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Autore: Flami Destrangis    21/07/2014    2 recensioni
Durante la presentazione dell'ultimo libro di Yusaku Kudo a Tokyo, a seguito di un errore Conan torna a rivestire i panni di Shinichi, risolvendo il macabro caso di omicidio in cui si trovano implicati. Nonostante cerchi come al solito di nascondere la sua comparsa, il giorno successivo sul giornale compare una foto della serata in cui sono ritratti lui e Ran. La nuova apparizione del detective liceale più famoso del Giappone sembra destare molto interesse: ma, allo stesso tempo, smuoverà le acque di una storia che non tutti vogliono riportare a galla.
“Mi piacerebbe correre fuori, lavarmi tutto di dosso. Lasciare scorrere sulla pelle ogni problema, ogni preoccupazione, ogni maschera e ruolo ed essere soltanto l'uomo che c'è oltre questo paio di occhiali e quella cravatta che mi piace tanto portare. Che cosa resterebbe secondo te?”
Il padre sembrò lanciargli uno sguardo disperato, come a chiedere aiuto. Come se avesse davvero paura che potesse non rimanere più nulla oltre tutto quello che ogni giorno lo ricopriva. Conan sorrise appena e gli porse la copia di "In bianco e nero" che teneva in mano.
“Ma che domande sono, papà. Lo sai anche tu: resterebbero i tuoi libri"
Genere: Drammatico, Generale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Gin, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In bianco e nero

 

 

 

Se me ne restavo lì era perché cercavo di provare il senso di una specie di addio.

Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando.

E' una cosa che odio. Che l'addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando.

Se no, ti senti ancora peggio.

(Salinger, “Il giovane Holden”)

 

 

 

7. Strumenti del proprio mestiere

 

 

 

Il cielo bagnato offuscava le luci dell'universo. Ora, nel pieno di una notte che scrosciava senza sosta, la metropoli sfavillante appariva oscurata, dormiva ripiegata su se stessa, avvolta da un sonno profondo. Le poche anime che barcollavano per le strade scivolose non bastavano a destarla. Ce n'era una di anima, piccola e invisibile nonostante fosse stata forse la più ricercata in quella giornata altalenante tra nuvole grigie e azzurri squarci di cielo. Leggera, quasi pattinava sull'asfalto bagnato, ogni attrito era scomparso e correre più forte avrebbe voluto dire solo continuare a cadere. L'anima sperduta si appoggiò all'intonaco zuppo di un palazzo, riprese il fiato che non aveva mai sprecato. Guardò in basso, le scarpe erano diventate due barche piene di acqua: aveva la sgradevole ma veritiera sensazione di affondare ad ogni passo. Si chinò e le sfilò a fatica, mentre la pioggia gli martellava senza pietà la camicia ormai fusa alla schiena magra e bianca. Era quando sentiva il peso di quella fatica che si accorgeva di essere ancora un ragazzo, e non un'anima smarrita vagante per la città fantasma. Quando il fardello delle emozioni e dei rimorsi lo schiacciava da dentro era come se il corpo stesse per scoppiare, ma non esplodeva mai e tutto finiva per collassare dentro di lui di nuovo, come in un enorme buco nero, scintillante nel suo oscuro mistero. Afferrò le scarpe e, prima di ripartire, alzò gli occhi sulla volta che lo sovrastava: non vide niente, se non acqua sulle pupille. Il cielo si illuminò, poi rombò, e lui si rimise in cammino. Non ci vedeva bene. La notte precedente aveva perso i suoi occhiali in quel fiume in cui aveva cercato rifugio, e che l'aveva crudelmente riconsegnato al mondo a cui lui aveva già detto addio. Trovare il coraggio di dire addio non è mai semplice: e quando la vita tradisce i tuoi sforzi, riportandoti nello stesso luogo che sai dover abbandonare di nuovo prima o poi, allora rincominciare a salutare è ancora più difficile. Una macchina gli sfrecciò accanto, ma parve non accorgersi di quella piccola figura oscillante a lato della strada. Era troppo sottile, infinitamente coperta da quel mantello di acqua. Continuava a barcollare appoggiata ad ogni cosa trovasse, in cerca di una piccola luce che potesse dargli la sua strada. Quando sbucò da quell'intrico zuppo di vie, i suoi piedi scalzi scivolarono appena sull'asfalto di un'enorme strada che correva a lato del fiume nero e traditore. Ebbe l'istinto di correre, ma quella poca fradicia lucidità che gli era rimasta gli suggerì che non sarebbe servito a niente. Si guardò intorno. In fondo al cuore, c'era qualcosa che stava cercando, il suo non era un vagare senza meta né sosta. Avrebbe ripetuto il suo copione, forse meno acclamato del giorno precedente, ma comunque ugualmente intenso. Sarebbe stato l'ultimo spettacolo senza pubblico, con solo una città ovattata intorno che, coperta da quella pioggia, non avrebbe comunque potuto vederlo. Ma non gli importava, tutto era già durato troppo a lungo, e non vedeva in quella fortuita coincidenza che gli aveva permesso di vivere più a lungo nessun segno del destino. Semmai quello era uno scherzo, e per niente divertente. Avrebbe riposto nuovamente fiducia in quelle acque torbide, e questa volta sarebbe andato tutto solo e semplicemente come doveva andare. Si incamminò, strizzando gli occhi per mettere a fuoco meglio quello che lo circondava. Cercava tante piccole lucette in fila tra acqua e cielo: nient'altro gli serviva per scrivere di nuovo la parola fine. Si accostò al fiume, e guardò prima l'acqua, poi i suoi piedi scalzi, poi le scarpe che teneva in mano, poi ancora l'acqua, poi l'asfalto, poi la città, poi tentò di scorgere le stelle, poi l'acqua sopra di sé, poi lanciò le scarpe nel fiume con un grido strozzato e provò a guardare dentro se stesso. Tremò, né di paura né di freddo. Forse di sconforto. Gli sembrò di distinguere una chiazza ancora più scura muoversi trasportata dalla corrente, e camminò nel verso opposto rispetto alle sue scarpe. In fondo, distante, gli parve di scorgere le lucette che andava cercando. Fu una lunga camminata, ancora più lunga di quel giorno passato all'ombra della luce. Ripensò a quando si era svegliato, con l'acqua che gli bagnava ancora le scarpe e il viso immerso nella rada erba che cresceva vicino al fiume. Si era guardato intorno, e per un attimo aveva creduto nell'aldilà. Poi era arrivato un rumore, un altro ancora, e appena la mente aveva recuperato i suoi sensi, aveva compreso che no, quella era ancora la vita che si era aggrappata a lui con tutte le sue potenti e incomprensibili forze. Ed era rimasto lì per un po', a chilometri di distanza dal luogo in cui aveva pronunciato il suo addio, steso nell'erba più rada delle sue forze ad ascoltare le lacrime silenziose che gli scorrevano sulla pelle e il sole che lo accarezzava, asciugandolo con dolcezza. Era stato come vedere improvvisamente il mondo prendersi cura di lui, e per un attimo era stato assalito da un amaro senso di colpa per aver rifiutato una natura che ora sembrava averlo accolto con tenerezza nel suo seno. Ma quando poi aveva mosso i primi passi nel mondo vero, aveva capito di nuovo che lì non c'era posto per lui. Non era quello che voleva, non era quello che desiderava. Si era nascosto, lontano da tutti, e aveva pensato a quanto migliore sarebbe forse stato quel pianeta senza l'uomo ad infestarlo con i suoi mostri di cemento. E aveva pianto, di nuovo e ancora. Forse era per quello che, quando si ritrovò a costeggiare di nuovo quel fiume, non versò neppure una lacrima: non ne aveva più.

Vide, finalmente, quello che cercava. Il maestoso seppur stretto ponte di pietra acceso dalle miriadi di lucette artificiali. Non accelerò, non spinse di più i suoi piedi sull'asfalto: non c'era nessuno, non c'era fretta. Sarebbe stato tutto molto più silenzioso, un'esplosione interiore che avrebbe travolto lui solo e di cui nessuno si sarebbe accorto. Constatò con una punta di disagio  come la sua morte non sarebbe stata molto diversa dalla sua vita. Ma anche allora non pianse. Continuò solo a camminare, guardando fisso verso quelle luci offuscate. Era quasi arrivato. Si fermò. C'erano delle sbarre, delle transenne che bloccavano il passaggio. Non era possibile percorrere il ponte. Eppure non c'era nessuno a controllare l'accesso, nessuno aveva voglia di bagnarsi fino all'ultima goccia di anima in quella notte tuonante. Che senso aveva preoccuparsi delle regole di una società da cui si era già congedato e a cui stava per dire di nuovo addio? Scavalcò le transenne, scivolando. Si rialzò, e continuò a camminare su quel ponte, calpestando con la propria pelle le pietre aguzze. Per un istante ebbe paura di morire solo, senza nessuno. C'era qualcuno, in quel momento, che stava pensando a lui? Gli tornò alla mente il viso del padre, poi l'immagine sfumò, e arrivò quella di un uomo con gli occhiali e i baffetti, una mano protesa e lo sguardo triste, triste per lui. Qualcosa gli scaldò il cuore, e l'ultimo barlume di paura scomparse. Ricordava il punto da cui si era lasciato andare la notte prima, e voleva tornarci, voleva chiudere ancora una volta gli occhi e immaginare le stelle che non avrebbe potuto vedere prima di cullarsi in un addio definitivo. Era convinto di essere solo, eppure scorse una figura. Non la distingueva bene, era un enorme chiazza nera, e per un attimo pensò solo che fosse una sbavatura di inchiostro in quel dipinto meraviglioso. Lì, esattamente tra i due lampioni, appoggiata alla balaustra, solo una piccola imperfezione. Si avvicinò, lasciando scivolare il palmo della mano sul muretto mentre camminava. E quando fu a pochi passi, percepì la vitalità di quello spruzzo di nero. Era un uomo. Un uomo che se ne stava sulle sue, vestito di nero, guardando di tanto in tanto l'orologio, bagnato fradicio, faceva tamburellare nervosamente il piede sul pavimento. Non si era accorto di lui? Non disse niente, stesse a guardarlo con gli occhi spalancati, chiedendosi se forse avrebbe potuto trovare una complicità in quell'altra anima solitaria che aveva trovato lì, esattamente dove aveva creduto di essere da solo. Per lo meno, qualcuno avrebbe assistito alla sua morte, e doveva ammettere che in parte questo lo confortava. D'un tratto, l'Uomo Nero si girò. Portava degli occhiali da sole, ma il ragazzo non lo trovò buffo. Non c'era niente di strano, tutto era una propria scelta. Poi l'Uomo Nero parlò, sovrastando la pioggia in una sorta di grugnito.

“Ma tu guarda.”

Il ragazzo capì all'istante che non avrebbe mai trovato complicità con una voce del genere. Ci mise un altro attimo a capire che quell'uomo non gli piaceva. Si sentì solo contro l'infinito.

“Buonasera.” bisbigliò. Si rese conto che non pronunciava parola alcuna da un giorno, e la voce era ridotta ad un soffio. Probabilmente l'Uomo Nero non aveva nemmeno sentito. Il bestione sfilò dalla tasca un cellulare, ben attento a coprirlo con la sua giacca per non farne bagnare lo schermo. Fissò il ragazzo, poi lo schermo, un altro grugnito e infine ripose il cellulare in tasca.

“Direi che sei proprio tu. Il nostro piccolo attore che si è messo in testa di recitare un copione troppo difficile per lui. Com'è che ti chiami? Arthur, dico bene?”

Il ragazzo mosse un passo indietro d'istinto. L'istinto della vita che non lo abbandonava anche quando aveva deciso di troncarla.

“No no, non devi di certo avere paura. Non fissarmi con quegli occhioni sbarrati. Non sai quanto sia contento di averti trovato senza tanta fatica. Sei venuto da solo da me, e non avresti potuto farmi regalo migliore.”

Si rizzò in piedi. Un lampo illuminò la loro conversazione.

“Ma tu guarda che tempaccio. Che ne dici di fare due chiacchere in un posto più tranquillo?”

Al ragazzo sembrò di vedere un sorriso sadico dipinto sul volto dell'Uomo Nero, ma forse era solo immaginazione. Il tuono rombò, e poi fu tutto nero e rumore di acqua, e infine solo nero e silenzio.

 

 

 

 

“Stai fermo un secondo Shinichi, altrimenti non riuscirò mai a fare un buon lavoro!”

Yukiko, china sul figlio, era intenta in una delle sue magistrali opere di trucco. Sorrideva compiaciuta nel vedere come, sotto le sue pennellate veloci e precise, il volto del bambino stesse a poco a poco cambiando fisionomia.

Conan non rispose, si limitò a cercare, per quanto possibile, di non muoversi. Stare lì, immobile, senza poter battere ciglio, era per lui una tortura quasi insostenibile: sentiva il corpo chiedergli a gran voce un piccolo movimento, anche il più impercettibile. Inoltre, doveva ammetterlo, vedere su di sé una persona che non aveva più l'aspetto di sua madre ma ne possedeva ancora la voce, lo faceva sentire un po’ in soggezione. La donna aveva ora lunghi capelli neri così perfettamente portati da sembrare quasi i suoi, e un trucco così ben studiato sugli occhi da rendere quelli dolci e vispi di Yukiko praticamente irriconoscibili.

Il figlio era il suo ultimo lavoro. Prima di lui, erano passati sotto le sue abili mani Yusaku e Ai, e ne erano usciti rispettivamente senza baffi, con un dito di barba e di fondotinta lui, e con un'adorabile caschetto biondo e un'abile passata di fard e mascara lei. Mentre Conan era sotto i pennelli, i due si guardavano straniti allo specchio.

“Non mi sono mai truccata tanto in vita mia, nemmeno quando avevo l'età giusta per farlo.” diceva Ai, forse più a se stessa che ad altri, osservando le ciglia rifinite. Doveva ammettere che, così, sembrava una ragazzina totalmente diversa. Quel trucco la rinvigoriva, rendeva rosse le sue guance pallide per la nottata insonne appena trascorsa, e copriva con una brezza di spensieratezza i pensieri cupi che portava dentro.

“Appena tutto questo sarà finito, mi occuperò personalmente di insegnarti qualche trucchetto.”

La voce compiaciuta di Yukiko preoccupò Conan, che temeva di ritrovarsi da un momento all'altro una striscia arancione di fondotinta fuori posto.

“Non ti distrarre.”

“Non ti fidi di tua madre? Lo sai che in certe cose non mi batte nessuno.”

“Direi che hai decisamente ragione.” affermò Yusaku. Si avvicinò con il viso allo specchio, come a guardarsi meglio. Lo strato di trucco nascondeva in parte anche le occhiaie marcate, ma ciò che lo colpiva di più era l'assenza dei baffi: li aveva portati per così tanti anni che non ricordava più come fosse essere senza. Toccò appena la barba finta, che gli dava non poco fastidio. Per fortuna presto o tardi la sua sarebbe cresciuta, salvandolo da quel tormento punzecchiante. Si accorse allora che Yukiko aveva lasciato per un attimo da parte il viso del figlio, e lo stava fissando nello specchio che aveva di fronte.

“Forse dovresti togliere gli occhiali, e portare le lenti a contatto. Sarebbe il tocco finale.”

Yusaku non rispose, si limitò a sfilare gli occhiali dal volto e guardarsi nuovamente. Di chi erano quegli occhi che lo stavano fissando senza battere ciglio? Non gli sembrarono i suoi. Ebbe un attimo di indecisione, e come a confortarsi disse piano: “Andrà tutto bene.”

“E' quasi l'alba.” intervenne Ai. “Dobbiamo sbrigarci. E' meglio andare via prima che sorga il sole.”

“Com'è la situazione fuori?”

“Ho controllato da ogni finestra della casa, in tutte le possibili angolazioni. Per strada non c'è nessuno. La città sembra deserta dopo il temporale di stanotte. Solo silenzio e pozzanghere.” rispose Yusaku. Poi aggiunse: “Mi ricorda un po' una poesia che ho letto una volta.”

“Che poesia?” chiese Yukiko, assorta nel curare ancora un po' gli zigomi del figlio.

“Fu scritta da un poeta italiano. La quiete dopo la tempesta. Il suo nome era Giacomo Leopardi. Un vero peccato non poterla leggere in lingua originale.”

La sua constatazione restò infine sospesa nel vuoto. La moglie era ancora troppo assorta negli ultimi ritocchi, il cervello di Conan lavorava solo sulle preoccupazioni di Shinichi, e Ai si chiedeva se, davvero, la macchina che aveva visto quella notte fosse stata solo frutto della sua immaginazione. Nessuno si soffermò più di tanto su quella poesia, che cadde dimenticata all'affermazione successiva. Forse nemmeno Yusaku ci pensava davvero, forse era solo un diversivo per immergersi ancora qualche minuto nel suo mondo d'arte, e lasciare da parte quello vero.

“Non c'era niente?” chiese titubante Ai.

“No. Solo qualche macchina parcheggiata a lato della strada, ma.. insomma, è una cosa normale. Non cadiamo nell'errore di cominciare ad allarmarci per qualsiasi cosa.”

“Mio padre ha ragione, Ai.” aggiunse Conan, osservando allo specchio il lavoro della madre, la quale se ne stava lì, accanto a lui, il piccolo pennello ancora in mano, e aspettava con la soddisfazione dipinta sul volto il responso del figlio. Ma Conan aveva tralasciato il suo viso per concentrarsi su quello della biondina, che lo specchio rifletteva esattamente dietro di lui. Ai teneva lo sguardo basso e di tanto in tanto si torturava senza pietà la dita, rigirandole e stuzzicando le unghie. Conan capì subito che c'era qualcosa che la preoccupava. Qualcosa in particolare.

“C'è qualcosa che devi o vuoi dirmi?” le chiese. Continuava a guardarla dallo specchio.

Ai alzò lo sguardo a fissarlo. I due adulti attendevano immobili la risposta.

“No.”

Il suo viso si distese, e cercò di tranquillizzarsi. Non voleva allarmare gli altri inutilmente: in fondo, se Yusaku aveva controllato più e più volte, la probabilità che quanto visto da lei fosse stata solo suggestione aumentava esponenzialmente. Non c'era niente di cui preoccuparsi: o meglio, non c'era niente per cui preoccuparsi più di quanto bisognava inevitabilmente fare.

“Bene, allora.” esclamò Yukiko un po' nervosamente, per spezzare l'ennesimo silenzio che si era instaurato in quella strana famiglia. Era dal giorno prima che quegli attimi di gelato, imbarazzato e nervoso silenzio si insediavano a tratti tra di loro, paralizzandoli come attori disorientati su un palcoscenico sconosciuto. Ognuno aveva i suoi pensieri in testa, ognuno sapeva che la situazione avrebbe potuto degenerare da un momento all'altro oppure risollevarsi come se niente fosse successo, e allora avrebbero dovuto ricominciare nuovamente da capo. Ma qual era la possibilità migliore? Prendere di nuovo la scappatoia oppure sperare che quella surreale condizione si concludesse una volta per tutte? In fondo, gran parte della loro normalità era già stata compromessa: se gli Uomini in Nero non si fossero fatti vivi, quale spiegazione avrebbe fornito Shinichi a Ran dopo averla strappata dalla sua vita a causa di un allarme poi rivelatosi inutile? Forse sarebbe arrivato il momento di dire la verità? E Ai e Conan sarebbero tornati di nuovo tra i Detective Boys dopo un'assenza forse estremamente prolungata? Che cosa avrebbero detto loro? Per il momento sarebbe stato simulato il ritorno in America di Yusaku Kudo e della moglie, e il dottor Agasa avrebbe detto che Conan e Ai li avevano seguiti, per un breve soggiorno negli Stati Uniti. La bugia era stata costruita in poco tempo, e non avevano potuto inventarne una migliore.

“Avete preso le vostre cose?” aggiunse ancora Yukiko.

All'ingresso, vicino alle scarpe ordinatamente riposte, vi erano due borse di media grandezza. In una vi era ciò che Yukiko e Ai avevano deciso di portare con sé, l'altra era quella di Yusaku e Conan. Qualche vestito, il minimo indispensabile e nessuna fatica per riuscire a chiudere la cerniera lampo, il che è un grande traguardo per qualsiasi valigia. Sembravano pronti per una breve partenza, una normale famiglia che decide di prendersi qualche giorno di pausa dalla città. Eppure non c'era niente di normale nella loro situazione. Prima di tutto, non erano propriamente una famiglia. In secondo luogo, i due bambini non erano realmente tali, e tutti e quattro non mostravano il loro vero volto, ma solo quello di una maschera abilmente costruita. Infine, non stavano assolutamente partendo per una vacanza: non sapevano quando e se sarebbero tornati, e questa era forse la sensazione peggiore che potessero provare. Guardando quelle mura, non sapevano se il loro fosse un addio o un semplice arrivederci. Non sarebbe stato giusto esserne consapevoli, se avessero dovuto dare un ultimo saluto all'orologio che ticchettava senza mai stancarsi su quel tavolo, avvertendoli quando erano stati in terribile ritardo, allo specchio che li aveva riflessi quando avevano avuto bisogno di un'ultima conferma, alla scarpiera che aveva sempre porto loro le scarpe adatte per il vestito adatto, a quell'enorme libreria che aveva offerto loro le pagine giuste per staccare dalla realtà, a quel divano che li aveva accolti quando erano troppo stanchi per camminare ancora, e a quella porta che per loro era e sarebbe stata sempre aperta? Erano lì, senza dire una parola, accanto a quei due borsoni appoggiati sul pavimento, in un silenzio complice che li avvicinava più che mai. E Ai, seppure avesse conosciuto da poco quelle mura, sentiva dentro di sé di provare le loro stesse emozioni: era una strana sensazione, così forte da stordirla e farla sentire cullata allo stesso tempo; farla sentire accolta, protetta, amata proprio da quelle persone che forse avrebbero dovuto odiarla più di tutti perché in fondo, sì, in fondo era partito tutto dal giorno in cui aveva completato quel dannato farmaco. Strinse istintivamente la mano di Conan e quando il bambino si girò a guardarla, lei si sciolse in un sorriso che era un involontario miscuglio di tristezza, gioia e malinconia. A Conan sembrò che quello sguardo e quelle labbra chiedessero solo perdono: ma da perdonare non c'era assolutamente nulla. Ricambiò la stretta e il sorriso, sicuro di sé. Non aveva paura di quello che avrebbe affrontato: non era da solo. Guardò suo padre, lì ritto accanto a lui. Stava riponendo un blocchetto e una penna nel taschino della camicia a quadri. Li portava sempre con sé gli strumenti della propria arte: una penna, un taccuino e la fantasia.

“Sarebbe meglio uscire dal retro.”

Gli altri annuirono. Yusaku e Yukiko presero le borse, e si incamminarono. Fu la donna a dire le solite frasi di circostanza, del tipo: “Abbiamo spento tutte le luci? Hai staccato la televisione del salotto?”

“Non stiamo partendo per un viaggio, mamma.”

“Oh beh, lo so.” disse lei, sorridendo. “Però è bello crederlo.”

“Sei sempre la solita, con te non ci si annoia mai.” le sorrise Yusaku, dandole un buffetto sui capelli.

“Ehi, attento alla parrucca!” lo ammonì, controllando immediatamente se fosse tutto a posto.

“Ops, scusa, mi devo ancora abituare ad essere conciato come un clown.”

Ci fu un istante di silenzio, in cui si guardarono l'un altro, e poi scoppiarono tutti e quattro a ridere. Una risata liberatoria, di sfogo, di ilarità di fronte all'assurdità di quella situazione che non faceva comunque perdere loro il piacere di stare insieme. Fu così che, alla fine, lasciarono quella casa, senza sapere se le stavano realmente dicendo addio. Ma in fondo che cosa potevano essere quelle mura, per quanto care? Era di gran lunga più importante essere insieme. Richiusero la porta sul retro senza dire una parola, in silenzio, ma comunque tranquilli in fondo al loro cuore. Avevano appena vissuto uno di quegli istanti in cui ci si rende conto che alla vita, per quanto imprevedibile e stramba, ci si tiene davvero. E nonostante tutto, la vita era bella, era bella sul serio. Non si voltarono indietro a riguardare quell'edificio, nessuno di loro lo fece. Ora come ora, bisognava solo guardare avanti, in direzione di un futuro ignoto che era lì, in attesa solo di essere vissuto.

Non si accorsero che, qualche metro più indietro, una sagoma avvolta in un paio di jeans e una felpa scura li stava osservando: il cappuccio ben calato sul viso, per non lasciar scorgere i propri occhi. Li fissò incamminarsi, ma non si mosse; affondò le mani nelle tasche della felpa e restò lì, immobile, come a riflettere sul da farsi.

 

 

 

La prima sorpresa per quell'insolito gruppo di viaggiatori arrivò appena svoltato l'angolo. C'era un uomo, basso e dal fisico robusto, appoggiato ad un lampione. Fissava l'orologio e si guardava intorno, vestito con abiti assolutamente normali (per quanto possa significare tale termine) e con l'aria di non essere lì per caso. Nessuno dei quattro l'avrebbe forse riconosciuto se non avesse notato i folti baffi nel viso tondo dell'uomo.

“Ispettore Megure?” bisbigliò Yusaku. Nella via regnava un silenzio surreale, e solo il cinguettare dolce degli uccelli che annunciavano il giorno lo rompeva. Era il suono della natura, e lo scrittore non volle intromettersi, per quanto sentisse forte dentro di sé di farne lui stesso parte. Ma c'era dell'altro, c'era anche la paura di avere addosso occhi e orecchie indiscrete a cui non volevano far percepire nemmeno una briciola dei loro pensieri.

L'ispettore sembrò riscuotersi e si voltò verso di loro. I suoi occhi stanchi e assonnati si fissarono sull'amico che, così truccato, non venne subito riconosciuto.

“Sono io, ispettore, Yusaku Kudo. Che ci fa qui a quest'ora?”

Megure sgranò le palpebre: quello era Yusaku? Perché era travestito in quella maniera? E la donna accanto a lui, era Yukiko? E quei due bambini, invece?

Quella notte non era riuscito a dormire: il pensiero della strana richiesta del suo amico scrittore lo tormentava. A che caso stava lavorando Shinichi? Perché una stupida foto che lo ritraeva in compagnia di Ran poteva compromettere tutto al punto da mettere in pericolo la vita della ragazza stessa e del padre? E Shinichi, dov'era finito? Era sempre al lavoro sullo stesso caso fin da quando era scomparso? C'era qualcosa che puzzava in tutta quella storia e, per quanto Megure si fidasse di Yusaku, non si poteva chiedere ad un ispettore di collaborare senza sapere niente di più. Lui doveva capire, comprendere almeno i punti cardine di quella storia. Il giorno precedente Yusaku gli aveva detto che sarebbero con tutta probabilità tornati negli Stati Uniti, e di occuparsi della fuga momentanea di Ran e Kogoro: ma l'ispettore non ci aveva creduto, almeno non del tutto. E così, dopo ore insonni a pensare ed ascoltare il respiro tranquillo e regolare della moglie in mezzo ai tuoni che devastavano la città, si era alzato piano, aveva preso in punta di piedi i primi vestiti che gli erano capitati, ed era uscito, tra le pozzanghere e  i rimasugli di quel terribile temporale. C'era qualcosa, in fondo al suo intuito da investigatore, che gli diceva: il tuo posto adesso è lì, vicino casa di Yusaku. O forse non era un ispettore in quel momento. Vestito in borghese, era solo un amico preoccupato che voleva aiutarne un altro. E il suo posto ora era lì, vicino a quella persona di cui si fidava ma che non aveva il coraggio di abbandonare.

“Ma come vi siete vestiti? Perché questo travestimento? Lei è.. Yukiko?” chiese di rimando e, senza aspettare risposta: “E questi bambini?”

Conan rifletté per un attimo se fosse il caso di mostrarsi o meno. In fondo, che pericolo poteva esserci? L'ispettore era senza dubbio una persona fidata. E comunque, anche a Ran avrebbero detto che lui si trovava con i genitori di Shinichi. Si stranì un attimo nel pensare di sé in terza persona, ma scacciò via quella sensazione che non poteva che distrarlo.

“Sono io, ispettore.” fece dire alla sua vocina da bambino. Di chi ci si fidava bisognava fidarsi del tutto. Erano pochi gli amici, e dovevano esserlo fino in fondo. Almeno, riguardo a quello che potevano dire. Il grande segreto da non rivelare per niente al mondo era la sua vera identità: quella no, quella andava tenuta nascosta, perché era il fulcro attorno a cui tutto ruotava. Non saperne nulla era fonte solo e soltanto di protezione.

“Conan? Ma.. cos'è questa storia? Dove state andando?”

Yukiko e Yusaku si guardarono un attimo prima di rispondere. Fu una strana scena: improvvisamente erano una famiglia come le altre, in cui spettava ai genitori prendere le scelte, mentre i figli, dal basso della loro posizione, con il naso all'insù aspettavano i responso degli adulti.

“E' una lunga storia.”

La solita, patetica scusa di quando non si vuole raccontare qualcosa.

“Non è un problema.”

“Non posso raccontarle tutto, ispettore, mi dispiace.”

“Perché?”

Yusaku si morse nervosamente il labbro inferiore, come a trattenere le parole. Sentiva che l'ispettore non voleva altro che aiutarlo, eppure allo stesso tempo sapeva che su certi spezzoni di quella strana storia era meglio tacere. Percepiva su di sé lo sguardo ferito di un amico. No, forse era peggio: era lo sguardo di un amico che non riusciva a comprenderti. E non c'è cosa peggiore.

“Io voglio solo aiutarvi.” aggiunse Megure.

“Lo sappiamo, lo sappiamo benissimo, ispettore.” intervenne Yukiko. Aveva la straordinaria capacità di capire quando il marito avesse bisogno di aiuto e di parlare esattamente allora, senza un minuto di ritardo né un attimo di anticipo. Si sorreggevano l'un l'altro, si aiutavano a vicenda, si sentivano sempre e comunque più vicini che mai: e se la coppia perfetta non esisteva in nessun metro quadro di quel pianeta, loro ci andavano comunque molto vicini.

“Però, vede..” continuò, e tentennò un attimo prima di concludere la frase: “Anche noi a modo nostro non vogliamo altro che aiutarla. Il caso in cui si è cacciato Shinichi è complicato, e per ora è meglio che le acque stiano calme. Loro non devono sapere che li sta inseguendo ancora.”

Loro chi?”

“Di preciso non lo sa nemmeno lui.”

“Ma che storia è questa?”

“Ispettore, la prego.” riprese la parola Yusaku, mentre Ai e Conan erano sempre lì. In quella situazione non avevano voce in capitolo, davanti all'ispettore loro non erano direttamente coinvolti nella vicenda.

“Glielo giuro, non è facile per nessuno di noi. Shinichi era sulle tracce di alcuni criminali, quando è improvvisamente sparito agli occhi del mondo. Sta cercando di indagare nell'ombra, per avere più possibilità di successo. La foto che è comparsa nei giornali potrebbe finire davanti ad occhi indiscreti: per questo bisogna proteggere Ran, che era con lui nella foto. E noi dobbiamo sparire dalla circolazione per un po'. Sono persone senza scrupoli.”

L'ispettore sembrava sconcertato. Quante cose erano successe a sua insaputa in tutto quel tempo? Di quanti particolari non si era accorto? Tutto ciò che sapeva era che Shinichi non voleva farsi vedere in giro: perché non si era interrogato di più, chiedendosi come mai il giovane detective, così sicuro di sé e amante delle prime pagine, avesse improvvisamente deciso di agire lontano dagli occhi della stampa? Per un attimo sentì addosso il peso di un enorme fallimento; l'attimo dopo, aveva già deciso che era il momento di rimettersi in carreggiata.

“Come pensi che possa mettermi da parte dopo aver sentito tutto questo? Dov'è ora Shinichi?”

Conan lo fissò, e per un istante ebbe l'impulso di gridare al mondo: Sono qui, sono io! Possibile che nessuno lo capisca? Ma sentì la mano di Ai tirargli la maglietta. Lei capiva sempre tutto in quelle circostanze: forse perché era l'unica che quella situazione poteva comprenderla fino in fondo. E quando si trattava del rapporto tra Conan e Shinichi, sapeva in anticipo tutto quello che sarebbe accaduto, e guardava lo scorrere degli eventi anticipandoli un secondo prima con la mente, come rileggendo un libro già letto o riguardando un film già visto.

“Non posso dirglielo.”

“Ma voi lo sapete?” insistette ancora l'ispettore.

Yusaku non rispose alla domanda. Si limitò a dire: “E' meglio così, si fidi di me.”

Megure comprese che non poteva fare altro. Il suo amico era fisso nel suo intento, e se riteneva che fosse meglio nascondergli qualcosa, doveva avere i suoi buoni motivi. Yusaku non era il tipo da agire a caso: alle volte forse era un po' bizzarro ed estroso, amante dei suoi libri e di quelli altrui, appassionato di gialli e di casi interessanti per quanto tragici, ma non si poteva certo dire che non avesse la testa sulle spalle. Non gli restava che fidarsi.

“Posso fare qualcosa per voi?”

“Non vogliamo coinvolgerla.”

“Dove state andando? Lasciate la città?”

“In realtà, no. Vorremmo rimanere nelle vicinanze.”

“E dove starete?”

“Ce la caveremo, come abbiamo sempre fatto.” rispose Yukiko, con un sorriso tranquillo.

L'ispettore sembrò improvvisamente ricordarsi di qualcosa, e socchiuse gli occhi massaggiandosi il mento e i baffi. Sembrava stesse valutando una serie di opzioni, per decidere infine quale fosse la migliore. Dopo un minuto buono, fissò la famiglia improvvisata e disse: “Se avete intenzione di restare a Tokyo, forse so come darvi una mano. Per voi sarebbe meglio non farvi vedere in giro o in alberghi, anche di poco conto, se davvero la situazione è così rischiosa. Ho un secondo appartamento in città, e per ora non è in affitto. E' a qualche fermata della metro da qui: se siete d'accordo, potrete alloggiarvi fin quando lo riterrete opportuno.”

Yusaku e la moglie si guardarono nuovamente, in cerca di un assenso reciproco, e questa volta interpellarono con gli occhi anche i due bambini. Alla fine sorrise all'ispettore, ringraziandolo.

“Non so davvero cosa dire: lei è un vero amico.”

E gli porse la mano, che Megure strinse calorosamente. Aiutare qualcuno a cui si vuole bene provoca sempre quel piacevole sollievo al cuore. E' una sensazione strana, ma gradevole, che ci fa sentire, in fondo, terribilmente soddisfatti di noi stessi.

“Non c'è di che, per tutte le volte che siamo riusciti a risolvere un caso grazie a te e a Shinichi. In più di un'occasione siete stati la nostra salvezza. Se non te lo dovevo come amico, te lo dovevo come ispettore di polizia.”

Megure spiegò loro come raggiungere l'appartamento, si era offerto di accompagnarli ma loro avevano rifiutando, affermando che avrebbero potuto perfettamente prendere la metropolitana o una macchina. Anzi, meglio i mezzi pubblici. Si accordarono per incontrarsi lì, l'ispettore in persona, in abiti borghesi, avrebbe consegnato loro le chiavi. E poi, probabilmente, si sarebbero augurati a vicenda la buona fortuna.

“Posso solo sapere,” aggiunse ancora l'uomo “chi è questa bambina?”

Si chinò a guardare Ai. Se anche conosceva di vista i Detective Boys, non avrebbe mai riconosciuto la ragazzina sotto quelle mentite spoglie. Lei non fiatò: era il caso di parlare?

“E' una mia amica.” prese in mano la situazione Conan. L'uomo con i baffi non sembrò convinto.

“Se siete così attenti a non mettere in pericolo nessuno, come mai vi state portando dietro Conan e questa ragazzina?”

Allora Ai parlò. Non serviva che qualcuno rispondesse per lei.

“Ci sono dentro più di tutti loro, signore. Mi spiace, ma altro non posso dirle.”

Il tono da adulta che permeava la voce di quella bambina colpì profondamente l'ispettore. Sembrava, tra tutti, la più consapevole del rischio che stavano correndo: al di là di quel tono calmo e pacato c'era ansia, timore e angoscia, ma vi si celava anche una profonda e ben compiuta intelligenza. Megure non riconobbe in lei la ragazzina che spesso stava con Conan, e si limitò a dire, quasi rispettoso: “Come volete. Ci vediamo tra poco dove concordato.”

E salutò con un cenno della mano e un sorriso un po' spento. Si incamminò verso la macchina, facendo scattare il meccanismo di apertura quando era ancora distante. I fanali risposero con un lampeggio che si fuse alla luce dell'alba. E la famiglia ricominciò a procedere a piccoli passi in quell'enorme città che stava pian piano svegliandosi.

 

 

 

Quando Ai aprì la porta del laboratorio in cui aveva lavorato in tutti quei mesi, capì senza bisogno d'altro di come, a poco più di un giorno di distanza, ne sentisse la mancanza. L'ultima notte passata tra quelle provette era stata quella dell'omicidio all'Haido City Hotel, quando Subaru Okiya le era improvvisamente piombato in casa, costringendola involontariamente a interrompere il suo lavoro. Le ultime ricerche la stavano portando verso il prototipo di un nuovo farmaco: un pillola che forse avrebbe potuto inibire l'effetto dell'APTX4869 per un periodo di tempo più lungo rispetto ai precedenti. Chissà, forse per un mese almeno? Ma sarebbe mai riuscita a creare un antidoto definitivo, a ridare a Shinichi una vita normale, quella che lui meritava? Passò la mano sulla tastiera del computer logorata dal battito delle sue piccole dita, come a volerla accarezzare. Quel ticchettio l'aveva accompagnata tra notti insonni e giornate lontane dal sole, quando gli occhi stanchi si fissavano su quello schermo e cercavano di analizzare i dati, le strutture, le sequenze anche quando, rossi e quasi socchiusi, non ne potevano più. Diede uno sguardo al microscopio ottico che teneva lì accanto, e si accorse allora di aver lasciato il vetrino lì, al suo posto, pronto per essere analizzato. Più in là, accanto, vi erano le piastre di alcune colture cellulari, in cui analizzava il differente sviluppo di cellule inibendo o stimolando determinati enzimi e proteine. L'ultima fila di quella piastra era costituita da un mucchio di cellule rachitiche: lesse quale enzima aveva provveduto ad inibire, e sorrise a se stessa. Aveva immaginato uno sviluppo del genere a seguito di quella determinata inibizione. Diede uno sguardo alla cappa, e alla soluzione tampone che aveva preparato qualche giorno prima e aveva lasciato lì, chiusa, in attesa usarla: era meglio sempre preparane in quantità maggiore rispetto a quella che serviva nell'immediato. I tamponi li usava per almeno metà dei suoi esperimenti, e prepararne ogni volta uno ad hoc era davvero una gran seccatura. Rilesse gli appunti che aveva scarabocchiato qualche notte prima, l'inchiostro macchiato dal blu di una soluzione di cui non si ricordava nemmeno. E poi lì, in fondo, lo spettrofotometro a monoraggio che di tanto in tanto si divertiva a farla esaurire con scherzetti di malfunzionamento: non era uno strumento nuovissimo, tutt'altro. Ma il dottor Agasa lo aveva acquistato appositamente per lei, e non poteva fare altro che dirgli grazie. La mente volò tra i ricordi dei vecchi laboratori dove lavorava, quelli dell'Organizzazione, dotati delle migliori tecnologie. Aveva il suo spettrofotometro a doppio raggio, che le permetteva di risparmiare del tempo quando doveva misurare l'assorbanza di una soluzione; poi c'era una saletta apposita solo per i microscopi, alcuni dei quali di ultimissima generazione, collegati ad un computer dove le immagini venivano visualizzate e dove si poteva studiarle mediante software appositi; c'era poi quell'altra piccola stanza, con lo spettrometro di massa, in cui lavorava sempre quell'omino basso e un po' pelato, il quale non voleva che nessuno si avvicinasse al suo sacro strumento: Ai sorrise nel ricordare di come, per quanto antipatico e scorbutico, quell'uomo bassetto di fisica ne sapesse tanta, e spesso l'aiutava quando le sfuggivano di mente alcuni concetti di chimica fisica o biofisica, o ancora quando doveva effettuare calcoli troppo complicati e non ne aveva per niente voglia. Lui invece si divertiva a starsene lì, ricurvo sui suoi calcoli, a lanciare occhiate al suo spettrometro di massa, come timoroso che qualcuno potesse improvvisamente entrare di soppiatto e rubargli l'amato strumento. Le provette rotte, gli esperimenti falliti in cui non riesci a trovare l'errore, le cromatografie non riuscite perfettamente, le analisi sulle soluzioni che alle volte la facevano davvero impazzire, le pesate svolte con estrema cura, le pipette caricate facendo attenzione a non inserire un solo microlitro in più: stare in laboratorio le piaceva, e avrebbe voluto lavorare in uno vero, un laboratorio di ricerca per la vita e non per la morte, in cui per quanto tu stia impazzendo su quelle misure su cui non ti raccapezzi più, ci sarà sempre qualcuno accanto disposto a darti una mano.

Aveva insistito per venire con Yusaku in quel posto, per risentire per un attimo la magia e lo stress di quei mesi, e per salutarlo come doveva. Perché non era tanto sicura di poterci rimettere piede, in futuro. Se l'Organizzazione l'avesse trovata? Non se la sarebbero lasciata scappare ancora una volta. Ricordò il suo sogno, ed ebbe un brivido. Quasi le cadde di mano la pipetta in plastica che stringeva tra le dita.

Poco più in là, appoggiati allo stipite della porta, stavano Yusaku e il dottor Agasa. Osservavano quel piccolo genio mentre dava quel momentaneo addio ai suoi strumenti. Yusaku sapeva quanto fosse difficile per lei: erano probabilmente gli stessi sentimenti che aveva provato lui lasciandosi dietro quegli scaffali ricolmi di libri, e qualche appunto di una vecchia storia che aveva preferito non portare con sé. Negli strumenti del proprio mestiere ognuno lascia parte della sua anima.

“Dunque starete in quell'appartamento fornitovi dall'ispettore?”

Lo scrittore annuì: “Veniamo da lì. Abbiamo lasciato le poche cose che ci siamo portati, e poi ho voluto tornare qui, per salutarti. Sei sicuro di non voler andare via? Ran e Kogoro..”

“Oh no, non preoccuparti per me. Alla fine non sono che un vicino di casa, non penso mi possano fare nulla. Non sanno che Ai ha vissuto qui, e..” e qui la voce gli tremò un attimo, prima di riprendere coraggio con uno dei suoi soliti sorrisi bonari, “e non penso che farmi scomparire sarebbe una buona idea. Attirerebbero solo l'attenzione.”

“Non dire nemmeno una cosa del genere.”

“E poi ci sono gli altri bambini, sentiranno già abbastanza la mancanza di Conan e Ai, non posso abbandonarli. Ai è voluta tornare qui?”

“Sì. Ha detto che ci teneva a salutarla e che voleva ricontrollare alcune cose. Quella ragazzina ha un'incredibile forza d'animo: non è facile per nessuno, ma credo che per lei non lo sia in particolar modo.” disse Yusaku, mentre osservava la bambina rovistare in un cassetto.

“E Yukiko e Shinichi?”

“Yukiko è da Ran. Deve parlarle, non possono restare qui, almeno non per ora.”

“E Shinichi non è con lei?”

“Lui avrebbe voluto, ma Yukiko sostiene che sia meglio evitare. Si tratterebbe solo di raccontare altre bugie.”

“Tu sei d'accordo?”

“Penso che abbia ragione.”

“Ma sei d'accordo?”

Yusaku alzò le spalle.

“Cosa devo dirti, amico mio. Le donne alle volte capiscono le cose meglio di altri. Mi fido di mia moglie: se ritiene che sia meglio così per entrambi, allora sì, sono d'accordo.”

Agasa sorrise di nuovo, mentre informava Ai del fatto che aveva ordinato alcuni libri che la bambina aveva lasciato sparsi e che ora erano lì, su quello scaffale a destra.

“E Shinichi dov'è adesso?”

“Conoscendolo, penso che starà osservando l'agenzia da qualche parte. Di sicuro ci tiene a rivedere Ran. La scorsa notte è dovuto di nuovo scappare senza poterle dire una parola.”

Il loro discorso fu interrotto da Ai. Aveva voltato le spalle ai suoi strumenti, e teneva in mano una piccola scatolina e una chiavetta USB.

“Io ho finito.”

“Hai preso i dati che ti servivano?”

“Sì.”

“E quella scatola?” chiese Yusaku.

Ai abbassò un attimo lo sguardo a fissarla, poi aggiunse solo: “Niente. Si tratta semplicemente di qualche ricordo.”

L'uomo non aggiunse altro, non c'era bisogno di sapere per forza tutto. A ognuno i suoi piccoli segreti.

“Il signor Subaru dov'è?” chiese Ai. Non lo aveva notato in casa.

“E' andato via ieri sera. Ha detto che non voleva disturbare ulteriormente, e che Shinichi lo aveva contattato dicendo che per un po' era meglio se non alloggiava da lui. Mi ha detto che sarebbe stato in un albergo. Shinichi non vi ha detto nulla?” chiese, stranito.

“No.” affermò Yusaku. Si appuntò a mente che, una volta rivisto il figlio, avrebbe dovuto chiederglielo. Erano successe così tante cose che quell'uomo era passato loro di mente. Ai, dal canto suo, aveva uno sguardo leggermente preoccupato, ma Agasa lasciò correre: sapeva che la bambina non si fidava del tutto di quell'uomo.

“Comunque è meglio se andate. Allontanarsi da qui è la cosa più prudente. Salutatemi Shinichi e Yukiko, e state attenti, vi prego.”

Si vedeva chiaramente che si sforzava di trattenere gli occhi dal diventare lucidi. Era un uomo estremamente buono e sensibile, e avrebbe fatto di tutto per aiutare i propri amici.

“Se avete bisogno di qualsiasi cosa, io..”

“Hai fatto già fin troppo, davvero. Grazie di tutto.” disse Yusaku. Fece per porgergli la mano ma il dottor Agasa lo anticipò, abbracciandolo. Non serviva essere formali in quel contesto. Yusaku sorrise, ricambiando la stretta. Quando poi si separarono, lo scienziato si chinò sulle ginocchia, ponendo le mani sulle spalle di Ai.

“Mi raccomando, Ai, non fare pazzie. E torna a casa, torna a casa presto. Questa è casa tua, ormai, la porta sarà sempre aperta per te. Mi mancherai.”

Ai voleva dire qualcosa, ma le tremò la voce. La scatoletta e la chiavetta le caddero di mano, e buttò le braccia al collo del dottore, affondando il viso nella spalla di lui. Non riuscì a trattenere i singhiozzi, e si lasciò consolare dal nonno bonario e affettuoso che non aveva mai avuto.

“Suvvia Ai, non è di certo un addio. Quando tutto questo finirà, guai a te se ti dimentichi di questo vecchietto, eh!”

Ai scosse la testa, e si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Poi disse, con un sorriso abbozzato: “Mi raccomando, pochi grassi, soprattutto quelli saturi. Mangi tanta frutta e verdura, e beva molta acqua. Non mangi troppi carboidrati, lo sa benissimo che l'eccesso di glucosio viene immagazzinato come grasso, e questo non va troppo bene nel suo caso. Si ricordi poi che la prossima settimana ha le analisi del sangue, bisogna tenere d'occhio il colesterolo.”

Nonostante le lacrime, aveva un tono tremendamente serio. Mentre Agasa assumeva la solita espressione un po' intimidita e un po' da cane bastonato, Yusaku scoppiò a ridere.

“E' sempre così?”

“Sempre così, questo piccolo genietto.” e le scombinò i capelli sorridendo.

“Dottore! La parrucca!” esclamò la bambina, sistemandosi le ciocche finte sul viso.

“Oh già, me n'ero dimenticato..”

E ci fu una nuova risata, questa volta generale, in cui si scaricarono tutta la tensione e la tristezza di quel momento. Mentre Ai si chinava per raccogliere la scatola e la USB, si sentì leggera, nonostante il costante tormento del peso delle sue azioni. In quella chiavetta vi erano tutti i dati che le servivano per il suo lavoro. E nella scatola, riposte con cura, tre pillole. Erano gli ultimi antidoti che aveva creato, e che con le ultime ricerche stava cercando di migliorare: se non aveva sbagliato nulla, quei prototipi dovevano comunque essere più efficaci dei precedenti che aveva dato a Shinichi. Li aveva presi nel caso in cui si fosse rivelato necessario coprire la loro nuova identità.

Prima di uscire, diede un ultimo sguardo a quella stanza, ai suoi compagni di ricerche. E, mentre la porta si richiudeva alle loro spalle, non ebbe il coraggio di dire addio: sussurrò piano, appena percettibile, un malinconico arrivederci.

 

 

 

 

 

 

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Ed eccomi di nuovo qui con il settimo capitolo! Come al solito nelle mie intenzioni questa doveva essere solo la metà del settimo, ma mi sono poi ritrovata con dieci facciate scritte e ho deciso di concludere qui: voglio dare a Ran il giusto rilievo, e non relegarla alla fine di un capitolo già comunque lunghetto :)

Ammetto che la parte che ho amato di più scrivere è quella finale, in cui Ai saluta il suo laboratorio e si ricorda di quello dell’Organizzazione: ho cercato di dare un’idea generale, accennando ai vari strumenti più comuni. Per quanto riguarda lo spettrofotometro, ho basato l’affermazione di Ai (il fatto che la facesse alle volte impazzire) su una mia esperienza personale xD Ma in quel caso poi, come sempre, eravamo stati noi a mescolare male la soluzione con la pipetta, ottenendo un valore dell’assorbanza assolutamente assurdo.. ma andiamo avanti u.u L’assorbanza indica, in soldoni, l’intensità di “luce” (radiazione elettromagnetica) che la soluzione assorbe ad una determinata lunghezza d’onda. Capisco che magari non siano cose che tutti conoscano (io stessa prima di iniziare l’università non avevo idea di cosa fosse uno spettrofotometro o uno spettrometro di massa, anzi, tra poco non sapevo neanche raccapezzarmi sulle onde elettromagnetiche), ma ho voluto lo stesso inserire qualche termine più specifico, per dare un’idea migliore della situazione. E poi, inevitabilmente, ci si affeziona a tutti quegli strumenti a forza di vederli per giorni e giorni: ed è vero anche che, quando in laboratorio qualcosa non viene, si impazzisce sul serio e volano parole non troppo carine  u.u Penso di aver imprecato contro lo spettrofotometro quella volta ahah xD Va beh, come al solito mi sono persa a parlare.

Altra parte che spero di aver reso bene è l’inizio, dedicato ad Arthur. Fin dall’inizio la mia intenzione era quella di farlo sopravvivere al tentato suicidio, poi ammetto che dopo il capitolo quarto avevo pensato di modificare la storia.. la parte in cui lui si getta dal ponte mi era sembrata.. non saprei neanche io definirla. Insomma, mi era sembrata perfetta per lui, e mi sono chiesta se fosse il caso di far finire lì il personaggio. Ma avrei dovuto rivedere troppe cose, e alla fine ho tenuto fede al progetto originale. Inoltre, devo ammettere che un po’ mi ci sono affezionata <3

Che dire.. spero che il capitolo vi sia piaciuto, se volete farmi sapere cosa ne pensate ne sarei immensamente felice *-*

Grazie a tutti quelli che mi seguono, che hanno la storia tra le preferite, che recensiscono e non mi abbandonano nonostante sia così lenta a scrivere! Ringrazio per l’ennesima volta Aya_Brea per avermi consigliato Il giovane Holden, il libro che ho appena concluso e mi è piaciuto davvero in ogni sua parte, tanto che non ho potuto fare a meno di citare quel pezzo, proprio del primo capitolo, che cadeva ad hoc.

Grazie ancora a tutti, e buone vacanze!

Un bacione,

Flami

  
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