Era da un po’ che volevo scrivere la
mia prima fanfic drammatica su Deathnote.
Cercando spunti ho ripensato ai momenti del manga che mi avevano
dato le emozioni più forti e, inevitabilmente, ho finito per pensare a lei: Naomi Misora. Un
personaggio la cui apparizione (e conseguente morte) mi aveva lasciato con
l’amaro in bocca. Fino alla fine ho sperato che in qualche modo potesse
essersi salvata (impossibile…) o che, quantomeno, si fosse lasciata dietro
qualche indizio fondamentale che avrebbe portato a smascherare Light. Una sorta di “vendetta postuma”. Invece, niente. Naomi è completamente sparita.
Come ciò sia potuto
accadere, ve lo racconta questa storia.
Snowflake
di Gan_HOPE326
Era il tre gennaio, e ancora una volta Tokio si svegliò
sotto la neve. Tirava un vento freddo e pungente mentre i cittadini uscivano in
strada, si riversavano in ogni angolo della metropoli, un fiume di cappotti e
mascherine che turbinava tra gli scogli squadrati dei grattacieli, si immergeva nelle cavità sotterranee della metropolitana
per poi sgorgarne nuovamente, animato dalla fretta e dal dovere, in un giorno
in cui infilarsi in un tiepido ufficio a lavorare non sembrava poi così male.
Passare una nottata come quella appena terminata a dormire
tra gli scatoloni non era stato piacevole. La donna si
rialzò con i muscoli del collo che facevano male e le membra quasi insensibili
per il freddo. Si scosse via la neve polverosa che le imbrattava il cappotto e
i lunghi capelli neri, si rimise in ordine, in modo da sembrare normale, una
qualunque giapponese che si mischiava alla vita della città. Nessuno la vide mentre compiva queste operazioni: la sera prima aveva
scelto con cura il vicolo in cui dormire, che fosse piccolo e sufficientemente
isolato. Non si era preoccupata del freddo, invece. Non sarebbe
potuta comunque morire assiderata – la sua morte, era già stato deciso,
sarebbe stata diversa. Ma quale, ancora, lei non lo sapeva.
Abbandonò il vicolo e si immerse nella corrente della
folla, attenta a non essere nessuno, anonima, una goccia di quel fiume. Aveva
esperienza in questo. Passò a fianco di un albergo; accanto all’ingresso,
l’asta di una bandiera che sventolava con poco entusiasmo. Fissò, fugacemente,
la corda che girava intorno alle pulegge e reggeva il drappo colorato.
E potresti anche impiccarti, trovare un
albero o un’altra asta come questa, o magari un palo della luce, girarti una
fune intorno alla gola e lanciarti giù, il collo si spezza, crack, fine, come
spegnere la luce, rapido, rapido e indolore, almeno così c’è da credere. Ma lo sai che non funzionerebbe. Il tuo corpo lì, in mezzo a
tutti, lo troverebbero subito. Con il viso livido e la lingua gonfia che
penzola fuori dalla bocca. Non è questo che vuoi. Non
sono questi gli ordini. Non va bene, non va bene.
Persino con la neve ad attutirli, i suoni di Tokio erano
ovunque, violenti, inevitabili, permeavano a tal punto
l’atmosfera da parere una cosa solida e tangibile. I motori e
i clacson delle auto e la musica di un video cartellone pubblicitario e il
parlottare della gente e il maxischermo che trasmetteva un telegiornale con un
giornalista che ripeteva in litania l’elenco delle vittime odierne di Kira, un rumore tra tutti gli altri. La rumorosa normalità – perché anche gli assassini sono normali.
La donna fissò senza provare alcun sentimento lo schermo su cui ora campeggiava
una colossale lettera, una elle, ma una lettera da
sola non significa niente, ce ne vogliono almeno due per fare anche la più
semplice parola, con una lettera si fanno solo articoli e congiunzioni. Levò
ancora lo sguardo, verso l’alto. Il grattacielo sembrava toccare il cielo; la
foschia e lo smog ne confondevano i contorni più alti.
E potresti salire
lassù, o in un luogo simile, giungere in terrazza, guardare un momento giù,
godere finalmente di un secondo di silenzio, poi gettarti, cadere sempre più
veloce tra neve e fumo, tornare nel rumore, sempre più forte, sempre più forte,
insieme a quello del vento che ti soffia nelle
orecchie, infine piombare quaggiù ed esplodere come una bomba tra questa gente,
il tuo corpo polverizzato dall’impatto: essere una folata di vento, vento
divino, come quei pazzi tuoi compatrioti che si sono buttati giù a Pearl Harbour. Ma
non funzionerebbe. Ci sarebbero tanti, troppi testimoni. Potresti farlo di
notte – i tuoi resti li troverebbero, ma almeno non sarebbero più riconoscibili – ma ormai non c’è più tempo, dovevi pensarci
prima, questa cosa va fatta entro oggi all’una e venticinque. Sono questi gli
ordini, ragazza, non dimenticarlo.
Gli ordini sono tutto.
La gente camminava tutto intorno e si affrettava verso mille
destinazioni sconosciute; ad ogni passo la donna veniva
urtata, o doveva cambiare direzione, o chiedere a qualcuno che la lasciasse
passare. Adocchiò un bar non troppo affollato, e decise che davanti a un caffé caldo si pensa meglio, anche quando si deve
pensare a come uccidersi. Entrò, si sedette al bancone e ordinò. C’erano dodici
persone nel bar – cinque al bancone come lei, sei che
parlottavano in crocchio stando in piedi vicino all’ingresso, più il barista.
Aveva scelto apposta uno sgabello laterale per sedersi, in modo da restare ai
margini del gruppo dei clienti. L’unico che avesse
vicino era un ragazzo, alla sua sinistra, che dimostrava forse vent’anni. Probabilmente uno studente della vicina università.
Stava mangiando un panino. Vecchia abitudine, questa di
osservare in ogni particolare la gente che la circondava, che la donna aveva
preso nei suoi anni da investigatrice. Ora non le sarebbe servita più,
in ogni caso.
-
Sembri
avere freddo. Ti posso offrire qualcosa?
Era stato lo studente a parlare. Lei scosse la testa:
-
Ho
già chiesto un caffé.
-
Ah.
Il ragazzo staccò un morso dal suo sandwich e lo masticò
pensosamente. Sembrava essersi dimenticato della donna. Poco dopo, però, parlò
di nuovo:
-
Non
ti ho mai vista a questo bar.
-
Non
ci sono mai stata.
-
Hm,
mi pareva. Io sono Toshiro, piacere.
-
Piacere.
– rispose lei, sorridendo leggermente – Nao…
Non dirgli il tuo vero
nome! Non devi lasciare tracce di te!
-
…Naoko. Io mi chiamo Naoko. –
concluse.
Il barista arrivò di corsa, il lavoro era tanto a quell’ora,
e posò sul bancone una tazza piena di caffé davanti alla donna. Lei la prese e
la portò alle labbra, ma sentì la bevanda scottarle la punta della lingua e la
mise giù. Restò a fissare il liquido scuro e bollente con sguardo perso.
E potresti gettarti in
una vasca di qualcosa, qualunque cosa, che sia bollente e che
turbini e magari sia anche corrosivo, un acido sarebbe l’ideale, e il tuo corpo
allora sì che svanirebbe per benino, la carne che si cuoce e si scioglie e si
stacca dalle ossa, bruciata, volerebbe via in scaglie come foglie secche,
dopodichè anche le ossa finirebbero per consumarsi, così come quei tuoi
splendidi capelli, alla fine non resterebbe nulla di te, solo pochi atomi di
carbonio e calcio sparsi nel liquido. Ma il difficile
è trovarlo, un posto del genere, perché qui nei dintorni di fabbriche di
prodotti chimici non ce n’è. E anche se ci fossero,
non faranno certo entrare il primo aspirante suicida che passa. Poi potresti
arrivarci in fretta, in un posto del genere? Pensaci, magari
non ce la faresti in tempo. E in questo momento
il tempo è molto importante, ricordalo, perché…
-
Sta’
zitta. – bisbigliò la donna.
-
Uh?
Naoko, dici a me?
Lei si alzò bruscamente e spazzò il bancone con una mano,
buttando a terra la tazza di caffé, che si infranse e
sparse il liquido sul pavimento. Con l’altra mano si stringeva la testa,
premendo sugli occhi. Tra le dita scivolavano le lacrime.
-
Sta’
zitta. – ripeté – Sta’ zitta sta’ zitta sta’ zitta zitta zitta STA’ ZITTA!
Il grido attirò l’attenzione dei presenti che si girarono a
guardare. Dopo un attimo di curiosità decisero tutti che si trattava di
faccende con cui era meglio non interferire, e tornarono alle proprie
occupazioni di prima, facendo finta di niente. Solo Toshiro
corse in aiuto della donna, afferrandola mentre cadeva
dallo sgabello.
-
Che ti succede?
Lei lo fissò dritto negli occhi. Piangeva di terrore, e il
ragazzo sentì il suo corpo tremare sotto le proprie braccia.
-
Aiutami.
– sussurrò lei, stringendosi alle sue spalle con forza – Ti prego, aiutami.
Svenne. In silenzio, nell’indifferenza generale, Toshiro prese tra le braccia il
corpo della donna e lo portò fuori.
-
Come
stai?
Prima ancora di riaprire gli occhi, la donna sentì il vento
freddo soffiarle sul viso. Un fiocco di neve le si posò
sulle labbra e la fece rabbrividire. Sentì di essere
sdraiata, provò a rialzarsi.
-
Non muoverti, se non te la senti. Sei sulla panchina di un parco.
Non ho trovato di meglio, purtroppo. Resta giù.
-
No,
sto bene. – disse lei, con la bocca impastata.
Si mise a sedere. Toshiro si
sedette accanto a lei e le porse un bicchiere di
plastica con un coperchietto.
-
Ti
ho preso un altro caffé, visto che quello di prima non l’hai
bevuto. Ho pensato che ti potesse far piacere scaldarti.
-
Grazie.
Prese il bicchiere e provò a sorseggiarlo. Era meno caldo di
quello di prima, ma abbastanza da darle una bella sensazione di tepore. Si
sentì un po’ più viva.
-
Allora?
– le chiese il ragazzo.
-
Allora
cosa?
-
Perché prima di svenire mi hai detto di stare zitto?
La donna non riuscì a trattenere una risatina.
-
Non
dicevo a te. – spiegò.
-
E allora a chi?
Esitò un attimo.
-
Alla
Voce. – concluse frettolosamente.
Distolse lo sguardo, mentre Toshiro
la fissava stranito.
-
Capisco.
Lei colse il suo sguardo e rise ancora, stavolta con una
nota più amara. Una risata che aveva un che di imbarazzo,
ma soprattutto di tristezza.
-
Ti
sembrerò una pazza.
-
No,
non sembri pazza. – ribatté lui – Per questo è strano.
-
Strano.
Davvero, non immagini quanto.
Smettila di parlare con questo tizio e pensa a quello che devi fare.
Stavolta la donna riuscì a
trattenersi dall’urlare come aveva fatto nel bar. Portò un dito alla bocca e lo
morse fino a quasi farlo sanguinare. Il dolore allontanava
-
-
Adesso
no, però, giusto?
-
Anche adesso! – gridò, e di nuovo le venne da piangere. Si strinse il volto
tra le mani – Anche adesso, io guardo intorno a me e penso a come potrei
morire, farmi investire da un camion, o gettarmi nel laghetto del parco, o...!
Non riuscì più a parlare. Toshiro
le posò una mano sulla spalla.
-
Naoko – disse – tu vuoi morire?
-
No.
Dio, no. Ho paura. Sono terrorizzata.
-
E allora perché devi dare retta a questa Voce?
-
Per
via di Kira. – mormorò quasi impercettibilmente.
Di questo non devi
parlare!
-
Ascolta, Toshiro, io so che Kira…
BASTA COSI’!
-
…che Kira è…
NON! DIRE! PIU’! NULLA!
Fu come un dolore fisico. La donna sentì una stretta al
cuore, una mano che le premeva il petto e le toglieva il fiato. Boccheggiò. Quando finì, si gettò sullo schienale della panchina, ad
occhi chiusi, ansimando. Si rese conto che aveva nuovamente fatto cadere il
caffé. La neve ai suoi piedi era sporcata da una macchia bruna.
-
Mi
dispiace. Non posso. Non ci riesco. – biascicò.
Restò in silenzio, guardando il caffé che aveva rovesciato
mischiarsi con la neve e scioglierla con il proprio calore. Saliva un sottile
filo di vapore.
Anche Toshiro
era assorto.
-
Kira, uh. – disse – Sono brutti tempi questi. Pensare che c’è in giro qualcuno capace di uccidere la gente solo
volendolo fa venire i brividi. Ma non è un buon
motivo per suicidarsi, penso. O no?
-
Lascia
stare. Non puoi capire.
-
Immagino
di sì. Però una cosa la capisco. Io lo so, come fa ad
uccidere tutta quella gente.
La donna si voltò verso di lui bruscamente, incredula. Toshiro fece un gesto ampio con la mano, a
indicare tutta la neve che, davanti a loro, copriva i vialetti e i prati del
parco.
-
Kira guarda la gente e la vede così, come questa neve. Una massa indistinta.
Può uccidere chiunque, l’insieme sarà sempre uguale.
Ci saranno sempre innocenti e assassini, sempre vittime e sempre carnefici. Per
lui è come se non cambiasse nulla. Come se, alla fin fine, lui non avesse
davvero ucciso nessuno.
Si chinò e raccolse una manciata di
neve. Tese la mano, lasciando che la luce del sole che filtrava tra le nubi
finalmente diradatesi facesse scintillare quei pochi fiocchi.
-
Ma quello che non ha capito è questo. Che se raccogli un poco di quella
massa, essa è composta da un’infinità di cristalli.
Tutti diversi. Tutti unici. Distruggine uno e non ce ne sarà mai un altro
uguale. Alcuni magari sono brutti. Altri sono belli, o bellissimi.
Lanciò un’occhiata rapidissima alla donna al suo fianco,
tanto veloce che lei non lo notò nemmeno.
-
Alcuni
sono meravigliosi. – concluse a mezza voce.
L’altra non rispose nulla, adesso sembrava
solo immersa nei propri pensieri. Sembrava che quel discorso le avesse fatto scattare qualcosa, un’idea.
-
Come
un fiocco di neve… - disse.
Si alzò bruscamente in piedi e corse verso la strada. Toshiro provò a chiamarla:
-
Naoko!
Lei si fermò un attimo, voltandosi indietro.
-
Scusami,
ma devo andare. Sei stato gentile con me, Toshiro. Te
ne sono grata. Me ne ricorderò.
-
Te
ne ricorderai…?
La donna annuì, con un sorriso.
-
Finché avrò vita. – disse.
E scappò via.
Dopo che la nevicata si era interrotta, le piste dell’aeroporto
erano state velocemente spazzate e ripulite e i voli,
prima sospesi, erano ricominciati. L’attività era tornata quella frenetica di
sempre, folle di uomini d’affari e torme di turisti
che facevano avanti e indietro tra i vari gate, gli uffici dei bagagli, le
biglietterie. La donna si mescolò a loro solo in un primo momento; il suo
obiettivo era arrivare sulle pista di un volo in
decollo aggirando il check-in, per cui, ad un certo punto, dovette separarsi
dal grosso dei passeggeri per sgattaiolare in una porta di servizio. La sua
passata esperienza la aiutò anche in questo. Con prudenza e un po’ di fortuna
riuscì a raggiungere la sua meta. Portava con sé solo un sacchetto di plastica,
dentro c’era un po’ di materiale che aveva comprato poche ore
prima e le sarebbe servito. La parte più difficile era riuscire a
raggiungere l’aereo senza farsi vedere, attraversando lo spazio aperto della
pista. Ma ai margini c’erano ancora i mucchi di neve
spalati per liberare la strada agli aerei, e lei aveva avuto la prudenza di
comprare anche un nuovo giubbotto, completamente bianco. Si tirò il cappuccio
sulla testa. Da lontano, nessuno avrebbe potuto distinguere la sua figura.
Brava ragazza, molto
abile.
Si ritrovò sotto il ventre del jet,
nascosta alla vista di tutti dalle enormi ruote del carrello. Aveva sentito di
persone che avevano compiuto interi viaggi in aereo nascosti nel vano carrello,
da clandestini. Alcuni erano persino arrivati a destinazione
vivi. Quello che aveva intenzione di fare lei, dopotutto, non era molto
diverso. Si arrampicò su per l’intelaiatura che reggeva le ruote, fino al
grosso portello che si sarebbe chiuso una volta ritirato
il carrello. Questa era la parte più delicata. Appese il sacchetto ad un tubo
metallico che fuoriusciva e ne tirò fuori la corda. Era in nylon, sottile,
flessibile, resistente ma non troppo. La annodò al primo appiglio che trovò
dentro il vano. All’altra estremità fece un nodo a cappio. Poi calcolò
approssimativamente, lungo il bordo delle ante del portello, il punto che le
interessava; estrasse dal sacchetto una lama da cutter
e un tubetto di colla. Spezzò la lama in segmenti sottili e taglienti e li
incollò al bordo esterno del portello, su entrambe le ante, lungo la linea in
cui si sarebbero incontrate richiudendosi. La colla faceva presa velocemente,
provò a saggiare una delle lame ed era perfettamente attaccata. Tutto pronto.
Un’idea geniale,
davvero degna di te, ragazza, mi congratulo. E adesso
si va in scena.
Mentre l’aereo stava per decollare, erano esattamente le
Poco dopo il decollo, raggiunta un’altitudine sufficiente,
il pilota avrebbe ritirato il carrello. In quel momento, lei, nascosta nel vano
carrello, si sarebbe gettata giù all’ultimo istante, con il cappio al collo. La
morte sarebbe arrivata istantanea. Lo sportello si sarebbe richiuso, stringendo
in mezzo alle ante la corda a cui lei sarebbe stata impiccata; senza spezzarla
all’istante, secondo i suoi piani, ma cominciando lentamente a
intaccarla, anche grazie alle lamette incollate lì per questo. L’aereo era
diretto negli USA, perciò avrebbe cominciato presto a sorvolare
l’oceano. In quota, nella stratosfera, fa parecchio freddo, e il vento dovuto
alla grande velocità avrebbe solo aiutato: in pochi
minuti, il corpo della donna sarebbe finito letteralmente congelato. Prima o poi le lamette avrebbero finito di tagliare la fune.
Il cadavere sarebbe caduto giù, in mare. Probabilmente sarebbe finito in pezzi.
Nessuno l’avrebbe mai ritrovato.
I motori rombarono. Le ruote cominciarono a girare, mentre
l’aereo prendeva velocità. Si staccarono da terra.
Quando ormai mancavano pochi istanti al
momento cruciale, la donna ripensò al ragazzo del bar. In quegli ultimi due
giorni della sua vita, disperati e spaventosi, i pochi minuti che aveva
trascorso assieme a lui erano gli unici in cui era riuscita a non sentirsi
disperatamente e spaventosamente sola. Toshiro. Lei
non gli aveva nemmeno potuto dire il proprio vero nome.
Il portello si stava richiudendo; ormai erano le
-
Mi
chiamo Naomi. – sussurrò, e sperò, per quanto fosse assurdo, che lui potesse in qualche modo sentirla.
Poi si gettò giù, per morire, e diventare di ghiaccio, e poi
cadere nell’oceano, e sciogliersi, e sparire per sempre nell’acqua, come un
fiocco di neve.
FINE