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Autore: fioredaparete    21/07/2014    0 recensioni
Un nuovo esperimento scientifico, svolto da una squadra di medici specializzati in psicologia, porta ad una modernizzazione degli ordinari riformatori nello stato dell’Oregon. Ma il prototipo di questo nuovo, modernissimo, tipo di struttura non è altro che una prigione: un edificio buio, anonimo, privo di finestre e di qualunque via d’uscita. Un gruppo di ragazzi, ognuno con dei precedenti più o meno gravi, vengono selezionati per fungere da “cavie”, ma il trattamento riservatogli non servirà da pena riabilitativa, finirà bensì per farli impazzire del tutto. Scattato il coprifuoco, ogni notte i ragazzi si abbandonano ai loro istinti e desideri più reconditi, scatenando il caos e lasciando venir fuori l’animale che giace dentro di loro.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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L’ingresso nell’Istituto fu eseguito in fila indiana.

-  Approposito, io sono Aidan. Come già saprete, sono il custode del Ronald Carter Juvie. Non sono vostro amico, non sono un confidente, non mi importa un accidente di voi piccoli hooligans e di certo non sono qui per rendervi la permanenza meno difficile. Faccio il mio lavoro e il fatto che debba badare a dei ragazzini è solo un effetto collaterale.

- Il piacere è tutto nostro. – replicò Lucy, che stava concentrando tutte le sue energie nell’esaminare un’unghia, decisamente troppo lunga, su cui lo smalto si era leggermente scrostato.

Aidan fece finta di non sentirla, ma nonostante lei sembrasse completamente disinteressata, non le sfuggiva mai nulla. Notò l’irrigidirsi delle sue spalle e l’evidente sforzo che stava facendo per reprimere un probabile eccesso di rabbia. Scorse anche un tatuaggio, che ricordava il volto di una donna, sul braccio destro dell’uomo, sotto la cui pelle si intravedevano i muscoli tesi, stava ancora stringendo il blocco per appunti, con una forza tale che Lucy temette che si spezzasse in due.

- Datevi una mossa, non ho tempo da perdere.

Il custode attraversò la porta principale, che era già stata varcata da quello strano ometto con gli occhiali e pochi capelli che poco prima li aveva guardati con tanto interesse, come se stesse assistendo allo scoppio di una bomba atomica.

Lucy sputò la gomma che aveva in bocca prima di entrare. Normalmente non gliene sarebbe fregato niente delle buone maniere, ma c’era qualcosa in quell’ambiente, era un’atmosfera che le dava i brividi e, persino lei, che non aveva mai dato retta a niente e a nessuno se non a sé stessa, decise di darsi una regolata.

La gomma andò ad incollarsi sul pavimento del portico, se poteva chiamarsi “portico” lo spazio tra il nulla eterno e una sottospecie di palazzo, prima di venire calpestata dallo stivale del ragazzo mingherlino coi capelloni, quello col nome che cominciava con la M, le parve di ricordarsi.

- Ma che caz…?! – esclamò lui guardandosi la scarpa con un’espressione di disgusto misto a fastidio.

A Lucy non importò un gran che, dopotutto quegli stivali sembravano risalire alla Guerra di Secessione. Fece finta di niente ed entrò.

Dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di abituarsi alla luce fioca del corridoio principale dell’Istituto, illuminato solo da alcune lampade al neon, per la maggior parte mal funzionanti, collocate sul soffitto. Il pavimento di linoleum scricchiolava a contatto con le suole delle sue scarpe da ginnastica giallo fluorescente – ne andava fierissima.
I muri erano completamente spogli, nessun quadro, nessuna bacheca, niente di niente. Fosse stato per lei, ci avrebbe appiccicato qualche suo disegno, o li avrebbe ricoperti di graffiti.
La lampada sopra di loro era mezza rotta e la luce continuava a tremolare, mentre in lontananza si sentivano dei passetti veloci echeggiare in tutta l’abitazione.
L’idea di trovarsi per caso in un episodio di American Horror Story le solleticò la mente. "Tutti quelli che abitano in questa casa o muoiono o impazziscono.” La scacciò subito via.

Si fermarono tutti di colpo, all’apparire dello stesso ometto occhialuto che li aveva accolti. Aveva indossato un camice bianco, come i medici, e aveva un sorriso a trentadue denti stampato in faccia. C’era un non so che di inquietante in quel tizio.

- Benvenuti al Ronald Carter Juvie. Io sono Ronald Carter.

Un brivido passò lungo la schiena di Lucy.

- Voi sette siete i primi ospiti di questa nuova casa di cura, consideratelo un onore.

Nonostante quelle parole, a Lucy parve tutto fuorchè un onore. Riusciva a sentire i respiri affannosi dei ragazzi attorno a lei, allora non era l’unica a percepire la stranezza di quella situazione.

- Adesso seguirete me ed Aidan nella sala della “terapia”, dove mi parlerete un po’ di voi. Così, per… conoscerci meglio. Poi vi mostrerò le vostre stanze. Avanti, venite.

Li incoraggiò a seguirlo con un gesto della mano.

I ragazzi furono condotti lungo il corridoio principale, fino ad una scala ripida e buia, che portava al seminterrato. Probabilmente era lì che avevano allestito la sala della… come l’aveva chiamata Carter? Ah, sì, “terapia”.

Mentre scendeva i gradini, uno ad uno, stando ben attenta a dove metteva i piedi per evitare di ruzzolare giù per le scale, Lucy si guardò attorno, scrutando affondo i suoi nuovi compagni.
Il ragazzo che, all’apparenza, doveva essere di origine messicana, suscitò subito la sua curiosità. Indossava una camicia a scacchi sui toni del rosso e un paio di jeans a vita bassa, al collo portava una catena d’oro con quella che sembrava una croce appesa. Era piuttosto attraente e, per un attimo, le ricordò suo fratello.
Poi posò gli occhi sul bell’imbusto che, all’inizio, non l’aveva convinta molto. Biondo, occhi azzurri, fin troppo consapevole della sua bellezza e del suo fascino. Non le era mai andato giù quel tipo di atteggiamento. Ma doveva ammettere che aveva un non so che di misterioso e sexy… davvero sexy, e aveva un fondo schiena niente male.
D’un tratto lui si voltò e lei rimase impietrita quando i suoi occhi incontrarono quelli del ragazzo, erano tanto chiari da sembrare bianchi, solo sclera, niente iride.
Lucy sostenne il suo sguardo, sollevando un sopracciglio e sfoderando la sua espressione da rimorchio, ma lui si limitò a sollevare un angolo della bocca, quasi impercettibilmente, e a sistemarsi la sciarpa bordeaux che portava al collo, distogliendo lo sguardo e continuando a camminare.
Lo seguiva una ragazza sorprendentemente alta, con un taglio di capelli in stile giapponese – ripensandoci, avrebbe davvero potuto essere orientale per quel che ne sapeva, non aveva mai alzato lo sguardo da quando erano arrivati all’Istituto e non si sarebbe sorpresa se, una volta alzata la testa, i suoi occhi si fossero rivelati a mandorla.
Sembrava la tipica ragazza della porta accanto, non le ispirava una gran simpatia. Chissà cos’aveva combinato una bambolina come quella per finire in un posto del genere.

L’angusto corridoio in fondo alle scale terminava con una porticina blindata. Appoggiata ad essa c’era una donna, al’incirca sulla quarantina, piuttosto bella, capelli rossi che le ricadevano sulle spalle in morbide onde, occhi di quel blu-verde che Lucy associava ai vetri delle bottiglie rotte che di solito trovava nei vicoli intorno a casa sua, le labbra atteggiate a un lieve broncio. Portava anche lei un camice come quello di Carter.

- Salve, io sono la Dottoressa Olivia Montgomery, assisterò il Dottor Carter durante quest’esperienza.

Ne parlavano come se fosse uno di quegli esperimenti di scienze che ti obbligavano a fare al liceo, quelli in cui dovevi mescolare il contenuto di alcune provette e trascrivere cosa succedeva dopo.

- Aidan, potresti…?

L’uomo superò la Dottoressa e tirò fuori dalla tasca del giubbotto un grosso mazzo di chiavi, armeggiò con esso fino a trovare quella che gli serviva e aprì finalmente la porta.

La sala aveva proprio l’aria di essere stata uno scantinato in precedenza. Numerosi scatoloni erano ammucchiati agli angoli della stanza e nove sedie erano state disposte in cerchio al centro di essa.

Carter li esortò a prendere posto, mentre lui si sedeva accanto alla rossa.
Lucy capitò tra il capellone e la biondina con l’aria da dura.

- Bene. – cominciò Carter. – Ora, in ordine a partire da Trent, che siede accanto a me, ci parlerete un po’ di voi e del perché siete qui… dei vostri precedenti insomma. Cominciate dicendo ad alta voce il vostro nome e il vostro cognome, una cosa tranquilla. – Aveva un tono troppo gentile, tanto gentile da far venire i brividi. –Trent, vuoi cominciare?

- Sembra una riunione degli Alcolisti Anonimi. – commentò il giovane.

- Non è molto diverso, lo scopo è quello di guarirvi. – spiegò il Dottore.

Lucy continuava a non capire cosa ci fosse da curare. A quanto sapeva, nessuno di loro era malato, allora perché  trattarli come se lo fossero?

- Ora, per favore, Trent, potresti iniziare a parlare? – Era evidente che stava cominciando a perdere la pazienza.

Lui esitò un attimo, guardandosi intorno con aria spaesata, poi parlò.

- Mi… mi chiamo Trent Barnes, ho quasi diciassette anni.

- E perché sei qui, Trent?

- Sono stato accusato di tentato omicidio e per… tentato suicidio.

- Cos’hai fatto per arrivare alla conclusione di volerti togliere la vita? Chi era la vittima?

- La mia sorellina.

- Quanti anni ha tua sorella?

Sembrava che Carter dovesse cavargli ogni parola di bocca. Parlava con voce estremamente calma, mentre la Dottoressa Montgomery prendeva appunti su un taccuino.

Trent era rigidissimo e sembrava stesse sudando.

- Quattro.

Lucy si sentì stringere lo stomaco. Era consapevole di non essere un angelo, e sapeva che nessuno dei ragazzi presenti in quella stanza lo era, ma … provare ad uccidere una bambina di quattro anni? Sembrava impensabile persino per lei.

- E perché avresti fatto quello che hai fatto, Trent?

- Sono fatti miei.

- Rispondi. Alla. Domanda. – replicò Carter a denti stretti.

Passò qualche secondo.

- Continuava a… prendere le mie cose, a spostarle, a buttarle a terra, come se la divertisse… e poi parlava, parlava, parlava, non la smetteva più. Non volevo stare ad ascoltarla, non ero dell’umore, così le dissi di stare zitta e di andarsene, ma non mi ascoltava. Glielo ripetei, niente. Si aggrappava ai miei vestiti, diceva che voleva mostrarmi un disegno che aveva fatto, ma io non volevo vedere quello stupido disegno! Le tirai uno schiaffo, lei si mise a piangere. Le gridai di smetterla. “Smettila!” le dissi, ma non voleva saperne. Mi stava facendo impazzire. Così… la sollevai e la gettai sul letto, immobilizzandola… - Trent cominciò a rilassarsi, quasi provasse piacere a raccontare quella storia agghiacciante. – Poi presi un cuscino e glielo premetti in faccia. Lei si dibatteva, scalciava, mi graffiava... poi vidi il suo corpicino afflosciarsi, e capii che era andata. – Prese fiato, poi ricominciò. – A quel punto non sapevo più cosa fare. Presi la busta di plastica in cui era avvolto il mio maglione preferito e me la misi in testa, mi sedetti sul letto, e strinsi la presa, finchè non mi si cominciò ad annebbiare la vista, e crollai.

Vedendo che non parlava più, la Montgomery prese la parola.

- E poi cos’è successo? – chiese in tono distaccato.

- Mi svegliai qualche ora dopo, in un letto d’ospedale, circondato da agenti della polizia. Mia madre dice di avermi trovato con la testa avvolta in quel sacchetto, steso accanto al corpo inerte di mia sorella. E’ arrivata giusto in tempo per salvare anche lei, non era completamente morta. E sapete cosa? Fu una delusione saperlo.

Non tutti rimasero colpiti da quella confessione, sembrava che alla maggior parte dei presenti non interessasse.

Carter si limitò ad annuire.

- Andiamo avanti. – disse infine, rompendo il silenzio.

- Io sono Manuel Santiago, diciassette anni. Sono qui per contrabbando e commercio di sostanze stupefacenti. Insomma, niente di che, il mio capo aveva quest’impresuccia che riceveva roba importata dal Messico e dall’ Afghanistan, e quando hanno beccato lui, hanno di conseguenza beccato anche me. Più che altro ero io a fare avanti e indietro da Juàrez… sapete, ho le bollette da pagare e non mi aveva mai creato problemi.

Manuel non si faceva problemi  parlare della sua esperienza, anzi, sembrava che lo avessero incastrato ingiustamente.

Poi toccò alla brunetta, che sembrò non accorgersene.

- Ransie. – La richiamò Carter.

La ragazza strinse le dita attorno al bordo della sedia, tanto forte che le nocche sbiancarono, poi, con sorpresa di tutti, sollevò lo sguardo. Lucy restò spiazzata, aveva immaginato che quegli occhi nascondessero una sorpresa, ma di certo non qualcosa del genere. Erano grigio-azzurri, ma al momento sembravano solo grigi, un grigio sbiadito, la sclera era arrossata ed erano circondati da profondissime occhiaie scure. Aveva il viso secco e le guance scavate, e solo allora Lucy si rese conto di quanto fosse magra, clavicole sporgenti, caviglie e ginocchia ossute. Continuava a tirarsi giù le maniche del cardigan.

- Mi chiamo Ransie Nolan. – disse con voce flebile. – Ho quindici anni. Sono stata arrestata per consumo di sostanze stupefacenti e … insomma… mi facevo di eroina, quella roba costa… - sembrava che si vergognasse da morire. – Mi hanno arrestata per prostituzione.

Il biondo accanto a lei le lanciò un’occhiata obliqua.

Vedendo che lei non si azzardava a continuare, quest’ultimo prese la parola.

- Sono Christopher Lambert. Sì, come l’attore. – accavallò le gambe e si aggiustò il cappello, poi guardò Lucy, che lo stava scrutando con aria accusatrice, e le fece l’occhiolino.- Ho diciassette anni. Vediamo… da dove comincio? Ho rubato e distrutto la Porche del mio patrigno, ma chi non lo fa? Ho tentato di dare fuoco al mio liceo, l’unico ostacolo alla riuscita del piano erano le troppe persone presenti nell’edificio, troppi capaci di chiamare i vigili del fuoco in tempo. – mentre gesticolava, Lucy notò che i palmi delle sue mani erano effettivamente ricoperti di cicatrici da ustioni. – Ho voluto riprovarci. Questa volta però avevo calcolato tutto: il mio patrigno aveva questo spettacolare casale in campagna, ho rimediato qualche tanica di benzina  e mi è bastato un fiammifero per dar vita a quello spettacolo. Trovo affascinante il concetto di fuoco, sia metaforico che concreto, il legno che brucia, il calore che sprigiona, la potenza di un’esplosione, il fuoco della passione. – sottolineò quella parola con particolare enfasi e, per un attimo, a Lucy sembrò di vedere il fuoco di cui parlava riflesso nei suoi occhi, era spaventoso e bellissimo allo stesso tempo. – In pochi secondi, le fiamme raggiunsero l’abitazione e tutto splendette di una luce rossastra e invitante, era come l’Inferno in terra. Le urla disperate poi, rendevano tutto più realistico. – aggiunse con un sorrisetto soddisfatto.

- Urla? – chiese ad un tratto Carter, completamente assorto dal racconto di Christopher.

- Oh, il mio patrigno era nella casa, non l’avevo detto? Il figlio di puttana ha avuto quel che meritava.

Ci fu un breve silenzio.

Ransie continuava a tirarsi giù le maniche del giacchetto, ora sapevano tutti il perché, la biondina che sedeva accanto a Lucy si rosicchiava instancabilmente le unghie.

- Ciao a tutti, sono Marcus, Marcus Reed. – disse il capellone, facendo un cenno con la mano. – Ho sedici anni e sono qui, ebbene sì, per atti osceni in luogo pubblico. – vedendo gli sguardi interdetti degli altri, si schiarì la voce e continuò. – So cosa state pensando: non si finisce in riformatorio per una stronzata del genere. Al massimo ti tengono una notte in gatta buia e la mattina dopo ti fanno uscire per buona condotta. Ma si dà il caso che la mia condotta non sia decisamente buona. Era la trentasettesima volta che mi beccavano per strada a… eh… avete capito. Diciamo che non mi dispiace avere gente attorno, in un certo senso… ecco… sì, mi eccita. – ora gli sguardi rivolti a lui non erano solo confusi, ma completamente disgustati.

- Che orrore. – commentò la biondina.

-  Non giudicare prima di provare, amore mio.

Lei rispose con un conato di vomito e continuò a mordicchiarsi le unghie.

- Io mi chiamo Lucy Velasquez. – non fu difficile mostrarsi disinvolta, non aveva mai avuto paura di essere giudicata. – Ho sedici anni e sono stata arrestata diverse volte per rapina, lesioni, porto d'armi abusive, spaccio di droga e associazione a delinquere.

Nonostante la sua innata sicurezza, faceva fatica a parlare del suo passato nella gang di cui faceva parte anche suo fratello Ricardo. Era rimasto ucciso durante uno scontro armato con un’altra banda – quegli avvenimenti erano caratteristici del quartiere latino in cui abitavano, ogni tanto qualcuno ci rimetteva la vita. Lei si era promessa e ripromessa che avrebbe vendicato la sua morte, che avrebbe ucciso quel bastardo che le aveva portato via il suo Rick, ma ora si trovava chiusa in quella catapecchia, il che era la ragione principale della sua rabbia.

-Tutto qui. – disse infine, come per rispondere agli sguardi interrogativi che le venivano rivolti. – Non avrete altro da me.

- Va bene, Lucy, con calma. – le disse Carter, evidentemente spazientito.

“Non mi fai fessa, gnometto stempiato.” Pensò Lucy.

- Penso di non avere altra scelta a questo punto. – disse la bionda, che, in effetti, era l’ultima a mancare.

Era così piccola che Lucy pensò che la giacca di pelle e gli anfibi che indossava fossero un po’ troppo grandi per lei. Sarà stata di origine tedesca o svedese, dato il colorito bianco latte e i capelli biondissimi, con i quali contrastavano i grandi occhi marroni. Sembrava che non avesse sopracciglia, tant’erano chiare, e il suo nasino alla francese ricordava le bambole di porcellana con cui giocavano le bambine ricche che Lucy aveva tanto invidiato durante l’infanzia.

- Il mio nome è Mckenzie Howard, ho appena compiuto sedici anni e sono qui per rapina a mano armata e oltraggio a pubblico ufficiale. – dagli sguardi, sembrava che tutti stentassero a crederci. Christopher aveva l’aria divertita e sembrava sul punto di scoppiare a ridere, Trent la guardava ad occhi sbarrati e Marcus sembrava provare una sincera ammirazione nei suoi confronti. – No, non ho una banda al seguito o cose del genere, ho fatto tutto da sola. E risparmiatemi quelle domande idiote del tipo “dove se l’è procurata un’arma uno scricciolo come te?”. Papà ha un sacco di bella roba in cassaforte, mi servivano i soldi per un concerto e se avessi preso quelli se ne sarebbe accorto sicuramente, quindi presi una calibro 22 e andai alla gioielleria più vicina. Vidi che funzionava e allora continuai, dopotutto era proficuo, finchè quel ciccione di un poliziotto non mi ha fermata, mi sembrava crudele ucciderlo, perciò gli ho sparato ad una gamba, ho preso la moto e me la sono data a gambe. Avrei dovuto ucciderlo, adesso non sarei qui…

Lucy stentava a crederci, in fin dei conti, lei era una dei soggetti meno preoccupanti all’interno di quel gruppo di squilibrati.

- Molto bene. Adesso vi faremo fare un giro turistico della struttura e infine vi mostreremo le vostre stanze. – annunciò Carter con espressione soddisfatta.

C’era qualcosa nel modo in cui aveva detto “giro turistico” che lo faceva suonare come il nome di una strana, nonché particolarmente crudele, tortura cinese.


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NOTA DELL'AUTRICE : Ciao a tutti! Come avrete notato, fino ad ora ho raccontato la storia facendola vedere soprattutto dal punto di vista di Lucy. Andando avanti, la vicenda sarà raccontata anche attraverso gli occhi degli altri protagonisti, avrete modo di conoscere le loro storie più approfonditamente e di capire più affondo le loro personalità. Spero che l'idea e la storia in sè vi piacciano, buona lettura :) ( ah e perdonate gli errori di battitura, sicuramente numerosissimi, ma la mia tastiera fa brutti scherzi)
Carli.
  
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