No, no, ti prego » lo supplicava disperatamente, indietreggiando. L’uomo avanzò e Kenia sapeva di non avere scampo, anche se fosse fuggita lui l’avrebbe raggiunta, come aveva già fatto, e non era stata addestrata per combattere contro stazze del genere. « Non uccidermi, ti prego, io non ti ho fatto nulla! » gridò in preda ai singhiozzi.
Ma l’uomo nero le afferrò la testa col palmo di una sola delle sue mani e, chiudendolo in un pugno, mentre l’altra cercava di dimenarsi, il cranio di Kenia si frantumò come burro, facendo afflosciare il corpo a terra senza nulla sulle spalle.
 
* * *

Era come se avesse preso a respirare solo in quel momento: fu scossa da un brivido, inspirò profondamente e sentì i polmoni riempirsi finalmente d’aria e il cuore tornare a pompare.
Si sentiva soffocare, era circondata da persone mai viste prima ma che sembravano… normali; la stavano per schiacciare e Nymeria non capiva dove fosse e cosa ci facesse tutta quella gente lì. Ricordava di aver ingerito una pillola e poi niente, il buio. Che quella fosse l’Arena? Che razza di Arena era? Si aspettava un bosco come l’anno precedente o qualcosa del genere.
Alzò la testa in alto e capì improvvisamente che lei in quel posto ci era già stata e solo qualche giorno prima. O almeno così credeva. Ma sulla tribuna non c’era il presidente Rigel e neanche il suo fidato Frank Hidden. Quei due… quei due erano… dovevano essere morti!
Sgranò gli occhi non appena notò la terza figura lì presente e la riconobbe immediatamente. Ma che diavolo ci faceva Jeremy lì sopra con due fantasmi o zombie o quello che erano? Che Capitol City avesse ritrovato i loro corpi e li avesse trasformati in ibridi? Se fosse stato così avrebbe dovuto salvare Jeremy, avrebbe dovuto avvertirlo. Che razza di stupido, solo lui poteva credere che quelli fossero veramente i suoi due eroi.
Però in fin dei conti tutta quella situazione le sembrava così reale…
Improvvisamente il volto di Hans Coin iniziò a liquefarsi, così come i capelli, lasciando spazio a una figura ben più alta, imponente, spalle larghe e completamente nera, se non per il volto… Un volto che non aveva né occhi, né naso, né bocca. Come temeva, quei due non erano i capi ribelli che sembravano.
« Jeremy! » urlò invano, consapevole che non sarebbe riuscito mai a udirla in quella mischia.
L’uomo senza faccia attorcigliò il filo del microfono attorno al collo di Jeremy, che si dimenava per liberarsi. Presa dalla paura di perdere il suo compagno, Nymeria tentò di raggiungerlo per salvarlo. Ma i suoi occhi azzurri videro chiaramente il collo del moro spezzarsi e la testa di lui penzolare senza un sostegno, riuscì quasi a sentire il crack che mise fine alla sua vita.
L’urlo che Nymeria emise fu qualcosa di disumano e mai sentito prima, così forte che riuscì a sovrastare quella baraonda e le persone si voltarono a guardarla, allibite. Eppure Nymeria continuava a gridare disperata, il corpo paralizzato, i muscoli tesi, gli occhi e la bocca spalancati e le lacrime che le rigavano il viso come il delta di un fiume.
Improvvisamente si sentì afferrata per le spalle e, lanciando ancora qualche urlo, combatté per dimenarsi da quella presa.
« Nymeria! Nymeria, sono io! »
Riconoscere la voce di suo fratello le parve un sogno in mezzo a quell’orrendo incubo. La castana si bloccò, ma non smise per un attimo di piangere. Suo fratello era vivo e di fronte a lei. Lo squadrò e scosse la testa, non capendo perché non fosse su una dannata sedia a rotelle.
No, anche quello non era reale. Eppure lo sembrava… O era lei che voleva convincersene?
Lo tastò e le braccia forti e muscolose di lui erano così vere; iniziò a imprimere le sue mani su ogni centimetro di pelle e scoppiò in una piccola risata di gioia perché credeva che non avrebbe mai più rivisto Jason, né toccato come stava facendo ora. Gli prese il viso e la barba scura di lui le pizzicava come ricordava.
« Nymeria, cos’hai? Che ti è successo? » domandò lui, visibilmente preoccupato per il comportamento della ragazza.
La diciottenne l’abbracciò di slancio, affondando il viso sconvolto e in lacrime nel suo petto.
« Credevo fossi morto » singhiozzò.
Jason le accarezzò il capo, stringendola a sua volta. « Suvvia, mi ero solo allontanato un attimo. Non c’è bisogno di esagerare. » Ma, visto che quella non accennava a calmarsi, aggiunse, più dolcemente: « Non ti preoccupare, va tutto bene, tranquilla. »
La fanciulla si staccò di poco, tirando su col naso e facendosi forza, benché fosse ancora visibilmente terrorizzata. « Jeremy… l’hanno ucciso » mormorò, cercando di non ricadere in un attacco di panico.
Jason corrugò la fronte. « Jeremy…? »
« Wilson » precisò la minore.
« Perché, lo conosci? » chiese, incredulo. Scrutò in mezzo alla folla, in cerca del ragazzo o della sua famiglia. « No, i Wilson li ho visti prima, c’era pure lui. Stanno bene. »
« C-Che c-cosa? » balbettò, incredula, voltandosi verso il palco. « No, no! L’hanno ucciso, lì. Guarda! Coin! »
Jason scosse la testa, non capendo. « Nymeria, io non vedo nulla di strano. »
Ma la minore invece lo vedeva bene: quell’essere incappucciato che stava puntando verso di lei. Scosse la testa ripetutamente non appena iniziò ad avanzare, lanciando altre grida.
« No! Jason, scappa! » fu il suo primo pensiero, ma improvvisamente qualcuno la spintonò, afferrandola. Nymeria cercò di strattonarsi da quella presa, dimenandosi contro l’aguzzino. In lui riconobbe il tributo del Distretto 5 che aveva conosciuto durante l’allenamento. « Jason! Jason! » gridò.
« Sì, sì, sono io! » rispose l’altro, cercando di trascinarla con sé.
« Non tu » fece l’altra, allontanandolo. « Mio fratello! Jason! »
Il ragazzo del Cinque le tappò la bocca con una mano, cercando di assestare i calci della giovane nel miglior modo possibile e trascinandola via di lì.
« Ci ucciderà! » le spiegò. « Come ha ucciso il tributo del Dodici. »
Nymeria riuscì a liberarsi la bocca e fu sorpresa nel sentirlo dire quella frase. « Tu l’hai visto? » domandò. « Nessuno l’ha visto! »
« Lo so » rispose il moro, « per questo dobbiamo scappare. »
E così Nymeria si decise a dargli fiducia, smettendo di combattere e afferrando la sua mano in modo da non perdersi mentre correvano il più velocemente possibile fuori da lì.
 
* * *

Gli bastarono meno di tre secondi per capire che qualcosa non andava. Randy Wane e Hans Coin erano più vivi che mai e Watari gli stava parlando con un certo orgoglio nella voce. L sapeva che i fantasmi non esistevano, quindi o Watari era ancora vivo, i ribelli avevano vinto e per qualche strana ragione lui si era immaginato un destino diverso, o qualcosa aveva alterato la realtà che conosceva. Le sue probabili teorie furono confermate quando Watari gioì nel dire « Finalmente potremmo ritornare nel Distretto 13. » Il Tredici era stato distrutto, bombardato, e chissà dove erano finiti i superstiti, sempre se qualcuno era riuscito a salvarsi.
I suoi occhi scuri e penetranti divennero due fessure, osservando come la situazione sul palco si stesse facendo più movimentata. Riconobbe l'esuberante ragazzo del Distretto 12 che saliva gioioso sul palco; e di certo quella non poteva essere una coincidenza, come pensava, era un trucco degli strateghi; lui assieme agli altri tributi si trovava veramente in un'Arena che avrebbe portato molti di loro alla pazzia. Si domandò chi sarebbe cascato in quella trappola ben architetta e mentalmente si fece anche uno schema dei tributi probabili.
Ma abbandonò tutti quei pensieri quando vide Hans Coin trasformarsi in un alto e incappucciato uomo nero senza volto. Sgranò gli occhi, cercando di capire cosa fosse e da cosa potesse essere provocato. Era forse uno di quegli ibridi che i capitolini avevano generato e conservato durante i Giorni Bui? Ibrido o no, non cambiava il fatto che si avventò sullo sventurato Jeremy Wilson, stringendogli intorno alla gola il filo di un microfono finché questi non soffocò nel giro di pochi secondi e finché la sua testa non si staccò dal collo per poi cadere a penzoloni da un lato.
Il brusio della folla era fatto solo di chiacchiere e risa, nessuno aveva urlato, nessuno sembrava interessato, nessuno vedeva realmente cosa stava succedendo, anche se teneva gli occhi fissi sulla scena.
L sapeva che l'uomo lo stava puntando, così come avrebbe puntato tutti gli altri ventidue tributi rimanenti. Eppure, nessun cannone sparò, gli unici rumori provenivano dalla gente che lo circondava; ma ora il suo unico problema era come affrontare quella sottospecie di ibrido.
Non ebbe il tempo né di gridare né di agire, che una mano lo afferrò per la caviglia, tirandolo giù e facendolo sprofondare in un baratro. L rimase sospeso nel vuoto, scorgendo ciò che poteva grazie luce proveniente dalla fessura che si richiudeva velocemente. Doveva adattare i suoi occhi al buio, ma dal tanfo e dal poco che aveva visto, poteva dedurre che si trovava in una fogna, qualcuno lo stava sorreggendo e se lasciava la presa di certo sarebbe morto, spiaccicato sul fondo, fra rifiuti e letame, buono solo come cibo per topi e chissà cos'altro celavano quei cunicoli.
« Riesci ad aggrapparti? » chiese la voce di un bambino, iniziando a far oscillare il diciottenne. L protese le mani in avanti, fino ad afferrare una barra di ferro. I piedi nudi si appoggiarono sul medesimo materiale, poco più in basso e capì di essere su una scala. Lentamente cercò di scendere giù, aumentando velocità man mano che si abituava al ritmo, alla distanza fra le barre e al buio. Capiva di rallentare chi gli stava sopra, che dai rumori leggeri dovevano essere tre bambini più o meno dello stesso peso e altezza e decisamente abituati a quel posto.
Una volta toccato l'umido e lurido suolo, L vide finalmente i volti dei suoi salvatori - o rapitori? Erano due bambini, uno dai capelli neri e l'altro più tendenti al ramato, mentre la terza era una bambina pressoché della loro stessa età, coi lunghi capelli ricci scuri; tutti e tre avevano delle perle nere al posto degli occhi che sembravano brillare nel buio, ma i differenti tratti somatici suggerivano che non erano fratelli.
« Lui è Matt » disse la riccia indicando il ramato, « e lui è Dorian. » Spostò l'indice verso il moro e poi le sue iridi scure si scontrarono con quelle altrettanto profonde di L, che non accennava a dare segni di risposta. « E io... io sono Lila » concluse, timidamente.
Non era stupida, L l'aveva capito, anzi era alquanto piena di risorse e di certo non si aspettava che da un momento all'altro lo tartassasse di domande sulla rivolta e su quel nuovo esito che aveva sconvolto pienamente le loro realtà, per non parlare del fatto che l'ultima cosa che ricordava era di essere entrato in un tubo d'aria che avrebbe dovuto portarlo in Arena. Ma quella non sembrava affatto un'Arena, era una città vera e propria. Era Capitol City. Gli occhi di Lila celavano così tante incognite, ma dalla sua bocca non uscì un suono.
« Ti abbiamo preso solo perché ci ha pregati questa topolina qua » sbuffò Matt, indicando la compagna, che avvampò violentemente. « Ma dopo dovrai spiegarci un bel po' di cose... anzi, tutti e due » puntualizzò, spostando lo sguardo intimidatorio dal maggiore alla minore e viceversa.
Dorian sganciò l'elmetto che aveva appeso alla cintura, se lo mise in testa e accese una piccola luce incorporata, illuminando la galleria. « Con l'esito della guerra potremo sperare di risalire presto, ma è meglio far calmare le acque, almeno fin quando non saranno finiti i festeggiamenti. Non si è mai troppo prudenti, c'è fin troppa gente per i gusti dei Topi » spiegò.
L non chiese riguardo cosa fossero i Topi, da come ne aveva parlato il ragazzino doveva riferirsi a una sorta di gruppo, ma si limitò a seguire quella piccola banda di amici, coi due maschi che aprivano la fila e la piccola riccia che restava al suo fianco. Si accorse che spesso gli rivolgeva delle occhiate furtive, ma fece finta di nulla.
Lila avrebbe tanto voluto trovare l'occasione giusta per parlargli faccia a faccia, ma non poteva di fronte ai suoi due amici. Si era "risvegliata" sempre in quelle fogne, mentre si stava arrampicando, tanto che quasi aveva rischiato di cadere per lo stupore; ma la cosa che veramente le aveva fatto perdere un battito era stata rivedere Dorian vivo e vegeto di fronte a lei e non era riuscita ad emettere suoni se non strani balbettii, come al solito quando era agitata. Matt non si era scomposto, anzi, si comportava come se la presenza di Dorian fosse normale e questo Lila proprio non se l'era riuscito a spiegare. Quando si era affacciata dal tombino e aveva riconosciuto L e poco più in là quell'inquietante essere senza volto, l'istinto le aveva suggerito che doveva aiutarlo. Teoricamente era un suo nemico, questo era vero, ma doveva avere delle risposte e lui era stata la prima persona che potesse dargliele. E poi Dorian era vivo, non le sarebbe importato più di tanto se l'altro avesse tentato di ucciderla, di certo con la vincita della guerra da parte dei ribelli non si aspettava che sarebbe stata notata da qualcuno.
Improvvisamente i due - ex? - tributi si fermarono all'unisono, come paralizzati. Di fronte a loro, in fondo alla galleria, nell'ombra era apparsa di nuovo quella figura inquietante, coi pugni stretti lungo i fianchi. Anche se non aveva gli occhi, Lila capì che puntava verso di loro. Nessuno le aveva mai dedicato attenzioni, eppure sembrava che quell'essere fosse concentrato solo su di lei.
Matt e Dorian si bloccarono e si voltarono verso gli altri due. « Che avete fatto? » chiese il ramato, curioso.
« Ve la date una mossa? » continuò l'altro. Ma i due rimasero immobili, col sangue che si congelava nelle loro vene.
« Scappa » sussurrò L, deciso.
Lila lo scrutò con la coda dell'occhio, la paura che si insediava sotto la sua pelle. « Ma- » tentò di contestare.
« Scappa! » gridò l'altro, spintonandola via. Gli arti della tredicenne si mossero da soli, presero a correre come non mai, spinti dal terrore che la divorava internamente.
« Hey, dove vai, Lila? » chiese uno dei due ragazzini. Sembravano non accorgersi dell'oscura presenza alle loro spalle.
L'uomo nero avanzò spedito e L lo attese, assumendo una posizione di difesa; l'altro iniziò a correre e quando fu abbastanza vicino, il diciottenne fece roteare la gamba, sollevandola e sferrandogli un calcio lì dove avrebbe dovuto avere un volto. Calcio che non andò mai a segno. L'uomo gli bloccò la gamba con una sola mano, la presa solida si chiuse attorno al muscolo del ragazzo con la facilità di qualcuno che stava spappolando della ricotta. Strinse così forte che l'osso sembrò sgretolarsi e L cadde a terra, lanciando un grido strozzato, senza aver avuto la capacità di fare qualcosa; non riusciva a muovere la gamba e il dolore gli annebbiava la mente. Cercò di mettersi su, ansimando e aiutandosi coi gomiti, ma l'ombra calciò uno dei suoi bracci, facendolo scivolare e L sbatté il mento sul freddo suolo umido, sputando sangue.
I ragazzi rimasero impassibili, continuando a farsi gli affari loro, come se quella scena non stesse veramente accadendo, come se né L né l'uomo esistessero. Poi l'essere affondò un piede nella testa del ragazzo, frantumandola e facendola esplodere così come era toccato all'accompagnatrice del Tre.
 
* * *

Staccava con le mani piccoli pezzi di zucchero filato rosa, mentre quello le si appiccicava tutto sulle mani e attorno alla bocca.
Si era risvegliata e non sapeva il perché si trovasse in un Luna Park, ma suo padre si stava cimentando in una gara di tiro al bersaglio, mentre lei indossava un ridicolo e infantile vestito da coniglietta – anche se forse lo preferiva a quel corpetto stretto e quell’abito con le spalle pompose e la gonna decisamente troppo ampia e pesante, per non parlare di quell’orribile coso attorno al collo pieno di merletti che le sembrava tanto un collare per cani e che le dava enormemente fastidio e che le avevano fatto indossare per l’Arena.
Haylee era fin troppo furba per non capire che tutto quello era un trucco, ma dall’altra parte desiderava così tanto ritornare bambina e stare al fianco del padre che decise che non le sarebbe importato di nulla per un po’.
Suo padre era riuscito a vincere e aveva scelto un enorme peluche a forma di coniglio proprio in onore del suo soprannome e la rossa aveva sorriso così tanto per la gioia che le erano iniziati a dolere gli zigomi. Poi Chris Scott le aveva lasciato un buffetto sul naso e si era allontanato dicendole che sarebbe tornato subito.
Haylee girovagava spensierata, non allontanandosi troppo da dove l’aveva lasciata il padre, stringendo il bastoncino con lo zucchero filato alla fragola in una mano e Messer Coniglietto – come aveva deciso di chiamare il suo peluche – nell’altra.
L’unica cosa che attirò la sua attenzione, facendole distogliere lo sguardo dalla sua soffice nuvola rosa, furono solamente due ragazzi più grandi che stavano correndo nel parco, capitati lì chissà come, e che sembravano averla notata. In verità li avrebbe ignorati, ma riconobbe il maschio del duo come il ragazzo del Distretto 5, soltanto perché era andata a spiare lui e la sua compagna di cui Choppy-Choppy era innamorato.
Jason e Nymeria erano fuggiti dall’anfiteatro e si erano inoltrati nelle vie di Capitol City, girovagando a caso in cerca di un rifugio, imbattendosi in quel Luna Park e pensando che magari si sarebbero potuti confondere fra la gente.
« E’ una trappola! » gridò la ragazza dai capelli corti e gli occhi azzurri. « Dobbiamo andarcene di qui, ci ucciderà tutti! »
Ma dai?, avrebbe tanto voluto dirle Haylee, ma si limitò a continuare a mangiare pezzi di soffice zucchero e a fissarla con superiorità, sebbene fosse una situazione un po’ strana visto com’era vestita.
I due sembrarono squadrarla, perplessi ma anche un po’… divertiti. Fu Jason a prendere parola: « E’ il tuo vestito per l’Arena? » domandò. « Il mio è scomparso quando mi sono… ehm, risvegliato. »
« Certo che no » obiettò acida la rossa. « Mi piacciono i conigli » si limitò a dire, mostrando loro il suo peluche di Messer Coniglietto.
I due non commentarono, ma ad Haylee cadde l’occhio sulle loro mani e notò che erano intrecciare fra loro. Si trattenne dal fare una smorfia, perché quella situazione le faceva venire la nausea.
« Il mio compagno di distretto è morto » dichiarò Nymeria, con la voce ancora tremante. Buon per noi, si limitò a pensare sarcasticamente la minore. « E’… è stato un tizio senza faccia, ci stava rincorrendo e… »
« Che? » Haylee alzò un sopracciglio, ritenendo che in circostanza normali la storia di quella tizia sarebbe stata assurda e priva di senso.
« Ci siamo risvegliati nell’anfiteatro dove abbiamo fatto la sfilata, ricordi? » spiegò Jason con più calma, dando un ordine alle parole confuse di Nymeria. « Tu sei sempre stata qui? »
La quattordicenne annuì, tranquilla. « Sì, perché? »
« Non ti è successo nulla? Non è capitato nulla di strano? » Haylee stavolta scosse la testa, omettendo il fatto che lì con lei ci fosse anche suo padre. Jason sembrò pensieroso e spaventato. « E’ come se fosse un’altra realtà, un sogno, dove i ribelli però hanno vinto. »
« Che razza di mente ha potuto ideare questa farsa se in realtà il suo desiderio è di ucciderli tutti, i ribelli? » commentò Nymeria, portandosi una mano a stringersi i corti capelli castani.
« C’era Randy Wane. E anche Hans Coin, si è trasformato in un uomo alto quasi due metri, era vestito di nero, incappucciato e non aveva… non aveva né occhi, né naso, né bocca! » continuò Jason, sul punto di delirare. « Voleva attaccarci, siamo fuggiti. Non l’hai visto qui, vero? »
« Chi? » chiese Haylee, leccandosi le labbra appiccicose e indicando col pollice alla propria sinistra. « Jimmy senza faccia? »
I restanti due si voltarono all’unisono nella direzione indicata dalla rossa e sobbalzarono nel vedere proprio l’essere che nell’anfiteatro aveva cercato di attaccarli e aveva ucciso Jeremy, proprio di fianco a loro, che sembrava fissarli insistentemente pur non avendo gli occhi.
 
* * *

« Vedrai che ti troverai bene. »
Phoebe sobbalzò nell’udire quella voce ancora prima di aprire gli occhi. Anche se fu una sensazione stranissima perché era esattamente come se li avesse già aperti e fosse lì da tempo immemorabile. Ma lì dove, con precisione? Girò la testa con uno scatto e spalancò gli occhi nel riconoscere sua madre e suo fratello accanto a lei, che camminavano lungo un pavimento piastrellato di bianco. Si rese conto che anche lei stava camminando, per cui si bloccò di botto.
« Che ti prende adesso? » sbuffò Peter, nel fermarsi a sua volta per guardarla negli occhi con uno sguardo che non ricordava mai averle rivolto, nemmeno quando era Melanie a prendere il controllo.
Melanie. Il suo nome le viaggiò nella testa alla velocità della luce. Si sentiva così dannatamente vuota… I battiti del suo cuore aumentarono all’improvviso, riusciva a sentirli nel petto, nella gola, nelle orecchie. Dov’era Melanie? Era come… come… come se non ci fosse affatto, come se non fosse mai nemmeno esistita.
Continuando a guardare Peter con sguardo scioccato, si tastò le tasche dei pantaloni – ma non indossava un abito lungo, prima di entrare in quel tubo? – per cercare il suo inseparabile blocco note, ma non trovò altro che il vuoto.
« Allora, ti vuoi muovere? » la incitò il fratello con un tono vagamente più acido. Sua madre la guardava, torva, con le mani sui fianchi. « La segretaria non sta ai comodi tuoi. »
Phoebe, invece di avanzare, fece un passo indietro. Ma di cosa diavolo stavano parlando? E dove si trovava? Era forse l’Arena, quella? No, non poteva essere… Era talmente irreale e concreta al contempo da sconvolgerle i pensieri.
« Phoebe » la chiamò Peter, avvicinandosi con uno scatto quasi velocissimo e stringendole un polso, « ne abbiamo già parlato. Non fare storie, avanti. »
La madre li fissava come se volesse perforare le loro teste con lo sguardo e Phoebe si sentì incredibilmente a disagio. Nemmeno lei l’aveva mai guardata così.
Si decise a muovere qualche passo, perché non aveva la minima idea di come comportarsi. La testa le girava incredibilmente e quel vuoto nello stomaco le stava facendo desiderare di rimettere tutto quello che aveva mangiato a Capitol City in quei giorni.
Ripresero a camminare in un silenzio tombale e Phoebe ne approfittò per osservare l’ambiente. Pensò che sembrava proprio una struttura della capitale e i suoi sospetti si confermarono quando misero piede in un’ampia sala dal soffitto alto decorata con un grande tappeto con lo stemma di Capitol. Avrebbe voluto dire finalmente qualcosa, ma venne subito interrotta da una donna molto alta e magra con una gonna a tubino e l’acconciatura alta che si avvicinò a loro con un sorriso cordiale e allo stesso tempo estremamente freddo. Il rumore dei suoi tacchi a spillo si diffuse tra le pareti imponenti.
« Lei deve essere la signora Woody » disse, allungando una mano verso sua madre, che la strinse piano.
« Sì, buongiorno, sono io » rispose lei. « Questi invece sono i miei figli, Peter e Phoebe. »
« Allora tu sei la famosa Phoebe, eh » commentò quella che aveva l’aria di essere una segretaria, aggiustandosi gli occhiali dalle lenti rettangolari sul naso. « Benvenuta al Deyer Institute, siamo felici che tu ti sia iscritta qui. »
Phoebe sbatté le palpebre per qualche istante e la donna sembrò aspettare una risposta da lei. « G-grazie… » balbettò, senza sapere cos’altro dire. Perché sua madre l’aveva portata in un istituto privato a Capitol City? E con quali soldi?
« Dunque » continuò la segretaria, « io sono Marie. Adesso vi accompagnerò per la visita, dopo potrai sistemarti nella tua camera al quinto piano. Per fortuna o sfortuna, non hai ancora una coinquilina, anche se da quando Capitol è stata ricostruita le studentesse aumentano all’ordine del giorno… presto potrai ritrovarti in compagnia. »
Phoebe tentò di ingoiare il groppo che aveva in gola. Notò solo in quel momento che Peter teneva nella mano destra un borsone dall’aria pesante, mentre l’altra era stretta in una morsa intorno al proprio polso. Le stava facendo male, per cui provò a sottrarsi da quella presa, ma inutilmente.
Marie e sua madre s’incamminarono per prime e loro due le seguirono a qualche metro di distanza.
« Stammi bene a sentire » le disse a un certo punto Peter con tono duro ma sottovoce, in modo che le donne non lo sentissero, « farci scoprire è stata un’emerita cazzata. Se mamma dovesse rinchiudere in uno stupido collegio anche me sarà soltanto colpa tua, chiaro? »
« F-farci scoprire…? » mormorò la sorella. Davvero non aveva idea di cosa stesse accadendo o di cosa lui stesse parlando.
Peter le strattonò il polso e Phoebe gemette piano. « Ti sei fottuta il cervello? Avevamo stabilito che potevamo scopare in casa solo quando mamma non c’era. E invece è stata tutta colpa tua. »
La diciassettenne sgranò gli occhi e un conato di vomito le risalì lungo la gola. « Ma, Peter… noi non… »
« Noi non cosa, Phoebe? Adesso lei pensa che siamo due schizzati e che dobbiamo stare lontani, per il nostro bene. Cazzate, senza di te non sto bene! » Alzò appena un po’ la voce e subito sua madre si voltò verso di loro, con l’ennesimo sguardo truce. Peter cercò di rispondere a quell’occhiata con un sorriso tirato. Quando la donna tornò a parlare con Marie, il ragazzo continuò, biascicando tra i denti: « Devi andartene da qui. E’ vero, ci sono le telecamere e ti sorveglieranno ventiquattro ore al giorno, ma… devi trovare un modo. » Allentò di poco la presa sul suo polso e Phoebe pensò che non si sentiva più la mano.
 
* * *

Lila continuava a correre senza mai voltarsi, il fiato corto, le lacrime agli occhi che le appannavano la vista e le gambe dolenti che le giocavano brutti scherzi, facendola inciampare sui propri passi. Quindi i Giochi erano cominciati?
Appena vide una scala, si lanciò nel risalirla, credendo che raggiungere la superficie le avrebbe dato un briciolo di salvezza. Le mani la sollevavano sempre di più, meccanicamente, abituate a quel tipo di movimento, tanto che sembrava andassero da sole. Lila oramai non riusciva più a dare dei veri e propri comandi al suo corpo, si lasciava guidare dall'istinto di sopravvivenza che l'aveva sempre caratterizzata. Toccò il tombino di ferro, cercando di alzarlo, ma qualcosa le strattonò la gamba, facendola scivolare e perdere la presa.
Si sentì sospesa nel vuoto, le braccia che arrancavano in cerca di un appiglio, ma che afferravano solamente l'aria. Gli occhi le pizzicavano più che mai, ma non riuscì a gridare, né a fare qualsiasi altra cosa. Era la fine? La sua mente si svuotò all'improvviso, così come lo stomaco, ogni organo sembrava in subbuglio, niente era al proprio posto e si sentiva le budella in gola.
Era investita dalla pressione e dal getto d'aria della caduta. La sua schiena si schiantò al suolo, facendole inarcare la schiena, togliendole il respiro. Il suo petto venne compresso, facendole emettere un suono indistinto. E, infine, l'impatto del cranio contro il cemento pose fine all'inutile vita di Lila Larin.
 
* * *

Non riuscì a ragionare lucidamente per molti, moltissimi secondi. Continuava a sbattere le palpebre come se la luce lo stesse accecando, ma in realtà era solo incredibilmente confuso, come se stesse giusto imparando a muovere i primi passi nel mondo.
Sentì il proprio cuore pompargli delle orecchie e questo, paradossalmente, gli fece scorrere l’adrenalina lungo tutto il corpo. Era pronto per l’Arena: ora o mai più.
Eppure quando vide con chiarezza ciò che lo circondava rimase più attonito che mai. C’era folla, così tanta che per poco non lo sommergeva, e si trovava nell’anfiteatro di Capitol City dove alcuni giorni prima c’era stata la parata dei tributi.
Brian alzò istintivamente la testa verso l’alto, cercando con lo sguardo la tribuna d’onore dove si aspettava di trovare il presidente Adamas Rigel, ma ciò che vide lo lasciò ancora più scombussolato: lì, in piedi sul palco, Randy Wane e Hans Coin sorridevano e parlavano alla folla con una naturalezza e un carisma straordinari, facendo anche qualche battuta ogni tanto.
Brian non riuscì ad ascoltare nessuna parola del loro discorso non solo perché il brusio della gente era troppo alto, ma anche perché la sua testa era troppo affollata di pensieri per permettergli di ragionare con ordine.
Strinse i pugni in due morse ferree, fino a sentirsi le unghie premute nei palmi delle mani. Poi, si guardò intorno e riconobbe accanto a lui e davanti a sé dei conoscenti del Distretto 8 facenti parte della sua banda di ribelli, che ogni tanto gli sorridevano o commentavano il comportamento di Randy. « Ma l’avete visto? Andiamo, non poteva esserci presidente migliore di lui! »
Brick scosse la testa. Ma che diavolo di sostanza stupefacente avevano introdotto in quella pillola? Non era stupido, capiva perfettamente che quella situazione era troppo surreale per essere vera. Tutta quella gente si comportava come se i ribelli avessero vinto la rivolta e lui avrebbe tanto voluto crederci a sua volta, ma… proprio non ci riusciva. Doveva trattarsi di uno scherzetto degli strateghi e quella doveva essere l’Arena, anche se non sembrava affatto.
Cercò di individuare gli altri tributi tra la folla, ma non vide nessuno di loro e per questo si spazientì. « Avanti, Hidden! » disse apertamente, allargando le braccia e alzando il tono più del previsto. « E’ tutto qui quello che sai fare? Resuscitare un paio di morti? »
Qualcuno cominciò a voltarsi verso di lui, incapacitato e gli intimò di stare zitto. Ma Brick non demorse. « Avanti, razza di stratega cornuto! Fa’ cominciare la carneficina, sono pronto, se è questo che vuoi! » Le sue parole erano piene di bruciante sarcasmo e di odio represso, non riusciva a trattenerle.
Aveva sopportato per giorni stilisti cretini e spettatori urlanti per… niente? Brick sapeva che urlare così il proprio rancore ai quattro venti fosse un mezzo suicidio perché gli strateghi avevano il coltello dalla parte del manico, ma d’altronde lui era sempre stato un amante del rischio e del pericolo.
Qualche secondo più tardi gli si avvicinò un Pacificatore con aria guardinga, anche se non riusciva a vedere la sua espressione perché aveva il capo ricoperto dal classico casco della divisa. « C’è qualche problema? »
Brick non ci pensò due volte e gli si avventò contro, colpendolo con calci e pugni. Il Pacificatore era addestrato per quello e rispose alla colluttazione, ma l’altro era cresciuto per le strade e sapeva benissimo come cavarsela in quelle situazioni. Una volta ne aveva anche ucciso uno, di Pacificatore, colpendolo con un mattone – da cui il soprannome che era costretto a tenersi. Brian si chiese se non avrebbe ucciso anche quello, oppure se sarebbe stato lui stesso a morire.
Presto arrivarono dei rinforzi per il Pacificatore e in meno di un istante il quindicenne si ritrovò inchiodato dalla presa di due di loro. « Non mi avrete mai! » urlò, quasi fuori di sé. « Non sono una vostra fottutissima pedina! » Avrebbe continuato ad urlare, se solo non avesse riconosciuto in uno di quei tizi il tributo del Distretto 9… com’è che si chiamava, Marvolio?
« Ehi, tu! » gridò. « Che diavolo sta succedendo? »
Il biondo mise una mano sul braccio del Pacificatore e gli disse sottovoce: « Lo conosco, lasciatelo pure. » Per fortuna lo stava difendendo e non voleva ucciderlo. Alleato inaspettato?
Tuttavia, i Pacificatori non lo liberarono. « Ha aggredito uno di noi e sta seminando scompiglio » ribatté quello accanto al ragazzo. « Merita una punizione. »
Una punizione…?, pensò Brick, digrignando i denti. Maledetta Capitol City… era ovvio che ci fossero di mezzo gli strateghi.
Il Pacificatore gli sferrò un manrovescio che gli fece voltare il volto dall’altro lato, così forte che per poco non sentì la mandibola spostarsi con uno scatto. Dopodiché, cominciò a prenderlo a calci nello stomaco, mentre il ragazzo del Nove tentava di bloccarlo, ma non serviva a niente. Il supplizio continuò ancora, e Brick cercò di non produrre alcun suono che dimostrasse la sua paura, ma dopo che sentì il sapore del sangue sulla lingua e sulle labbra cominciò a gemere di dolore. Non si sentiva più le costole.
Infine, il Pacificatore gli prese il collo tra le mani. Brick provò a guardarlo in faccia, ma… persino da sotto la visiera del casco, sembrava non averceli nemmeno, degli occhi. « Ma cosa…? » mormorò, sputando sangue sulla divisa del Pacificatore, che pose fine alla sua vita spezzandogli l’osso del collo con uno scatto inumanamente veloce.
« L’hai ammazzato! » gridò Benvolio, vedendo il corpo dell’altro tributo afflosciarsi sull’asfalto.
Il Pacificatore, in risposta, si levò il casco dal capo, rivelando la sua vera identità. O quasi. Il suo volto… praticamente non esisteva: nessuna traccia di occhi, naso, bocca, niente.
Prima che potesse fare qualsiasi cosa, prima ancora che riuscisse a pensare qualcosa di senso compiuto, quella creatura tolse la propria pistola dal fodero appeso al fianco e gli sparò in mezzo alla fronte.
Nessuno si voltò al rumore di quello sparo.

 
* * *

« Sei… sei bellissima. » Trovò il coraggio di dirlo solo dopo quelli che gli sembrarono secoli. Dopotutto, se quello era un sogno, Jamie non si sarebbe imbarazzata troppo, giusto?
Non aveva ancora capito da dove riuscisse a partorire quelle idee così strambe. Lui e Jamie, futuri sposi. Insieme.
La ragazza sembrò farsi più piccola di quanto non fosse già e arrossì leggermente, guardandolo fisso negli occhi e poi abbassando lo sguardo. Sembrava… Will non riusciva a trovare un aggettivo adatto. Disorientata, forse. Proprio come quando l’aveva fermata alla parata dei carri per farsi riconoscere – tentativo miseramente fallito, tra l’altro.
Will non se lo aspettava: se quella era davvero un’allucinazione, un prodotto della propria mente, Jamie avrebbe dovuto almeno parlare, riconoscerlo e vissero per sempre felici e contenti. Eppure sembrava esattamente che quella fosse la Jamie che aveva rincontrato agli Hunger Games. E molte cose non tornavano. Roxanne, le sorelline di Jamie, l’inesistenza di Nico… Le sue convinzioni cominciarono a sgretolarsi al passare dei secondi.
« Jamie, allora, quale ti piace di più? » domandò intanto la gemella di lui, girando intorno alla pedana su cui la ragazza stava in piedi, con circospezione, come se dovesse essere lei a sceglierle l’abito. « Io sinceramente preferivo quello a sirena, questo è troppo ampio. »
Jamie appoggiò le mani sulla gonna del vestito e ne accarezzò la stoffa voluminosa.
« Che c’è, oggi il gatto ti ha mangiato la lingua? »
« Ma questo è così carino, Roxy! » disse una delle sorelle di lei, intanto. « Sembra una vera principessa, gliel’ha detto anche Will! »
Il ragazzo avrebbe voluto ripeterle altri complimenti all’infinito, ma qualcosa in quel momento distolse la sua attenzione da quella visione angelica e dai suoi dubbi interiori.
Era un semplice manichino, poco lontano, voltato verso di loro. Sebbene quello fosse un negozio di soli abiti da sposa, quello era un corpo nudo maschile, pallido come la morte e senza l’ombra di un volto. Ed era così innaturalmente alto e sgraziato che prese a fissarlo, rapito e inquietato al contempo.
« Will, anche tu preferisci questo, quindi? »
« Roxy… » tentennò lui, « guarda che strano, quel manichino » la interruppe.
La gemella si voltò nella sua stessa direzione, ma invece di condividere la sua inquietudine gli lanciò un’occhiata perplessa. « Quale manichino? »
Will deglutì. Possibile che non lo vedesse? Ogni secondo quel… coso… sembrava qualche centimetro più vicino. Era così umano, eppure così innaturale. « Quello lì, guarda » glielo indicò. Tutte le ragazze si voltarono verso quella direzione, anche se nessuna di loro sembrò particolarmente impaurita o scossa come lo era lui. Nessuna… tranne Jamie.
La ragazza fece uno scatto indietro, spaventata, e per poco non cadde dalla pedana addosso a Roxanne, che borbottò: « Cosa diavolo vi siete fumati tutti e due? »
Will allora cominciò a collegare i punti nella propria mente. Tutto, in quel momento, gli diceva di fuggire il più veloce possibile, specialmente quando il manichino avanzò di un paio di passi in avanti. Lasciò che l’istinto vincesse e alzandosi di botto dalla poltrona su cui era seduto, prese Jamie per mano e la trascinò lontano da lì.
A nulla valsero le proteste delle altre ragazze, che sembravano non essersi accorte di niente, perché loro due continuarono a correre verso l’uscita. Dopo pochi secondi, imboccarono la porta d’ingresso del negozio – mentre la commessa gridava loro minacce di chiamare i Pacificatori – e si ritrovarono in un’ampia via un po’ trafficata, alla luce del sole.
Ma il manichino, che sembrava ormai più un uomo deforme, era proprio dietro di loro. Afferrò Will per una gamba, facendolo cadere a terra e lui riuscì soltanto a urlare: « Jamie, scappa! » prima che quello gli schiacciasse il petto all’altezza del cuore con il piede, con una tale forza da fargli spruzzare violentemente dei fiotti di sangue dalla bocca.
 
* * *

Go ancora non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Aveva provato a ragionarci su, mentre sua madre la riempiva di carta igienica, ma era tutto troppo strano per essere vero, eppure così maledettamente reale per essere finto.
« Ancora non ci credo! » stava intanto esclamando sua madre, sognante. « Sembra ieri che ti tenevo tra le mie braccia, in fasce… » sospirò, accarezzandole piano i capelli.
Trovare il bagno era stato un po’ faticoso perché l’anfiteatro era immenso – il luogo migliore per ospitare migliaia e migliaia di persone –, ma Go, inaspettatamente, aveva saputo come muoversi perché in quel luogo ci era già stata. Ricordava quasi ogni cosa della parata dei carri, persino il discorso del presidente Rigel.
E lui è morto, ora?, si domandò, provando a dedurre cosa fosse accaduto in quella versione. Probabilmente era morto, allora. Forse ammazzato da Randy Wane stesso.
« Vieni a sciacquarti le mani, tesoro » la chiamò sua madre, uscendo dal bagno per dirigersi alla fila di lavandini sistemati in un grande androne, fuori. Go la seguì senza ribattere e aspettò che la donna finisse di lavarsi le mani per prima; poi, per qualche strana ragione, prese a fissare l’acqua che scorreva dal rubinetto con insistenza. Assottigliò gli occhi – forse aveva preso un abbaglio o forse la luce le stava giocando brutti scherzi.
L’acqua era nera.
Non sporca, solo… nera, come se fosse inchiostro. Ad un certo punto cominciò a strisciare verso l’alto, come un serpente liquido, e poi verso il basso, senza spargersi sul pavimento. Piuttosto, una volta a terra, si innalzò in aria.
« Mamma… » mormorò la dodicenne, facendo un passo indietro, spaventata.
« Sì? »
Il serpente d’acqua cominciò ad espandersi, come se avesse vita propria, prendendo pian piano la forma di un essere umano… o quasi. La figura che ne uscì infine era molto simile a quella di un uomo, tranne per il fatto che avesse braccia e gambe troppo lunghe e il capo coperto da un cappuccio, sotto il quale non c’era nemmeno traccia di un volto. Go lanciò un piccolo urlo, prima che la porta dell’androne si aprisse, rivelando quelli che la ragazzina riconobbe come i tributi del Distretto 1.
« Oddio, è anche qui! » gridò Naomi, facendo immediatamente un passo indietro nel vedere quell’essere. Quindi loro due riuscivano a vederlo, al contrario di sua madre, che sembrava tranquilla mentre si asciugava le mani.
La creatura senza faccia, senza esitare, staccò il rubinetto da uno dei lavandini come se fosse attaccato ad esso con lo scotch e con una breve rincorsa, che tuttavia risultò velocissima ai tre tributi, lo spaccò sul cranio di Mason, ammaccandolo e facendolo cadere a terra privo di vita. Naomi urlò d’orrore, ma ebbe i riflessi pronti e scappò dal bagno, mentre il mostro rimase a fissare Go, pur non avendo gli occhi.
La dodicenne si appiattì contro uno dei lavandini, terrorizzata, mentre sua madre era uscita e probabilmente l’aspettava fuori. Ma Go già sapeva che non sarebbe mai uscita da lì dentro. Non viva, almeno.
L’acqua zampillava dal lavandino rotto e le bagnava gli abiti puliti; l’essere le scaraventò il rubinetto addosso, ma lei fece in tempo ad abbassarsi, così che quell’oggetto rompesse lo specchio in mille pezzi. La creatura non si arrese e recuperò un pezzo di vetro più grande degli altri e raggiunse l’angolino in cui si era raggomitolata Go, troppo lontana dalla porta anche solo per pensare di scappare.
Il mostro senza faccia le si avvicinò ancora prima che riuscisse ad accorgersene, già paralizzata dal terrore, e le piantò il grosso e appuntito pezzo di vetro in un occhio, facendolo poi spuntare dall’altro lato del cranio.
Il corpo di Go Nakai si accasciò sul pavimento piastrellato senza un rumore.

 
* * *

Perry non aveva idea da quanto tempo si fosse svegliato e non aveva intenzione di chiederselo per almeno un altro po’. Sebbene il suo distretto durante i Giorni Bui si fosse schierato dalla parte di Capitol, alla fine, Perry era stato felice di scoprire che in quella sorta di sogno fossero stati i ribelli a vincere.
Aveva sorriso nel constatare che Randy Wane e Hans Coin fossero entrambi vivi, poi i suoi pensieri si erano concentrati su dove potesse essere Ty. Aveva scrutato tra la folla, ma poi suo fratello Corin, accanto a lui, gli aveva chiesto per favore di andargli a prendere una bibita perché stava morendo di caldo. Aveva dedotto che quella non fosse l’Arena, ma soltanto una specie di allucinazione, per cui poteva darsi anche che Ty non ci fosse. Non c’era traccia degli altri tributi, infatti.
Si era incamminato per l’esterno dell’anfiteatro capitolino, cercando un bar o un distributore automatico, ma non aveva ancora trovato nulla. Anche lui aveva molta sete, del resto, sembrava che l’estate non fosse mai stata così calda.
Avanzando di qualche passo per le vie non affollate come l’interno della struttura, cominciò a riflettere sull’assurdità della situazione. L’avevano fatto entrare in una stanza con il suo accompagnatore, Byle, mentre Ty era stata portata in un’altra con Mizar – sperava davvero che non si mettessero a litigare in quel momento –, poi, dopo un conto alla rovescia prima del lancio e dopo aver preso una pillola con sopra inciso lo stemma della capitale in miniatura, era entrato in un lungo tubo di vetro spesso, di cui non si vedeva la fine.
Perry poi aveva perso i sensi, ma si era risvegliato in quel posto circondato dalla folla. La prima cosa che aveva fatto era stata domandarsi perché non indossasse più quella curiosa veste da faraone egizio, confuso, ma il resto lo aveva ipotizzato di conseguenza. Un sogno, per forza. Non c’era altra spiegazione, secondo lui.
Continuò a camminare fischiettando, chiedendosi cosa avrebbe fatto quando si sarebbe risvegliato in Arena. Lui e Ty si erano detti di scappare dalla carneficina iniziale, per cui continuava a sperare di essere abbastanza veloce.
All’improvviso, comunque, apparve da lontano qualcosa che lo fece bloccare sul posto. Non riusciva a vederlo perfettamente, ma sembrava un uomo – o forse no? – con le spalle possenti e gli arti eccessivamente lunghi. Infine, assottigliò lo sguardo per rendersi conto che quella cosa non aveva nemmeno un volto.
Perry rimase lì, paralizzato, quando si rese conto che quell’essere lo stava fissando – sì, proprio fissando, anche se non aveva gli occhi. Si guardò intorno, accorgendosi che nessun altro sembrava fare caso a lui. Avrebbe voluto correre via, ma nel voltarsi si scontrò per sbaglio con una donna dai capelli lunghi e scuri e inciampò, cadendo a terra. Imprecò qualcosa tra le labbra, ma, tuttavia, quando si rialzò si ritrovò la creatura senza faccia davanti, come se si fosse avvicinato in meno di un secondo.
Non ebbe più tempo di balbettare nulla perché l’essere gli infilzò un braccio nel torace e gli strappò il cuore.
E tanti saluti alla bibita che voleva portare a suo fratello.
 
* * *

Jamie riuscì addirittura a vedere gli occhi di Will che si rivoltarono all’indietro nelle orbite e urlò come non faceva da tempo immemore. Quasi non credeva di avercela più, una voce.
Al suo grido disperato un gran numero di passanti si voltò sconvolto verso di lei, ma nessuno sembrò fare caso al corpo privo di vita del ragazzo sull’asfalto, proprio a un palmo dal loro naso. Uno di quelli, tuttavia, le fece definitivamente capire cosa stesse accadendo: era il ragazzo del Distretto 11, proprio lì accanto, che prima probabilmente stava tentando di consolare una sua coetanea, e che aveva urlato quasi quanto lei. Era quella l’Arena, dunque. O meglio, forse. L’unica cosa che glielo faceva dubitare era il fatto che nessun cannone aveva ancora sparato per la morte di un tributo.
Era tutto così strano, che Jamie non ebbe la forza di farsi altre domande. Si sentì le guance bagnate di lacrime calde, ma l’istinto di sopravvivenza fu più forte. Quell’essere era ancora lì, invisibile a tutto il resto del mondo, e adesso sembrava puntare a lei e Jeyl.
Jamie si voltò e corse, corse a più non posso, con ancora i tacchi ai piedi e il vestito che le svolazzava attorno. Vide un autobus poco lontano, ad una fermata, e velocizzò la corsa per raggiungerlo e salire.
Bloccò giusto in tempo le porte prima che l’autista potesse chiuderle e, respirando affannosamente, s’infilò tra i passeggeri.
L’autobus prese a viaggiare normalmente, mentre la gente la fissava senza ritegno. D’altronde, dove si era mai vista una sposa che scappava e piangeva così? Non ebbe neanche il tempo di prendere un respiro, che l’autista svoltò nel vicolo del negozio degli abiti da sposa, dove adesso anche il corpo di Jeyl era riverso a terra, insanguinato e col petto trafitto, proprio accanto a quello di Will.
Il manichino era sparito.
Jamie barcollò all’indietro e fu sul punto di vomitare, ignorando la commessa del negozio che l’aveva intravista dai finestrini e che le stava mandando minacce di morte per aver rubato un abito. Will si era sacrificato per lei, per una sconosciuta… Dei lampi le attraversarono la mente e così prese a singhiozzare, perché era tutto maledettamente confuso e sbagliato. Quello di distruggere la felicità un attimo dopo avertela donata era la mossa più meschina che Capitol potesse fare.
Jamie si aggrappò ad un asta di ferro del pullman, sul punto di crollare, e sobbalzò quando qualcuno le mise una mano sulla spalla. Si voltò di scatto, terrorizzata, riconoscendo poi un altro tributo, quello del Distretto 10. Ricordava che si chiamasse Ryder.
Lui non disse niente – era taciturno esattamente come lei – ma il suo sguardo bastò più di mille parole: avevano entrambi cominciato a capire. Tuttavia, qualcosa li riscosse dalle loro mute considerazioni. Sgranarono gli occhi, lucidi di disperazione, quando si resero conto che all’improvviso tutti i passeggeri di quell’autobus si erano trasformati in orride fotocopie del manichino senza volto.
Jamie avrebbe voluto urlare, ancora, ma non ne ebbe nemmeno il tempo perché l’istante successivo l’autobus si schiantò violentemente contro il muro di un edificio.
 
* * *

« Nasconditi qui » le disse, aprendo un cassonetto non troppo maleodorante, trovato in un vicolo apparentemente dimenticato dal mondo.
« Ma, Ocean… » tentò di dissuaderlo Beryl, in una piccola protesta.
« Non preoccuparti, vado a cercare qualcuno o qualcosa per eliminare il tizio che ci segue » ribatté lui. « Tu aspetta qui buona, torno subito. Non ti troverà nessuno. »
La ragazza per una volta nella sua vita sembrava a corto di parole. « Ma… insomma… »
Ocean le posò un bacio sulla fronte e la invitò con un gesto eloquente ad entrare nel cassonetto. « Non è un bel posto per nascondersi, lo riconosco, ma almeno è qualcosa. »
Beryl annuì controvoglia e lo abbracciò, prima di infilarsi nel nascondiglio. « Torna presto, ti prego » disse flebilmente. « Non lasciarmi da sola. »
Ocean provò a farle un sorriso di incoraggiamento, poi chiuse la copertura del cassonetto e si allontanò di lì il più veloce possibile. Continuò a correre affannosamente, mentre tutto nella sua testa era ancora troppo confuso per delinearsi in pensieri di senso compiuto.
Dopo qualche minuto giunse in un ampio spiazzale non troppo affollato, dove le persone camminavano passivamente e per i fatti loro: fu proprio questo che all’inizio non gli fece notare il corpo di un ragazzo riverso a terra, bocconi. Perché nessuno sembrava calcolarlo?
Ocean si avvicinò con circospezione, riconoscendo poi il tributo del Distretto 2. « Perry… » mormorò, spalancando gli occhi. « Perry? »
L’asfalto intorno a lui era vermiglio di sangue fresco e poco lontano dal suo braccio c’era… un cuore, che sembrava essere rotolato proprio dal petto del tributo. Un conato di vomito premette nella sua gola. Quindi era davvero morto, quindi erano davvero in Arena.
Ma chi era stato capace di fare una cosa del genere…? Quale forza sovraumana?
Ocean si guardò intorno, constatando come nessuno si fosse accorto del cadavere e domandandosi perché, perché quella pillola, perché l’anfiteatro e perché la vittoria dei ribelli.
Niente sembrava avere un senso, neanche lontanamente.
Fu sul punto di andarsene, ma un inusuale fastidio alla tempia gli fece capire di essere osservato. Si voltò di scatto, e riconobbe l’essere da cui stavano scappando lui e Beryl all’inizio.
Avrebbe voluto gridare o scappare ancora, ma un pensiero fulmineo lo fece già rassegnare alla sua imminente fine. L’uomo nero non si mosse, continuava solamente a puntargli contro lo spazio vuoto al posto della faccia, eppure Ocean si sentì qualcosa risalirgli le viscere e andargli in gola. Iniziò a tossire e della bava iniziò a scendergli dalla bocca, accorgendosi che non riusciva più a respirare e che qualcosa gli si era bloccato in gola. Annaspò, ma inevitabilmente il suo corpo si accasciò di fianco al cadere del tributo del Distretto 2, soffocando.
 
* * *

Haylee si sentì trascinare per entrambi i polsi verso chissà dove, un braccio dal tributo del Cinque e l’altro dalla ragazza dai capelli corti di cui non ricordava nome né distretto. Non era forse quella che aveva scoperto che era morto il fratello in diretta nazionale?
« Messer Coniglietto! » gridò quando quelle prese le fecero cadere sia il suo zucchero filato che il suo peluche, lasciandoli indietro e a terra, mentre l’essere – che aveva affettuosamente battezzato col nome di Jimmy – li inseguiva a grandi falcate. A quanto pare aveva ucciso il compagno della tizia coi capelli corti, e dire che a lei era sembrato così simpatico.
Un pensiero le balenò per la mente. Se quella era chi pensava che fosse voleva dire che era del Dodici e ciò significava che il suo compagno era… esattamente il ragazzo che durante l’addestramento aveva ritrovato il fazzoletto di suo padre. Gonfiò le guance ripensando a quella scena e inaspettatamente dispiacendosi po’ per quel ragazzo, ma in fondo quello era un gioco in cui lo scopo era uccidere gli altri, era stata fortunata a non dover essere stata lei a farlo.
« Un mostro senza faccia è in piedi ad ascoltare i nostri discorsi e tu ce lo dici con tutta la calma del mondo? » sbraitò il ragazzo del Cinque.
« E che ne sapevo io! » si giustificò Haylee. « Pensavo fosse uno dei costumi della Casa dell’Orrore! » La rossa venne trascinata e costretta a balzare al volo su una delle cabine della gigantesca ruota panoramica. Si sentiva come un ostaggio, quando invece il loro intento era quello di salvarla… forse. « Ah, che bella idea. Andiamo sulla ruota panoramica, così sicuro che siamo in trappola. E che facciamo? Lui ci aspetta sotto quando finiamo il giro e poi ci invita a prendere un tè? » sbottò, ritenendo che quella fosse una pessima idea.
I due accusati invece si sedettero e lanciarono alcuni sospiri di sollievo, potendo riposare per qualche istante.
« Se rimaniamo qui sopra sarà impossibile raggiungerci » spiegò Nymeria.
Improvvisamente la cabina tremò, bloccandosi in aria. I tre si aggrapparono dove poterono, spaventati da quell’urto, poi fu Haylee a strisciare fino al bordo e a dare un’occhiata di sotto.
« Ne sei sicura? » chiese, attirando l’attenzione degli altri, che si sporsero a loro volta. « Jimmy sta salendo. »
« Ma è impossibile! » esclamò la diciottenne, inorridita.
La ruota era ferma, loro erano sospesi in aria e il caro Jimmy – ma da dove era uscito quel nome? – si stava arrampicando a mani nude, scalando gli ingranaggi di metallo della giostra.
« E’ inumano » commentò Jason, facendo roteare gli occhi in aria alla minore del trio, pesando che quella fosse una frase che si poteva benissimo risparmiare. « Ma che diavolo è? »
« Al Distretto 10 facevano esperimenti sul DNA » disse Haylee, spiazzando gli altri due. « Magari è uno degli ibridi nati dagli esperimenti. »
« No » obiettò Nymeria, assottigliando lo sguardo verso quel mostro che scalava velocemente la struttura come se stesse gattonando su una superficie piana, « è qualcosa di peggio. »
Il trio indietreggiò quando Jimmy risalì il braccio metallico che reggeva la loro cabina, e osservò la sua testa priva di volto mentre si avvicinava. Jason si sporse dal bordo della cabina, rivolgendo lo sguardo verso l’alto e osservando Jimmy intento a stringere fra le mani lo spesso e solido gancio che reggeva e faceva ondeggiare la cabina.
« Che sta facendo? » chiese Nymeria, barcollando per le oscillazioni.
« Sta cercando di spezzare il gancio della cabina con le mani o qualcosa del genere » le rispose il diciassettenne, dubbioso.
« Ridicolo! » esclamò la quattordicenne, schernendolo. « E’ fatta di ferro, è impossibile spezzarla con le mani! »
La maggiore rabbrividì, sapendo cosa sarebbe successo se quell’uomo ci fosse riuscito. « Io non ne sarei così sicura. E’ riuscito a scalare una giostra alta non si sa quanti metri con quelle mani. »
Ed aveva ragione, perché l’uomo senza volto piegò il gancio come plastilina tra le mani di un bambino e lo spezzò, lasciando che la cabina precipitasse in picchiata ad alta velocità. Si schiantò al suolo nel giro di qualche secondo, ma nessuno sembrò neanche minimamente interessato.
 
* * *

Avevano svoltato in un corridoio, mentre Marie parlava senza sosta. Non aveva ascoltato nessuna parola del suo sproloquiare, pensando in continuazione al discorso che le aveva fatto Peter, che sosteneva che loro… che loro… Il solo pensiero le fece scendere un brivido lungo la spina dorsale.
Erano saliti in un ascensore ampio e grigio, dalle porte metalliche e ora se ne stavano all’interno, in silenzio, guardando i numeri che lampeggiavano ad ogni piano superato.
Per quanto potesse essere moderno, quell’ascensore era dannatamente lento; inoltre, superò il quinto piano citato prima dalla segretaria per dirigersi al nono.
Phoebe quasi si sentiva soffocare, lì dentro, e sperò con tutto il cuore che le porte si aprissero in fretta. Solo quando un piccolo campanello indicò che erano arrivati al piano desiderato si sentì di tirare un flebile sospiro di sollievo; fu la prima a mettere piede sulla moquette esterna, ma, non appena si voltò per aspettare Marie, suo fratello e sua madre, le porte si richiusero nuovamente, quasi di botto. Sentì in lontananza un’imprecazione di Peter e subito dopo il silenzio più totale, così pesante che la investì come il più forte dei rumori, facendole ronzare le orecchie.
Phoebe deglutì e aspettò che l’ascensore risalisse, ma per quanti minuti passarono, cominciò a capire che non sarebbe più risalito. Forse era guasto. Sì, doveva essere così.
Si guardò intorno per i corridoi e sembrò quasi che non ci fosse anima viva. « C’è nessuno? »
Che stupida, si disse poi, scuotendo la testa. Era ovvio che non ci fosse nessuno.
Cominciò a camminare, aprendo porte a caso solo per scoprire che erano per la maggior parte bloccate – dovevano essere camere private, quelle – e cercando almeno una di quelle mappe che si attaccano sui muri per indicare il percorso da seguire in caso di incendio.
Non seppe dire per quanto tempo camminò sullo stesso piano, finché non trovò una delle mappe tanto ardentemente desiderata. Memorizzò dove si trovavano le scale e seguì le indicazioni.
Destra, sinistra, sinistra, sinistra, destra, destra.
Si aspettò le scale, ma incontrò soltanto un muro che le sbarrava la strada, senza alcuna porta o finestra. L’unica cosa appesa era un’altra mappa che indicava le scale antincendio. Il cuore cominciò a martellarle nel petto, ma tentò comunque di memorizzare questo secondo percorso. Fece dietro front.
Sinistra, destra, destra, sinistra, destra.
Ancora un altro muro. Phoebe andò a sbatterci con le mani sopra, così sicura che avrebbe trovato le scale… E invece… I battiti aumentarono a dismisura, quasi erano l’unico rumore che riusciva a percepire. « Dove sono…? » mormorò, atterrita. Cominciò a vagare ancora una volta per i corridoio alla rinfusa, non trovando nessun accenno di porte accessibili, finestre o scale. Non riusciva nemmeno più a trovare l’ascensore, sembrava tutto un maledetto labirinto.
Sentiva che entro pochi minuti sarebbe caduta nelle reti del panico, per cui si costrinse a sedersi a terra sulla moquette e ad appoggiare la schiena al muro. Tentò di respirare per calmarsi – inspira, espira – ma tutto ciò che riuscì a fare fu mettersi a piangere e coprirsi gli occhi con i palmi delle mani.
Avrebbe tanto voluto Melanie con sé, in quel momento, avrebbe tanto voluto il suo istinto e il suo spirito dell’avventura. Si attirò le ginocchia al petto e vi affondò il viso, terrorizzata.
Phoebe perse la cognizione del tempo e quando si rialzò da terra non aveva idea nemmeno se fosse ancora giorno. Tirò su con il naso e si decise a cercare un’altra via d’uscita; fu sul punto di muovere qualche passo, quando sentì dei rumori provenire dal piano di sopra.
Passi, veloci.
Sobbalzò all’istante e svoltò nel primo corridoio che le capitò davanti, trovando addirittura…
le scale. Una voce esultò dentro di sé, quando poi si accorse che erano scale che portavano soltanto ai piani superiori. Poco male, si disse, era già qualcosa. E poi poteva chiedere aiuto. Ma erano sempre state lì? Lei credeva di esser venuta da quella parte, prima di accasciarsi sul pavimento.
Prese un respiro profondo e imboccò le scale, stringendo forte il corrimano come se avesse paura di cadere all’indietro.
Il piano successivo era totalmente buio e desolato. Alcune porte scricchiolavano e nessuna luce illuminava l’ambiente, senza contare che non vedeva una finestra da quelle che pensava fossero ore. Sembrava notte fonda e sentiva quasi il rumore… della pioggia… lontano…
Rabbrividì e camminò piano lungo il nuovo corridoio tappezzato di moquette – marcia –, chiedendo: « C’è qualcuno che può aiutarmi? »
Sobbalzò, quando vide un’ombra muoversi in lontananza.
« Hey! » esclamò, con più voce di quanta pensava di possedere. « Aspetta! »
Rincorse quell’ombra a passo spedito, svoltando ancora un paio di volte nei meandri di quel labirinto. Vide una porta sbattere e vi si precipitò come se ne andasse della sua stessa vita.
Girò la maniglia, rendendosi conto di avere le mani fin troppo sudate perché scivolò un paio di volte dalla sua presa, ed entrò nella stanza – o meglio, nell’aula. C’era un’ampia cattedra bianca addossata al muro, un paio di lavagne verdastre e innumerevoli banchi macchiati d’inchiostro.
E lì, accanto ad un mappamondo e alla ricostruzione di uno scheletro del corpo umano, c’era una ragazza alta quanto lei e bionda, che la fissava con sguardo stralunato.
La riconobbe e trattenne il respiro. Era la ragazza del Distretto 3.
Un tributo, proprio come lei.
 
* * *

Non riuscì a resistere a lungo.
Beryl era accucciata all’interno del cassonetto tra sacchetti di plastica di spazzatura e si teneva le ginocchia strette al petto come per auto-proteggersi. Ocean le aveva detto che sarebbe tornato, non doveva preoccuparsi. Eppure una paura sorda si faceva strada dentro la sua testa, pensando all’essere senza volto con il cappuccio che li aveva rincorsi fino a quel momento.
In teoria l’avevano seminato, ma non c’era da starne certi con un seguito di strateghi che desiderava soltanto far fuori ventitré tributi. Beryl cominciò ad avere davvero paura solo in quel momento: a Capitol in quei giorni si era distratta, chiacchierando con Rhymer e altri capitolini, ma adesso c’erano soltanto lei, Ocean e l’Arena. Eppure le sembrava assurdo che fosse davvero quella, visto che era così diversa da quella dell’anno precedente…
Affondò il viso nelle ginocchia con un verso di frustrazione. La puzza della spazzatura non la turbava minimamente, considerata la situazione assurda in cui si trovava.
Passarono molti, troppi minuti da quando Ocean se n’era andato, e perciò Beryl decise di uscire a cercarlo. Non era giusto che lui facesse il lavoro sporco al posto suo, anche se era un maschio. Non avrebbe mai permesso che si sacrificasse per lei.
Con un salto sbucò dal cassonetto e per un attimo le sue narici si inebriarono dell’aria pulita che respirarono. Tuttavia, prima di cominciare a cercare Ocean o di pensare da che parte andare, venne letteralmente investita da un’altra ragazza che era spuntata da un angolo del vicolo. Urlarono entrambe, cadendo sull’asfalto.
« Da dove diavolo sbuchi, razza di-? » iniziò a domandare quella, rialzandosi e prendendo poi a fissarla come se avesse visto un fantasma. « Ma tu sei quella del Quattro! »
« E tu sei Mimi! » esclamò Beryl, saltando addosso a Naomi e stritolandola in un abbraccio. « Che bello incontrare qualcun altro! »
« Se ti azzardi a chiamarmi così ancora una volta ti stacco la testa dal collo a mani nude » biascicò Naomi, tentando di sfuggire a quell’abbraccio soffocante. Quello sarebbe stato il caso di ucciderla, forse, ma per qualche strano motivo non le passò nemmeno per l’anticamera del cervello. Tutto ciò che invadeva la sua mente era l’essere mostruoso senza volto che aveva ucciso Mason. « Puzzi di spazzatura » aggiunse poi, scostandosi bruscamente dalla minore.
« Lo so, mi ero nascosta lì e… scusa. Non ci credo di aver trovato un altro tributo! » cominciò a dire Beryl, quasi in iperventilazione. « Hai visto che strana l’Arena? Ma cosa cavolo si sono inventati gli strateghi? Vogliono farci impazzire? L’hai visto anche tu quel tipo senza faccia? »
Naomi la bloccò sul nascere. « Sì, ho visto, ho visto. E credimi che non ne ho idea. »
« E’ tutto così strano, sembra quasi un sogno, ma è troppo reale per non esserlo… insomma, Randy Wane, Hans Coin… sembra che abbiamo vinto la rivolta, ma io so che non è così, purtroppo, non può essere andata così… però papà era ancora vivo e per un momento ho pensato di essere morta, ma mamma non può essere morta e ha fatto una faccia strana quando ho parlato di Chord e- »
« Beryl, non devi credere alle stronzate che ci hanno appena propinato » ribatté Naomi con un pizzico di acidità. « A me volevano far credere di essere fidanzata con il marito di Jewel, ma no… a me non è mai piaciuto! Volevano farmi credere che la mia Lucy fosse ancora viva, capisci? » continuò, prendendole le spalle e scuotendola un poco. « Sono solo degli stronzi bugiardi. »
Beryl la abbracciò di nuovo, questa volta con più dolcezza. « Mi dispiace, Mimi. »
Naomi tentò di non badare a quel soprannome che odiava tanto e allontanò ancora una volta il naso da lei. « Perché ti eri nascosta in un dannatissimo cassonetto pieno di scritte vandaliche? » le chiese, quindi. Concentrò appena lo sguardo su una scritta che spiccava più delle altre, in rosso scarlatto: “Viene notte e cavaliere”. Non si domandò nemmeno cosa potesse significare, perché Beryl interruppe i suoi pensieri.
« Me l’aveva consigliato Ocean e- oh! Devo andare a cercarlo! Aveva detto che sarebbe tornato ma non l’ha ancora fatto… mi accompagni? »
« Senti » disse Naomi, nervosa e leggermente scocciata, ancora scossa per tutto quello che stava accadendo, « l’unica cosa che dobbiamo fare è scappare. Quella… cosa… potrebbe spuntare da un momento all’altr- »
La mora non finì neanche la frase che la copertura del cassonetto si spalancò di botto con un rumore assordante, come se qualcuno l’avesse aperta dall’interno. Entrambe sobbalzarono e arretrarono di scatto.
Incredibile a dirsi, ma proprio dove prima era accucciata Beryl, adesso era comparso l’uomo senza volto – se l’avesse avuto, in quel momento, avrebbe sicuramente mostrato loro un’espressione agghiacciante e minacciosa.
Naomi urlò e spintonò Beryl verso l’uscita del vicolo, ma la creatura con un balzo si parò davanti ad entrambe; provarono a fare dietrofront, ma un altro di quegli esseri era dall’altra parte a bloccare il passaggio.
Erano bloccate in mezzo a quel vicolo. Si misero spalla contro spalla, senza sapere davvero cosa fare, e guardarono i due mostri picchiare con un pugno il muro di mattoni del palazzo a cui era appoggiato il cassonetto. Bum. Bum. Bum.
Una mano di Beryl andò a cercare e strinse quella di Naomi, che stavolta non replicò nulla, anzi corrispose alla presa, come se avesse bisogno di un’ancora a cui aggrapparsi.
Dopo un altro pugno, una montagna di pietre, detriti e mattoni, cadde violentemente su di loro, seppellendo i loro copri già morti per l’impatto.
 
* * *

« Ehi! » continuava ad urlare il ragazzo dietro di lei, inseguendola come se ne valesse della sua stessa vita. Ma scappare era più importante. Ty aveva capito che molto probabilmente i Giochi erano già cominciati, quindi poteva significare soltanto che chiunque al di fuori di Perry desiderasse ammazzarla per portare la pellaccia a casa. E non poteva biasimarlo, perché… anche lei c’era dentro, ormai, e doveva comportarsi di conseguenza.
Cercò di aumentare la velocità, ma dopo un po’ il suo respiro cominciò a farsi affannoso e le gambe pesanti. Non era poi così abituata a correre, e infatti Zhu Koeyn la raggiunse e la afferrò per un polso; lei, tuttavia, con uno strattone si liberò della presa, ma l’altro non demorse facilmente e per fermarla le si buttò addosso. Caddero entrambi a terra, ansimanti e doloranti.
Zhu ci mise qualche istante a mettere insieme le parole. « Aspetta… tu… hai visto cosa… »
Ty non gli diede il tempo di continuare perché gli sferrò di botto un pugno alla mascella, stordendolo. « Allora vuoi la guerra? » domandò retoricamente, eppure nella sua voce il panico era chiaro. Ty non desiderava davvero ucciderlo, ma era necessario per la sua sopravvivenza. La ragazza approfittò della sua momentanea debolezza per dargli un violento calcio nei fianchi, ma Zhu si scostò e faticosamente si rialzò in piedi. Lui biascicò qualcosa tra i denti e non sembrò perdonarle il pugno al viso, per cui le si avventò contro quasi con egual foga – certo, era una donna, ma anche lei menava pesantemente.
Dopo qualche minuto un gruppetto di persone si radunò intorno a loro, inneggiando alla rissa e facendo il tifo per l’uno o per l’altra. Non c’era ancora traccia di Pacificatori.
Zhu fu sul punto di scagliarsi contro la ragazza, ma per sbaglio, dopo aver preso una breve rincorsa, colpì alla spalla uno – o meglio, una – degli spettatori che li avevano accerchiati senza nemmeno lasciargli un po’ d’aria.
« Oh, ma che voi? » domandò quella con voce indignata, tastandosi la zona colpita. « Statti un po’ più attento! »
« Sono un attimino impegnato al momento » ribatté Zhu con sarcasmo innato. Pensava che quella ragazza con i corti capelli rossi e ricci l’avrebbe lasciato stare, ma invece sciolse la stretta tra la sua mano e quella della tizia mora con gli occhiali accanto a lei e fece qualche passo in avanti, entrando a far parte della mischia.
« Senti, teso’ » disse in direzione di Ty, « devi esse’ più decisa. » E così diede al giovane una ginocchiata nel ventre, facendolo piegare in due per qualche secondo.
Il diciassettenne, esterrefatto dalla situazione, tentò di rispondere, ma nel casino che ormai si era creato anche la compagna di quella ragazza s’intromise. « Tocca la mia ragazza e sei morto! »  
Zhu non si domandò perché quelle due si fossero messe in mezzo così prontamente e nemmeno perché indossassero delle magliette con scritto “panda-qualcosa”, ma si affrettò a replicare: « Dannazione, statene fuori! »
Ty, perplessa dalla scena esattamente come lui, rimase con un altro pugno sospeso a mezz’aria. « Ma chi siete…? » chiese.
« Senti, tu fai quello che diciamo noi » mise in chiaro la ragazza coi capelli scuri, puntandole un dito contro. « E tu » aggiunse, spostando l’indice sul ragazzo, « taci perché siamo le più fighe di Panem. »
« A voja! » assentì la rossa, con un sorrisetto a metà tra il compiaciuto e lo scherzoso.
« Bella Mì! » esclamò l’altra, battendo il cinque con quella che aveva definito la sua ragazza – che poi lo fosse davvero era un arcano, sembravano più due sorelle deliranti che altro.
La riccia spostò lo sguardo altrove e incitò i due tributi a fare altrettanto. « Toh, guardate, c’è Jimmy. »
« Jimmy…? » chiesero in contemporanea Zhu e Ty, confusi. Seguendo lo sguardo della ragazza, però, rimasero inorriditi nel comprendere di chi stava parlando.
Poco lontano, controluce ma perfettamente visibile, si ergeva una figura alta e possente, con un cappuccio calato sulla fronte. Li guardava pur non avendo gli occhi né altre parti del volto, come se stesse per ammazzarli con il pensiero da un istante all’altro. E in effetti…
Ty assottigliò lo sguardo giusto in tempo per rendersi conto che quello aveva cominciato ad avvicinarsi pericolosamente, per poi tentare una fuga azzardata, ma Jimmy fu subito accanto a lei e le trapasso il ventre con la mano nuda, tirandole fuori con uno scatto tutte le budella e lasciandole cadere sull’asfalto impolverato, che si riempì di sangue.
Zhu inorridì e indietreggiò, ma a lui toccò una sorte simile: se lo ritrovò alle spalle, come se fosse sempre stato lì dietro, e non poté reagire in alcun modo perché si sentì le sue dita attorno al collo e sollevarlo come se fosse una piuma. Zhu iniziò a scalciare come un dissennato, ma le grandi dita dell’altro gli perforarono la gola. Lanciò un urlo straziato, per poi ricadere a terra privo di vita, con la gola bucata come uno scolapasta.
Gli spettatori della rissa si erano già dispersi e nessuno in particolare sembrò aver notato qualcosa di strano, né tantomeno diese segno di aver visto l’assassino di quegli omicidi raccapriccianti. Eccetto le due ragazze, ancora ferme lì, accanto ai cadaveri.
« Bravo, Jimmy, hai fatto il tuo lavoro » si complimentò quella con i capelli castani. La rossa lo prese sottobraccio e s’incamminò con lui. « Adesso torniamo dalla Lisa, che altrimenti si incazza. Lo sai quanto è suscettibile. »

 
* * *

Nate sgranò gli occhi nel buio. Erano rare le cose che la sorprendevano, ma per una volta fu stupita di averci visto giusto: erano in Arena. Quella era l’Arena. La ragazza del Nove stava ora di fronte a lei, probabilmente terrorizzata.
Dopo aver abbandonato quella che si era proclamata la sua famiglia, Nate era corsa via dall’anfiteatro con una velocità di cui non pensava essere capace e aveva raggiunto uno degli edifici più vicini. Non aveva idea del perché, ma era entrata in quella sorta di istituto perché… diamine, le ricordava troppo il manicomio in cui era stata rinchiusa anni interi della sua esistenza. Era stata una sorta di attrazione fatale… non appena aveva visto quelle mura, aveva sentito il disperato bisogno di entrarci. Aveva camminato, corso, si era nascosta dai collaboratori dell’istituto ed era salita ai piani superiori, quando tutto aveva cominciato a diventare buio e tetro… Sembrava un incubo, come quelli che faceva quando era segregata in quel dannato ospedale. Come quelli che Latasha tanto amava.
« Distretto 9? » mormorò, con un impercettibile sorriso obliquo.
Phoebe fece un passo indietro e annuì come se non avesse scelta.
« Ma che hai fatto ai capelli? » domandò, incrociando le braccia. « Pensavo ce li avessi bianchi e neri. »
L’altra sembrò accorgersi solo in quel momento che la sua chioma aveva un colore diverso dal solito, molto più naturale. Si prese una ciocca tra le dita e se la esaminò con uno sguardo stupito: era castana. Poi tornò ad alzare gli occhi su di lei e prese a scrutarla come se stesse guardando qualcosa di distorto in uno specchio. « Tu… tu sei… »
« Natálie, ma è meglio se mi chiami Nate » concluse la ragazza del Tre, avvicinandosi piano all’altra. « Non preoccuparti, non voglio ucciderti. » Fece una piccola pausa d’incoraggiamento. Se se la fosse fatta amica prima, poi sarebbe stato più divertente ammazzarla. « Cerchiamo una via d’uscita, piuttosto. »
Phoebe annuì ancora una volta, più convinta. « Sto girando in tondo da… da ore, credo. » Si morse le labbra e uscì per prima dalla porta.
Insieme, fianco a fianco, s’incamminarono per i corridoi bui e deserti. Stettero in silenzio per molto tempo, ma non riuscirono più a trovare le scale che le avevano fatte salire fin lì. Solo altre scale, altre scale che salivano.
« Natálie… » tentennò Phoebe, ma Nate fu più veloce e, alzando gli occhi al cielo per il suo nome completo che tanto detestava, salì i gradini per prima. Del resto non avevano nulla da perdere, prima o poi quel palazzo sarebbe dovuto finire. Forse.
Giunsero in un altro piano, se possibile ancora più deserto e vuoto del precedente, camminando nel buio più totale.
Nate appoggiò una mano al muro per non inciampare, quando poi cominciò a riflettere che dovevano trovarsi all’undicesimo piano. Eppure credevo di averne visti solo nove, dall’esterno.
Quando imboccarono un altro corridoio, qualcosa si scontrò con un piede di Nate. La ragazza si abbassò e raccolse quella che si rivelò essere una torcia, per fortuna carica.
La accese e la puntò prima sul volto di Phoebe, pallido, e poi sul muro di fronte, dove a caratteri cubitali c’era una scritta che recitava “Tredicesimo piano”.
La bionda a quel punto decise che era arrivato il momento di agire. Quello era un chiaro segno che quell’istituto fosse opera degli strateghi, per cui era ora di attaccare. Con uno scatto sbatté la testa di Phoebe contro il muro, guardando poi il suo corpo accasciarsi a terra privo di forze. La ragazza lanciò un urlo debole e l’altra salì a cavalcioni su di lei, impugnando la piccola chiave arrugginita che portava sempre al collo. Con quella sarebbe stata capace di aprirle il cranio. Aveva intenzione di dare spettacolo a quei mentecatti dei capitolini – se solo avesse saputo dov’erano le maledette telecamere…
Phoebe tentò di dimenarsi, ma Nate, seppure più magra di lei, le aveva artigliato il collo con una mano, mentre con l’altra stringeva la chiave. « Un ultimo saluto ai telespettatori? »
Quelle, tuttavia, furono le sue ultime parole. La torcia era caduta a terra e illuminava il corpo disteso della ragazza del Nove, per cui nessuna delle due riuscì a vedere ciò che veramente accadde.
Nate si sentì trascinare da dietro da una forza improvvisa e sovraumana, da due braccia possenti che le bloccarono ogni iniziativa di movimento. Non riuscì nemmeno a produrre alcun tipo di suono, perché all’improvviso quelle stesse braccia si strinsero intorno alla sua gola, mozzandole il respiro a metà strada. Annaspò in cerca d’ossigeno, ma quelle braccia stringevano così forte che le avrebbero presto spezzato – frantumato – persino l’osso del collo.
Sentì in lontananza un tonfo e un altro urlo di Phoebe.
All’improvviso una luce sopra di loro si accese, rivelando l’identità dei due assalitori: due uomini senza volto – o forse uno solo che si era sdoppiato? – che le stavano soffocano una di fronte all’altra, come in uno specchio, mostrando ad entrambe come tutti avessero lo stesso identico terrore negli occhi prima di morire. 



II. Secondo tempo – La porta.
Non aprì gli occhi, erano già aperti, ma lei si sentiva come se si fosse appena svegliata da un lungo, lunghissimo sonno.
Che cos’era successo? Non era morta?
Si guardò attorno, notando che era in piedi al centro di una piccola stanza fatta da quattro mura che la circondavano e che sembravano soffocarla per quanto fosse limitato quello spazio buio e grande quanto una cabina, e di fronte a lei un’unica e sola porta, dove proiettati da non si sa dove comparivano dei numeri, come un conto alla rovescia. Le ricordava tanto il conto alla rovescia che agli Hunger Games precedenti – l’aveva visto in tv – era stato proiettato sopra quell’enorme corno d’oro posto al centro dell’Arena.
Fra le braccia stringeva nuovamente la sua Betty e questo le fece tirare un sospiro di sollievo: avere accanto quella bambola la tranquillizzava. Guardandosi le maniche a palloncino si rese conto che stavolta era nuovamente vestita con l’abito che ricordava, quello antico, azzurro e di seta.
Allora è stato tutto un sogno…
Inevitabilmente ripensò al suo Logan, a come era andato, a come non era tornato e a come aveva visto la sua figura immobile in quella bara di legno, con Diamond che le diceva che oramai il suo Loggie non avrebbe parlato più.
Era morto il giorno del suo compleanno, esattamente come sua nonna, esattamente come sua madre, che non aveva conosciuto mai, così come suo nonno ed il suo vero padre. E, ironia della sorte, il suo compleanno era proprio oggi.
Si chiese se magari anche lei sarebbe morta, che cos’avrebbe provato. Perché prima non era morta davvero, era stata solo un’orrenda sensazione, un incubo raccapricciante.
Strinse ancor di più Betty al petto, stritolandola e continuando a fissare quella porta, mentre i numeri continuavano a diminuire.
Ma se quello di prima era solo un sogno, allora ora dove si trovava? Quelli erano gli Hunger Games? Ma erano diversi dall’anno prima! Kenia nella sua mente protestò come la bambina che era, ma che allo stesso tempo non era più.
Voleva continuare ad esserlo, perché quando si è bambini è sempre tutto più facile, si è sempre giustificati e non ci si deve curare di nulla, perché sono gli altri a badare ai bambini. Ma non era da molto che Kenia aveva scoperto di giocare come un’adulta e non con l’innocenza di sempre.
Ripensò alle favole di Kingsley, alla dolcezza di Queen, alla sicurezza di Diamond, alla forza di Golem, agli scherzi di Sun e Moon, alla lealtà di Blade, alla sincronia di Cip e Ciop e al loro dolore comune per la morte di Logan. Ripensò persino a Cher, che era stata quella più sincera, che aveva ammesso da subito di odiarla.
No, oramai erano tutti falsi, tutti le avevano mentito, l’avevano ingannata ed usata; perché in fondo Kenia non voleva far del male a nessuno, lei voleva solo giocare.
Una strana melodia acuta risuonò nelle orecchie della ormai tredicenne, facendosi sempre più pungente e costringendola a portarsi le mani sulle orecchie.
Delphi non le aveva mai mentito, invece; lui le lasciava sempre le ciambelle alla fragola a colazione, le rimboccava le coperte la sera e quando Kenia gli chiedeva di giocare a scacchi, lui non rispondeva mai di no, anche se doveva lavorare. E, soprattutto, le raccontava le favole più belle che Kenia avesse mai sentito. Non erano come quelle cattive di Kingsley, dove alla fine le faceva credere che il bene trionfasse sempre sul male; le favole di Delphi erano più malinconiche, rendevano Kenia sempre triste, ma non capace di staccarsi dal racconto, le facevano capire com’era la realtà e le raccontavano il vero, anche se a volte non avevano un lieto fine. Le favole di Delphi erano le verità, la vita vissuta con tutti i suoi imprevisti.
Kenia capì che quella musica acuta e assordante nella sua testa non era melodia, bensì era il tumulto di voci che urlavano, le voci di tutte quelle persone che lei era parzialmente consapevole di aver ucciso, che ora continuavano a perseguitarla e a cercare di riscattarsi. Voleva che cessassero, non voleva sentirle più. Basta, basta, basta… implorava, mentre cercava di trovare un po’ di pace.
Una bassa e dolce sinfonia, però, si fece pian piano strada fra quelle voci e Kenia la riconobbe come la ninna nanna che Delphi le cantava prima di dormire. Diede fiato alla bocca, cercando di ricordare le parole esatte.
« E questa storia non ha significato » iniziò e ad ogni parola sentiva sempre di prendere più il ritmo, mentre le voci si diradavano quasi fino a scomparire, « è come fare il vino col bucato. »
Tese una mano verso la maniglia della porta, per poi arrestarsi e prendere ad osservare Betty per bene. « E’ come dire buonanotte al muro » cantò, tastando la bambola di pezza.
Quando non sentì nulla pungerla, un orribile presentimento si insediò dentro di lei: l’ago non c’era. Era stato tolto.
Abbassò il capo, tendendo la mano sulla maniglia, tristemente.
Ecco, ora era sola come quando era nata; ecco, ora avrebbe portato sventura e morte come aveva sempre fatto; ecco, era meglio che la gente si allontanasse da lei, se non voleva altro che disgrazie. Ecco, alla fine anche Delphi le aveva mentito.
« E farsi un bagno nel cianuro. »
Kenia non ebbe neanche il tempo di pensare veramente, quando aprì la porta, sentì tutto e nulla nello stesso tempo: ogni cosa si arrestò, anche le voci nella sua testa, anche la sua melodia, nessun suono arrivava alle sue orecchie e gli occhi presero a bruciarle così forte che non vide più nulla, ma non ebbe neanche il tempo di chiuderli. Sentiva la pelle prendere fuoco, l’aria calda avvolgerla e non permetterle di respirare, mentre i suoi capelli diventavano paglia e velocemente scomparivano. Sentiva qualcosa nel petto che cercava di uscire, facendole male, lacerandola.
Non ebbe tempo di pensare alla nonna, né a Kingsley, né a Logan, ma a proteggere Betty fra le braccia come se ne valesse della sua stessa vita. E riuscì a chiedersi, un’ultima volta, perché anche l’unica persona che le era rimasta l’aveva ingannata. Come succedeva sempre, d’altronde.
Buon compleanno, Kenia!

 

 

La realtà attorno a noi è solo una delle infinite facce del dado.

(Leonardo Patrignani)















 



L'angolo di Pandaivols.

Salve a tutti, e benvenuti nel magico mondo di pandamito e Ivola. *sigla*
Do re mi fa sol la si. 
E queste erano le note, arrivederci e grazie.
E questo era il capitolo peggio sudato, lungo e spezzafeels della storia... per ora. Speriamo vivamente che i prossimi siano più corti visto che entreremo nella storia... si spera.
Ivola partirà per Dublino a bere birra e ubriacarsi come la barbona qual è, mentre Mito resterà a piangere a casa per non essere al Giffoni da Dylan O'Brien.
Se siete arrivati fin qui a leggere queste note, comunque, vuol dire che è passato tipo un giorno perché veramente per leggere sto capitolo vi sarete dovuti prendere vacanze dalle vacanze o qualcosa del genere.
Ora la domanda fatidica: qual è la vera Arena? E la vera Arena siamo sicuri che sarà la vera Arena e che in realtà quella vera non sia questa?
Io vorrei solo far notare che a volte vengono descritti dei vestiti che i tributi avevano indossato precedentemente per entrare nell'Arena e vorremmo che li teneste d'occhio.
Ebbene sì, il primo morto - per così dire - è Kenia. Anche se oramai con tutti questi morti dubiterei che anche lei lo sia. Ma c'è un motivo se è lei la prima sfigatella. Ovvero tempo fa vi avevamo chiesto quale fosse la prima cosa che vedono i tributi una volta in Arena e AriiiC_ fu la prima a rispondere correttamente, ovvero una porta, come anche dice il titolo del secondo tempo. Il punto è che le pandaivols decisero prima di annunciare l'indovinello che il tributo di colui che avesse risposto correttamente sarebbe stato il primo morto. Non siamo razziste, dai, non fino in fondo, almeno. Comunque sul gruppo facebook un giorno posteremo gli screen di tutte le prove della nostra lealtà(?), anche degli indovinelli futuri che a volte sono a trabocchetto, sì.
Ovviamente le scommesse che avete fatto non valgono, visto che non è il vero Bagno di Sangue, anche perché quando pubblicheremo il vero Bagno di Sangue le pandaivols cambieranno finalmente i loro nomi su facebook ed è per questo che ancora non l'abbiamo fatto.
Vi diciamo però che sono capitati molti casi in cui ciò che dicevate era inconsapevolmente uno spoiler oppure che le vostre ipotesi fossero giusto, però abbiamo notato che erano sempre quelle per prima scartate perché voi le ritenevate fin troppo assurde. Ecco, avete presente nel prologo quando Hidden dice che ci si può aspettare di tutto? Non stava scherzando, perchè ci saranno cose veramente che vi porteranno a credere che potrà accadere qualunque cosa.
Dopo l'avvertimento, vi consigliamo di continuare a leggere anche dopo, nel caso il vostro tributo morisse, perché il caro G. TremilaR Martina ci ha plagiato il metodo di scrittura e quindi noi meglio di lui diciamo che non è mai detta l'ultima parola e che inoltre i tributi - anche quelli porti - potranno avere influenza nella storia, ma leggerete meglio con i capitoli che verranno, per comprendere poi il tutto finale.
Inoltre ricordate che dovete cercare di ottenere sponsor per il vostro protetto e non tributo. Lov lov.
Mito vorrebbe anche sputtanare Ivola dicendo che si è cagata sotto a scrivere di Phoebe e Nate e di fatti non voleva che Mito l'abbandonasse perché aveva paura ed era da sola a casa, al buio. Ora potete scommettere su chi ha scritto quale pezzo.(?) Che poi penso si possa pure fare come scommessa... uhm.
Ecco, infatti volevamo precisare che non ci sarà un indovinello qui per il prossimo capitolo, solo vi ricordiamo di fare scommesse e cercare di ottenere sponsor per i vostri protetti. E ottenere punti sponus! (?) Perché anche se non rispondiamo alle recensioni perché abbiamo da fare tipo scrivere capitoli Ocean-ici tipo questo o drogarci, sappiate che le leggiamo e che vanno tutte a vostro favore.
Questo capitolo inoltre è stato confusionario, ma scritto a posta così in modo tale che vi sentiste spaesati, proprio come i vostri tributi, un po' come abbiamo già fatto per la sfilata. 
E... avete notato chi fa la comparsa? A parte Jimmy, lui è il peggio figo e si shippa sia con Lisa che con Haylee e Haylee a sua volta si shippa con Messer Coniglietto. Ora ringraziamo John Stephens e L'Atlante di Fuoco per il nome dato al peluche.
No, comunque, quelle bellissime due comparse sono Panda 1 e Panda 2, tipo Coso 1 e Coso 2 del film "Il gatto e il cappell matto" che se non avete visto proprio non avete una vita visto che è della Dreamworks, il Gatto è interpretato da Jim Carrey ed è ispirato al libro del Dr. Seuss che ha scritto anche Il Grinch, Lorax e... *Mito viene trascinata via perché si è appropriata dello spazio autore e si vede*
Infine, ultimo omaggio, citazione o come volete chiamarla, è proprio Jimmy, che è un personaggio di Freaks! e se non avete visto Freaks! allora fate proprio schifo e che ci parlate a fare con noi. Io ve l'ho sempre detto che dovete vedervi Freaks! per capire come va la vita- *Mito viene trascinata di nuovo via e Ivola la picchia*
Un giorno vi faremo vedere anche tutti i nostri bloopers di come ci sono venute le idee, che sempre ci vengono per sbaglio e molto ma molto spesso a causa (o grazie?) alla nostra dislessia.
Siccome ora non ce la fate più a leggere vi diciamo solo tanti auguri (soprattutto a Chenia col ci-acca) a tutte le persone per cui volevamo pubblicare il capitolo come regalo di compleanno, tipo darkangel98, Clary1835, JadenJD e non ricordiamo se ce ne sono stati altri e se ce ne sono stati auguri in ritardo anche a loro. Perché le pandaivols sono sempre in ritardo solo perché si devono far desiderare. (Ma dove?)
Mi raccomando, guidate piano! [cit.]
Ah, ok, ultimissimissima precisazione è che il compleanno di Kenia è il 22 Giugno quindi sì, il Bagno di Sangue si svolge il 22 Giugno. Una curiosità che in realtà non volevate sapere.

 
Bao e cotolette... O dovremmo dire "viene notte e cavaliere"? #spoiler
 
pandaivols.

 
  
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