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Autore: Gan_HOPE326    04/09/2008    11 recensioni
"Naomi Misora
Suicidio
Dalle 13:25 del 1-1-2004 non penserà ad altro che a un modo per suicidarsi senza che nessuno si intrometta o trovi il suo cadavere. Porterà a compimento il suo piano solo dopo quarantotto ore."
Quanta coscienza di sè può conservare qualcuno che è sotto il controllo di un Death Note? Storia delle ultime ore di vita di Naomi Misora, un'innocente condannata a morte.
Genere: Triste, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Naomi Misora
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Snowflake

Era da un po’ che volevo scrivere la mia prima fanfic drammatica su Deathnote. Cercando spunti ho ripensato ai momenti del manga che mi avevano dato le emozioni più forti e, inevitabilmente, ho finito per pensare a lei: Naomi Misora. Un personaggio la cui apparizione (e conseguente morte) mi aveva lasciato con l’amaro in bocca. Fino alla fine ho sperato che in qualche modo potesse essersi salvata (impossibile…) o che, quantomeno, si fosse lasciata dietro qualche indizio fondamentale che avrebbe portato a smascherare Light. Una sorta di “vendetta postuma”. Invece, niente. Naomi è completamente sparita.

Come ciò sia potuto accadere, ve lo racconta questa storia.

 

 

 

 

Snowflake

di Gan_HOPE326

 

Era il tre gennaio, e ancora una volta Tokio si svegliò sotto la neve. Tirava un vento freddo e pungente mentre i cittadini uscivano in strada, si riversavano in ogni angolo della metropoli, un fiume di cappotti e mascherine che turbinava tra gli scogli squadrati dei grattacieli, si immergeva nelle cavità sotterranee della metropolitana per poi sgorgarne nuovamente, animato dalla fretta e dal dovere, in un giorno in cui infilarsi in un tiepido ufficio a lavorare non sembrava poi così male.

Passare una nottata come quella appena terminata a dormire tra gli scatoloni non era stato piacevole. La donna si rialzò con i muscoli del collo che facevano male e le membra quasi insensibili per il freddo. Si scosse via la neve polverosa che le imbrattava il cappotto e i lunghi capelli neri, si rimise in ordine, in modo da sembrare normale, una qualunque giapponese che si mischiava alla vita della città. Nessuno la vide mentre compiva queste operazioni: la sera prima aveva scelto con cura il vicolo in cui dormire, che fosse piccolo e sufficientemente isolato. Non si era preoccupata del freddo, invece. Non sarebbe potuta comunque morire assiderata – la sua morte, era già stato deciso, sarebbe stata diversa. Ma quale, ancora, lei non lo sapeva. Abbandonò il vicolo e si immerse nella corrente della folla, attenta a non essere nessuno, anonima, una goccia di quel fiume. Aveva esperienza in questo. Passò a fianco di un albergo; accanto all’ingresso, l’asta di una bandiera che sventolava con poco entusiasmo. Fissò, fugacemente, la corda che girava intorno alle pulegge e reggeva il drappo colorato.

E potresti anche impiccarti, trovare un albero o un’altra asta come questa, o magari un palo della luce, girarti una fune intorno alla gola e lanciarti giù, il collo si spezza, crack, fine, come spegnere la luce, rapido, rapido e indolore, almeno così c’è da credere. Ma lo sai che non funzionerebbe. Il tuo corpo lì, in mezzo a tutti, lo troverebbero subito. Con il viso livido e la lingua gonfia che penzola fuori dalla bocca. Non è questo che vuoi. Non sono questi gli ordini. Non va bene, non va bene.

Persino con la neve ad attutirli, i suoni di Tokio erano ovunque, violenti, inevitabili, permeavano a tal punto l’atmosfera da parere una cosa solida e tangibile. I motori e i clacson delle auto e la musica di un video cartellone pubblicitario e il parlottare della gente e il maxischermo che trasmetteva un telegiornale con un giornalista che ripeteva in litania l’elenco delle vittime odierne di Kira, un rumore tra tutti gli altri. La rumorosa normalità – perché anche gli assassini sono normali. La donna fissò senza provare alcun sentimento lo schermo su cui ora campeggiava una colossale lettera, una elle, ma una lettera da sola non significa niente, ce ne vogliono almeno due per fare anche la più semplice parola, con una lettera si fanno solo articoli e congiunzioni. Levò ancora lo sguardo, verso l’alto. Il grattacielo sembrava toccare il cielo; la foschia e lo smog ne confondevano i contorni più alti.

E potresti salire lassù, o in un luogo simile, giungere in terrazza, guardare un momento giù, godere finalmente di un secondo di silenzio, poi gettarti, cadere sempre più veloce tra neve e fumo, tornare nel rumore, sempre più forte, sempre più forte, insieme a quello del vento che ti soffia nelle orecchie, infine piombare quaggiù ed esplodere come una bomba tra questa gente, il tuo corpo polverizzato dall’impatto: essere una folata di vento, vento divino, come quei pazzi tuoi compatrioti che si sono buttati giù a Pearl Harbour. Ma non funzionerebbe. Ci sarebbero tanti, troppi testimoni. Potresti farlo di notte – i tuoi resti li troverebbero, ma almeno non sarebbero più riconoscibili – ma ormai non c’è più tempo, dovevi pensarci prima, questa cosa va fatta entro oggi all’una e venticinque. Sono questi gli ordini, ragazza, non dimenticarlo.

Gli ordini sono tutto.

La gente camminava tutto intorno e si affrettava verso mille destinazioni sconosciute; ad ogni passo la donna veniva urtata, o doveva cambiare direzione, o chiedere a qualcuno che la lasciasse passare. Adocchiò un bar non troppo affollato, e decise che davanti a un caffé caldo si pensa meglio, anche quando si deve pensare a come uccidersi. Entrò, si sedette al bancone e ordinò. C’erano dodici persone nel bar – cinque al bancone come lei, sei che parlottavano in crocchio stando in piedi vicino all’ingresso, più il barista. Aveva scelto apposta uno sgabello laterale per sedersi, in modo da restare ai margini del gruppo dei clienti. L’unico che avesse vicino era un ragazzo, alla sua sinistra, che dimostrava forse vent’anni. Probabilmente uno studente della vicina università. Stava mangiando un panino. Vecchia abitudine, questa di osservare in ogni particolare la gente che la circondava, che la donna aveva preso nei suoi anni da investigatrice. Ora non le sarebbe servita più, in ogni caso.

-         Sembri avere freddo. Ti posso offrire qualcosa?

Era stato lo studente a parlare. Lei scosse la testa:

-         Ho già chiesto un caffé.

-         Ah.

Il ragazzo staccò un morso dal suo sandwich e lo masticò pensosamente. Sembrava essersi dimenticato della donna. Poco dopo, però, parlò di nuovo:

-         Non ti ho mai vista a questo bar.

-         Non ci sono mai stata.

-         Hm, mi pareva. Io sono Toshiro, piacere.

-         Piacere. – rispose lei, sorridendo leggermente – Nao

Non dirgli il tuo vero nome! Non devi lasciare tracce di te!

-         Naoko. Io mi chiamo Naoko. – concluse.

Il barista arrivò di corsa, il lavoro era tanto a quell’ora, e posò sul bancone una tazza piena di caffé davanti alla donna. Lei la prese e la portò alle labbra, ma sentì la bevanda scottarle la punta della lingua e la mise giù. Restò a fissare il liquido scuro e bollente con sguardo perso.

E potresti gettarti in una vasca di qualcosa, qualunque cosa, che sia bollente e che turbini e magari sia anche corrosivo, un acido sarebbe l’ideale, e il tuo corpo allora sì che svanirebbe per benino, la carne che si cuoce e si scioglie e si stacca dalle ossa, bruciata, volerebbe via in scaglie come foglie secche, dopodichè anche le ossa finirebbero per consumarsi, così come quei tuoi splendidi capelli, alla fine non resterebbe nulla di te, solo pochi atomi di carbonio e calcio sparsi nel liquido. Ma il difficile è trovarlo, un posto del genere, perché qui nei dintorni di fabbriche di prodotti chimici non ce n’è. E anche se ci fossero, non faranno certo entrare il primo aspirante suicida che passa. Poi potresti arrivarci in fretta, in un posto del genere? Pensaci, magari non ce la faresti in tempo. E in questo momento il tempo è molto importante, ricordalo, perché…

-         Sta’ zitta. – bisbigliò la donna.

-         Uh? Naoko, dici a me?

Lei si alzò bruscamente e spazzò il bancone con una mano, buttando a terra la tazza di caffé, che si infranse e sparse il liquido sul pavimento. Con l’altra mano si stringeva la testa, premendo sugli occhi. Tra le dita scivolavano le lacrime.

-         Sta’ zitta. – ripeté – Sta’ zitta sta’ zitta sta’ zitta zitta zitta STA’ ZITTA!

Il grido attirò l’attenzione dei presenti che si girarono a guardare. Dopo un attimo di curiosità decisero tutti che si trattava di faccende con cui era meglio non interferire, e tornarono alle proprie occupazioni di prima, facendo finta di niente. Solo Toshiro corse in aiuto della donna, afferrandola mentre cadeva dallo sgabello.

-         Che ti succede?

Lei lo fissò dritto negli occhi. Piangeva di terrore, e il ragazzo sentì il suo corpo tremare sotto le proprie braccia.

-         Aiutami. – sussurrò lei, stringendosi alle sue spalle con forza – Ti prego, aiutami.

Svenne. In silenzio, nell’indifferenza generale, Toshiro prese tra le braccia il corpo della donna e lo portò fuori.

 

-         Come stai?

Prima ancora di riaprire gli occhi, la donna sentì il vento freddo soffiarle sul viso. Un fiocco di neve le si posò sulle labbra e la fece rabbrividire. Sentì di essere sdraiata, provò a rialzarsi.

-         Non muoverti, se non te la senti. Sei sulla panchina di un parco. Non ho trovato di meglio, purtroppo. Resta giù.

-         No, sto bene. – disse lei, con la bocca impastata.

Si mise a sedere. Toshiro si sedette accanto a lei e le porse un bicchiere di plastica con un coperchietto.

-         Ti ho preso un altro caffé, visto che quello di prima non l’hai bevuto. Ho pensato che ti potesse far piacere scaldarti.

-         Grazie.

Prese il bicchiere e provò a sorseggiarlo. Era meno caldo di quello di prima, ma abbastanza da darle una bella sensazione di tepore. Si sentì un po’ più viva.

-         Allora? – le chiese il ragazzo.

-         Allora cosa?

-         Perché prima di svenire mi hai detto di stare zitto?

La donna non riuscì a trattenere una risatina.

-         Non dicevo a te. – spiegò.

-         E allora a chi?

Esitò un attimo.

-         Alla Voce. – concluse frettolosamente.

Distolse lo sguardo, mentre Toshiro la fissava stranito.

-         Capisco.

Lei colse il suo sguardo e rise ancora, stavolta con una nota più amara. Una risata che aveva un che di imbarazzo, ma soprattutto di tristezza.

-         Ti sembrerò una pazza.

-         No, non sembri pazza. – ribatté lui – Per questo è strano.

-         Strano. Davvero, non immagini quanto.

Smettila di parlare con questo tizio e pensa a quello che devi fare.

Stavolta la donna riuscì a trattenersi dall’urlare come aveva fatto nel bar. Portò un dito alla bocca e lo morse fino a quasi farlo sanguinare. Il dolore allontanava la Voce, ma funzionava sempre meno.

-         La Voce – continuò lei – vuole che io pensi a come suicidarmi. Entro oggi metterò in atto il mio piano. Alla fine morirò. Non posso impedirglielo. Riesco a resistere per un po’, ma alla fine devo fare come dice lei.

-         Adesso no, però, giusto?

-         Anche adesso! – gridò, e di nuovo le venne da piangere. Si strinse il volto tra le mani – Anche adesso, io guardo intorno a me e penso a come potrei morire, farmi investire da un camion, o gettarmi nel laghetto del parco, o...!

Non riuscì più a parlare. Toshiro le posò una mano sulla spalla.

-         Naokodisse – tu vuoi morire?

-         No. Dio, no. Ho paura. Sono terrorizzata.

-         E allora perché devi dare retta a questa Voce?

-         Per via di Kira. – mormorò quasi impercettibilmente.

Di questo non devi parlare!

-         Ascolta, Toshiro, io so che Kira

BASTA COSI’!

-         che Kira è…

NON! DIRE! PIU’! NULLA!

Fu come un dolore fisico. La donna sentì una stretta al cuore, una mano che le premeva il petto e le toglieva il fiato. Boccheggiò. Quando finì, si gettò sullo schienale della panchina, ad occhi chiusi, ansimando. Si rese conto che aveva nuovamente fatto cadere il caffé. La neve ai suoi piedi era sporcata da una macchia bruna.

-         Mi dispiace. Non posso. Non ci riesco. – biascicò.

Restò in silenzio, guardando il caffé che aveva rovesciato mischiarsi con la neve e scioglierla con il proprio calore. Saliva un sottile filo di vapore.

Anche Toshiro era assorto.

-         Kira, uh. – disse – Sono brutti tempi questi. Pensare che c’è in giro qualcuno capace di uccidere la gente solo volendolo fa venire i brividi. Ma non è un buon motivo per suicidarsi, penso. O no?

-         Lascia stare. Non puoi capire.

-         Immagino di sì. Però una cosa la capisco. Io lo so, come fa ad uccidere tutta quella gente.

La donna si voltò verso di lui bruscamente, incredula. Toshiro fece un gesto ampio con la mano, a indicare tutta la neve che, davanti a loro, copriva i vialetti e i prati del parco.

-         Kira guarda la gente e la vede così, come questa neve. Una massa indistinta. Può uccidere chiunque, l’insieme sarà sempre uguale. Ci saranno sempre innocenti e assassini, sempre vittime e sempre carnefici. Per lui è come se non cambiasse nulla. Come se, alla fin fine, lui non avesse davvero ucciso nessuno.

Si chinò e raccolse una manciata di neve. Tese la mano, lasciando che la luce del sole che filtrava tra le nubi finalmente diradatesi facesse scintillare quei pochi fiocchi.

-         Ma quello che non ha capito è questo. Che se raccogli un poco di quella massa, essa è composta da un’infinità di cristalli. Tutti diversi. Tutti unici. Distruggine uno e non ce ne sarà mai un altro uguale. Alcuni magari sono brutti. Altri sono belli, o bellissimi.

Lanciò un’occhiata rapidissima alla donna al suo fianco, tanto veloce che lei non lo notò nemmeno.

-         Alcuni sono meravigliosi. – concluse a mezza voce.

L’altra non rispose nulla, adesso sembrava solo immersa nei propri pensieri. Sembrava che quel discorso le avesse fatto scattare qualcosa, un’idea.

-         Come un fiocco di neve… - disse.

Si alzò bruscamente in piedi e corse verso la strada. Toshiro provò a chiamarla:

-         Naoko!

Lei si fermò un attimo, voltandosi indietro.

-         Scusami, ma devo andare. Sei stato gentile con me, Toshiro. Te ne sono grata. Me ne ricorderò.

-         Te ne ricorderai…?

La donna annuì, con un sorriso.

-         Finché avrò vita. – disse.

E scappò via.

 

Dopo che la nevicata si era interrotta, le piste dell’aeroporto erano state velocemente spazzate e ripulite e i voli, prima sospesi, erano ricominciati. L’attività era tornata quella frenetica di sempre, folle di uomini d’affari e torme di turisti che facevano avanti e indietro tra i vari gate, gli uffici dei bagagli, le biglietterie. La donna si mescolò a loro solo in un primo momento; il suo obiettivo era arrivare sulle pista di un volo in decollo aggirando il check-in, per cui, ad un certo punto, dovette separarsi dal grosso dei passeggeri per sgattaiolare in una porta di servizio. La sua passata esperienza la aiutò anche in questo. Con prudenza e un po’ di fortuna riuscì a raggiungere la sua meta. Portava con sé solo un sacchetto di plastica, dentro c’era un po’ di materiale che aveva comprato poche ore prima e le sarebbe servito. La parte più difficile era riuscire a raggiungere l’aereo senza farsi vedere, attraversando lo spazio aperto della pista. Ma ai margini c’erano ancora i mucchi di neve spalati per liberare la strada agli aerei, e lei aveva avuto la prudenza di comprare anche un nuovo giubbotto, completamente bianco. Si tirò il cappuccio sulla testa. Da lontano, nessuno avrebbe potuto distinguere la sua figura.

Brava ragazza, molto abile.

Si ritrovò sotto il ventre del jet, nascosta alla vista di tutti dalle enormi ruote del carrello. Aveva sentito di persone che avevano compiuto interi viaggi in aereo nascosti nel vano carrello, da clandestini. Alcuni erano persino arrivati a destinazione vivi. Quello che aveva intenzione di fare lei, dopotutto, non era molto diverso. Si arrampicò su per l’intelaiatura che reggeva le ruote, fino al grosso portello che si sarebbe chiuso una volta ritirato il carrello. Questa era la parte più delicata. Appese il sacchetto ad un tubo metallico che fuoriusciva e ne tirò fuori la corda. Era in nylon, sottile, flessibile, resistente ma non troppo. La annodò al primo appiglio che trovò dentro il vano. All’altra estremità fece un nodo a cappio. Poi calcolò approssimativamente, lungo il bordo delle ante del portello, il punto che le interessava; estrasse dal sacchetto una lama da cutter e un tubetto di colla. Spezzò la lama in segmenti sottili e taglienti e li incollò al bordo esterno del portello, su entrambe le ante, lungo la linea in cui si sarebbero incontrate richiudendosi. La colla faceva presa velocemente, provò a saggiare una delle lame ed era perfettamente attaccata. Tutto pronto.

Un’idea geniale, davvero degna di te, ragazza, mi congratulo. E adesso si va in scena.

Mentre l’aereo stava per decollare, erano esattamente le 13:23, la donna ripassò mentalmente le fasi del suo piano.

Poco dopo il decollo, raggiunta un’altitudine sufficiente, il pilota avrebbe ritirato il carrello. In quel momento, lei, nascosta nel vano carrello, si sarebbe gettata giù all’ultimo istante, con il cappio al collo. La morte sarebbe arrivata istantanea. Lo sportello si sarebbe richiuso, stringendo in mezzo alle ante la corda a cui lei sarebbe stata impiccata; senza spezzarla all’istante, secondo i suoi piani, ma cominciando lentamente a intaccarla, anche grazie alle lamette incollate lì per questo. L’aereo era diretto negli USA, perciò avrebbe cominciato presto a sorvolare l’oceano. In quota, nella stratosfera, fa parecchio freddo, e il vento dovuto alla grande velocità avrebbe solo aiutato: in pochi minuti, il corpo della donna sarebbe finito letteralmente congelato. Prima o poi le lamette avrebbero finito di tagliare la fune. Il cadavere sarebbe caduto giù, in mare. Probabilmente sarebbe finito in pezzi. Nessuno l’avrebbe mai ritrovato.

I motori rombarono. Le ruote cominciarono a girare, mentre l’aereo prendeva velocità. Si staccarono da terra.

Quando ormai mancavano pochi istanti al momento cruciale, la donna ripensò al ragazzo del bar. In quegli ultimi due giorni della sua vita, disperati e spaventosi, i pochi minuti che aveva trascorso assieme a lui erano gli unici in cui era riuscita a non sentirsi disperatamente e spaventosamente sola. Toshiro. Lei non gli aveva nemmeno potuto dire il proprio vero nome.

Il portello si stava richiudendo; ormai erano le 13:25; non c’era più tempo.

-         Mi chiamo Naomi. – sussurrò, e sperò, per quanto fosse assurdo, che lui potesse in qualche modo sentirla.

Poi si gettò giù, per morire, e diventare di ghiaccio, e poi cadere nell’oceano, e sciogliersi, e sparire per sempre nell’acqua, come un fiocco di neve.

 

FINE

  
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