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Autore: AlfiaH    22/07/2014    4 recensioni
« Non renderlo più difficile di quanto non lo sia già » sussurra e non può non cingergli le spalle con le braccia, non può non stringerlo a sé, non può negarsi quel contatto. Non sa nemmeno come abbia fatto a non abbracciarlo per tutto quel tempo, non riesce a credere di essere stato così forte, e spera con tutto se stesso di esserlo ancora, per entrambi.
[JOHNLOCK - Post Reichenbach falls]
Genere: Angst, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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So Cold



Un altro giorno di pioggia.
Sembra non voglia proprio smettere di piovere da quando lui è se ne è andato, come se il cielo e la stessa volontà divina (scienza, Lui la definirebbe scienza) non riuscissero a smettere di piangere la sua assenza.
Sentimentale; Lui lo definirebbe sentimentale.
Il cielo, ovviamente, non piange, direbbe. Pioggia; soltanto un incontro di correnti, una reazione chimica.
Eppure John non riesce a non credere in quella malata e divina solidarietà che avvolge Londra nel grigiore più cupo, lo stesso che avvolge il suo cuore fino a soffocarlo. Sembra così calma ora che la guarda tra le strisce umide sulla finestra di Baker Street, innaturale, ordinata, in lutto.
È riuscito a portare con sé il caos cittadino, i rumori molesti, i crimi efferati, i colori vivi, l’anima di Londra, tutto ciò che vi era di vivo e animato. D’altro canto, Lui non potrebbe vivere senza la sua amata città e John lo odia per non avergli lasciato nemmeno quella, nemmeno Londra.
S’è portato via tutto, il bastardo.
Sentimentale, ancora: i cuori non soffocano, le città non vivono, i morti sono solo morti.
“Quando morirò non lasciare a Mycroft il mio cadavere. Non voglio che mi apra il cervello nell’intento di scoprire il segreto della mia intelligenza. Ne sarebbe capace, ne è sempre stato invidioso”
Gli pare quasi di sentire la sua voce esasperata, lo immagina alzare gli occhi azzurri al soffitto con un gesto plateale delle braccia, e non può trattenere un sorriso mentre i ricordi tornano a galla, poco alla volta. 
Si chiede quanto effettivamente Lui apprezzasse quel suo lato romantico, se davvero lo disprezzasse così tanto, e non può far a meno di ripensare alla gratitudine che affiorava nei suoi occhi ogni volta che gli faceva un complimento, alla tiepida gioia che comunicavano quando lo invitava alla finestra a guardare le stelle – sbuffava sempre, quel testone
Ripensa a quanta indifferenza invece ostentasse quando si trovava a leggere i messaggi poetici di John indirizzati all’una o all’altra ragazza.
“Dovresti fare il poeta, sai, John? Le donne cadrebbero ai tuoi piedi” gli diceva,  premurandosi di mascherare l’irritazione ed il risentimento per quell’innocente tradimento con il suo tono tagliente, e si voltava verso la finestra, consapevole di quanto i suoi occhi potessero tradirlo in quel momento.
“Scrivo già un blog, non ti sembra abbastanza? E l’unico uomo che vorrei cadesse ai miei piedi neppure lo legge” rispondeva John con un ghigno vittorioso, poggiandogli le labbra sulla spalla, intenerito da quella piccola ed ingiustificata scenata di gelosia.
C’erano stati fraintendimenti, inviti amichevoli interpretati male, lui poteva leggere la sua posta in qualunque momento e John non s’era mai adoperato più di tanto affinché non accadesse.
Gli piaceva ferirlo, ogni tanto, quando cominciava a blaterare sull’inutilità dei sentimenti, scriveva qualche riga sdolcinata al primo numero che gli veniva in mente, senza inviarla mai veramente. Sapeva che lui l’avrebbe letta.
Una piccola vendetta, una ferita per una ferita, una dimostrazione: la gelosia è un sentimento, gli diceva.
 Allora lui afferrava il suo violino per suonare qualcosa, John gli preparava del thè; si chiedevano scusa in silenzio.
John non sapeva mai cosa stesse suonando, non ha mai chiesto, non gli è mai importato. Il violino sembrava prendere vita tra le sue mani e melodie che riusciva a produrre erano così belle, così perfette che dar loro un nome, ridurle ad un semplice nome, una banale definizione, sarebbe stato a dir poco oltraggioso. Solo ora John se ne pente.
Per non avergli chiesto quale fosse il suo compositore preferito, per non avergli chiesto cosa amasse suonare di più, se avesse davvero qualche preferenza, se avesse mai pensato di suonare in un’orchestra, se avesse mai suonato in una chiesa, perché proprio il violino.
Si chiede se Lui l’abbia odiato per quelle vendette, se l’abbia amato di meno, vorrebbe domandargli se ha mai pensato di non perdonarlo.
Pensava di conoscere le risposte, le dava per scontate, ma ora dubita, dubita di ogni cosa, perché ora non può guardarlo, ora non c’è più, e non c’è nessun modo di essere sicuri di qualcosa, di qualsiasi cosa, se non quello cercare conferma nei suoi gesti, nei suoi occhi.
Ma ora non può, ora non c’è più nulla.
Ora sono tornati i suoi problemi di fiducia, a braccetto con la sua zoppia, ed il dottore non si fida nemmeno di se stesso, lui che si è fidato dell’uomo (gli ha dato della macchina, santo cielo, della macchina. Come ha potuto?) più inaffidabile della Terra tanto da riporgli tra le mani la sua stessa vita. E quando quello stesso uomo gli ha apertamente confessato di averlo ingannato, lui, John Watson, non gli ha onestamente creduto – perché nessuno può fingere di essere un idiota per così tanto tempo – e la sua fiducia è rimasta così, cristallizzata ed incrollabile, negando l’evidenza, negando qualunque cosa avesse bisogno di negare.
D’altro canto come poteva non fidarsi?
Problemi di fiducia; ora gli viene quasi da ridere.
Si pente di tante cose, John, ma certamente non di questa. Vorrebbe soltanto più tempo per rimediare alle sue mancanze, più tempo con lui, più tempo per dirgli tante cose. Stava per saltare da quel tetto e John  non era pronto, non è riuscito a dirgli che lo amava, come ha fatto Lui nel suo biglietto. È rimasto in silenzio mentre Lui decideva per entrambi e poi semplicemente ha urlato il suo nome.
Adesso glielo direbbe, glielo ripeterebbe all’infinito, glielo sussurrerebbe all’orecchio come un segreto, come ha fatto mesi prima aggrappandosi alla sua giacca per l’emozione troppo forte, oppure lo urlerebbe a squarciagola come quando facevano l’amore.
Andrebbe bene in ogni caso, lo aiuterebbe a sentirsi meno in colpa.
Invece ha solo quella zavorra gelata nel petto, che lo ancora al suolo, sul pavimento di Baker Street, che minaccia di spaccarsi in tante piccole schegge, lacerando la carne, stillando sangue. Rimane incastrata tra le costole, avvelena i polmoni come il catrame, come un cancro; è radicato nel suo cuore e si dirama per il suo corpo, gli paralizza le gambe e gli chiude la gola, gli impedisce di parlare perché quando prova ad aprire bocca la sua voce si strozza in un singhiozzo e muore in un pianto umiliante.
Potrebbe farlo lì, in quella che è stata casa loro, che ora non è niente più che un amaro ricordo. Potrebbe piangere e sfogare il suo dolore, potrebbe distruggere quelle apparecchiature polverose e piangere, strappare quello smile giallo dalla parete e piangere, piangere, piangere, fino a non avere più lacrime.
Ma non è pronto per spaccare tutto, non è pronto per lasciar andare quel dolore.
Senza si sentirebbe vuoto, non ci sarebbe più nulla a riempire quella voragine nel petto.
Allora permette a se stesso di osservare (osservare, non guardare, glielo ripeteva sempre. Dio, quanto gli manca quella voce seccata) un’ultima volta il silenzioso appartamento (è tutto così silenzioso da quando è scomparso), imprimendolo a fuoco nella mente prima di chiudersi la porta alle spalle.
E lascia che, ancora una volta, sia Londra a piangere per lui.
 
 ​Oh, you can't hear me cry
See my dreams all die
From where you're standing
On your own.
It's so quiet here
And I feel so cold
This house no longer
Feels like home.

 
 
 

 

« Il dottor Watson non l’ha presa bene come pensavi ».
 
John una volta gli ha fatto notare, sempre con affetto, certo, ma non senza una buona dose di ironia, che il passatempo preferito della famiglia Holmes è avere ragione. Passatempo, poi, non è nemmeno il termine più esatto. Una prerogativa, ecco, propria della famiglia Holmes, da Violet – donna amabile ma che detesta sentir ragioni – a Sherlock che ora, dopo due settimane dal suo ritorno, si trova costretto ad ammettere che forse, in parte, è anche colpa sua se John si è dimostrato così infantile e rancoroso nei suoi confronti, e che forse quel pugno se l’è davvero meritato.
Altra buona parte della colpa va a Moriarty e, senz’altro, a Mycroft.
Forse se fosse saltato fuori da una torta, John l’avrebbe presa meglio.
Forse no.
In ogni caso, nonostante Sherlock detesti non avere ragione – come ogni Holmes che si rispetti – non può negare l’evidenza che Mycroft sta bellamente sottolineando.
No, John non l’ha affatto presa bene come pensava.
Certo, non si aspettava che gli buttasse le braccia al collo, ma da quando è tornato dalla sua-falsa-morte non c’è stato altro che silenzio. Ostinato ed incrollabile silenzio, e Sherlock si è trovato ad affrontare un monologo interiore e a chiedere al se stesso di anni prima come abbia fatto a sopportare la solitudine tanto a lungo.
Quindi si, suo fratello ha ragione (come sempre), il detective ne è pienamente consapevole – Dio solo sa quanto sia difficile dare torto a Mycroft; Dio solo sa quanto siano irritanti le loro cene di famiglia.
Sherlock rabbrividisce al solo pensiero, alzando gli occhi al cielo, irritato.
Lo odia quando si intromette nella sua vita, lo odia ancor di più quando si intromette nella sua vita sentimentale. In realtà lo odia praticamente sempre ma questa non è una novità.
 
« Forse dovrei riprendere in considerazione l’idea della torta, allora ».
Fa la propria mossa; la mano ferma, un leggero movimento del polso, lo sguardo fisso in quello del suo avversario. Aspetta il suo prossimo turno.
« Forse dovresti prendere in considerazione l’idea di lasciarlo in pace. Ha la sua vita, ora ».
La sua vita. Ha la sua vita e io non ne faccio parte.
Basta quel pensiero a scuoterlo fino in fondo all’anima, a farlo vacillare. John è stato chiaro, non vuole più vederlo ma Sherlock sa che è solo questione di tempo, sa che il dottore, il suo dottore lo perdonerà come ha sempre fatto. Lo sa, ne è convinto, eppure non riesce a scacciare quell’opprimente peso all’altezza del petto, il terrore puro di averlo perso per sempre che fa a pugni con la ragione, con la consapevolezza. Ancora, appollaiato sulla sua spalla, il senso di colpa che gli sussurra cose orribili; dall’altra parte la flebile voce della speranza; il rancore velenoso nella sua gola; le mani impregnate di rabbia. Gelosia: delle più devastanti.
Meno logorante del rancore, decisamente più fastidiosa del senso di colpa – d’altronde è un sociopatico iperattivo, lui, il senso di colpa non gli appartiene per natura.
Il dottore era con una donna, Mary, la sua fidanzata, e stava chiaramente per chiederle di sposarlo quando Sherlock ha fatto la sua compara – non nel migliore dei modi, deve ammetterlo, ma buono abbastanza da evitare l’irreparabile. Un altro appuntamento rovinato (quanti gliene aveva rovinati fino ad allora?), un’altra donna che l’avrebbe scaricato (ricorda ancora l’ultima e l’occhiata carica d’odio che gli lanciò prima di uscire da Baker Street) e sarebbe tornato tutto come prima. Avrebbero riso, avrebbero chiamato un taxi, John gli avrebbe tenuto il broncio per qualche giorno e poi sarebbe tornato a Baker Street. Sherlock avrebbe suonato per lui, gli avrebbe chiesto scusa e lo avrebbe baciato, aspettando che John lo spingesse contro una parete o sul pavimento, sulla poltrona, sul tavolo, ovunque volesse spingerlo, il detective non avrebbe fatto resistenza.
Invece John ha preso un taxi con lei, non è tornato a Baker Street, ha dormito nel suo letto – nella migliore delle ipotesi hanno dormito, nella peggiore non hanno avuto bisogno del letto.
Voleva chiederle di sposarlo. Lei non è come le altre, John non è uno sprovveduto.
Serra le labbra, gli manca l’aria.
Non che non ci abbia pensato in quei tre anni, ma l’impatto visivo è stato più straziante del previsto – John che cena con un’altra persona, John che stringe un’altra persona, John che bacia un’altra persona, John che ama un’altra persona tanto da voler passare la propria vita con lei.
John mi avrebbe mai chiesto di sposarlo? Ha mai desiderato passare la sua vita con me?
Non crede nell’istituzione del matrimonio, Sherlock, ma per John farebbe un’eccezione, ne è sicuro. Con John andrebbe bene, andrebbe tutto bene.
Gonfia il petto e sospira con fare scocciato – respira, Sherlock, respira – socchiude le palpebre e ricaccia indentro tutte le emozioni traditrici che tentano di trapelare dai suoi occhi, disintegrando la sua mera maschera di strafottenza. E che Dio lo aiuti, spera che suo fratello abbia almeno la decenza di non fare commenti in proposito.
“I sentimenti non sono un vantaggio, Sherlock”.
Non risponde a Mycroft – né a quello che ha davanti né a quello nella sua testa – perché non fa in tempo a schiudere le labbra che il signor-governo-inglese ricomincia a parlare.
« Ti avevo avvertito, Sherlock. Sai che non mi piace rigirare il coltello nella piaga… »
 Il tono ipocritamente mellifluo, le sopracciglia leggermente aggrottate, le due rughe al centro della fronte, le labbra stirate in modo rigido e quella luce, quella dannata luce negli occhi che fa da specchio, che riflette i sentimenti altrui e non lascia intravedere i propri, qualora vi siano. Una superficie inattaccabile, fredda e dura.
Quanto lo odia.
Non gli lascia terminare la frase, si sporge in avanti e congiunge le mani sotto il mento, l’espressione tagliente.
« Ma davvero? Posso affermare con certezza che invece è uno dei tuoi passatempi preferiti. Quando non sei in giro a scatenare guerre, ovviamente ».
« Mi preoccupo per te ».
Il politico gli rivolge un sorriso comprensivo, accomodante, mentre allunga una mano sul gioco da tavolo per fare la sua mossa, come una madre che tenta di convincere il proprio – stupido –  figlio adolescente in piena crisi ormonale che saltare addosso alle ragazze è una cosa moralmente sbagliata.
Capisco quello che provi, ma non si fa sembra urlare ogni fibra del suo corpo e Sherlock semplicemente non lo sopporta.
Perché Mycroft non capisce, non può capire.
Lo guarda dall’alto, chiuso nella sua bella stanza a specchi, lo guarda come un re compassionevole guarda i propri sudditi, zotici e sporchi. Non si abbassa ai suoi livelli, non si abbassa a capire ciò che prova, a sentirlo sulla sua stessa pelle. Conosce i suoi sentimenti e ne ha pietà. E basta.
Forse lo capiva un tempo, quando era giovane, forse anche lui ha sperimentato l’amore sulla propria pelle e se ne è pentito, ne ha rimosso il ricordo come si rimuovono le informazioni inutili e ora non lo comprende più, non ha più gli strumenti – quel piccolo organo pulsante al centro del petto – per farlo. Forse qualcuno gliel’ha portato via anni addietro, forse qualcuno gliel’ha rotto, forse ha semplicemente lasciato che si arrugginisse. Sherlock non lo sa, non ha mai indagato.
« Capisco la tua esigenza di immischiarti nella mia vita sentimentale, dal momento che purtroppo non ne hai una tua, ma io so esattamente come comportarmi con John. Magari ne serve una anche a te ».
So esattamente come comportarmi con John.
Solitamente il detective non apprezza le persone prevedibili – non apprezza le persone in generale, in realtà – ma in questo caso è felice che il suo dottore sia oggettivamente uno di esse. Sa con certezza – e spera vivamente – che prima o poi commetterà uno sciocco errore umano e lo perdonerà perché lo ama troppo per non perdonarlo, perché, dopotutto, a discapito di ciò che dice la gente, anche Sherlock lo ama e non potrebbe essere diversamente.
A dividerli ora c’è solo quella donna, qualche kilometro di distanza e qualche piccolo problema di fiducia; sono passi avanti, si dice, considerando che giorni prima si frapponeva tra le loro vite uno stato irreversibile come la morte, più precisamente la sua.
Arriccia le labbra verso l’alto quando la mano di suo fratello trema appena e come ovvia conseguenza l’Operation suona, il naso sferico di un rosso acceso, avvertendolo dell’errore commesso, lasciandolo con un piccolo cuore di plastica tra le pinzette metalliche e un’espressione contrariata dipinta sul volto.
« Non ho bisogno di una vita sentimentale ».
« Non sai curare un cuore infranto, fratello. Rivelatorio, non credi? »
Curalo con la sua stessa medicina.
« Non ho tempo di occuparmi di cuori infranti, Sherlock, e non ne hai nemmeno tu. Ti ho già fornito tutte le informazioni necessarie, è ora che tu ti metta a lavoro. La patria ha bisogno di te ».
« Molto bene.  Per questa volta io e John accettiamo il tuo caso ».
 
 
Oh, when you told me you'd leave
I felt like I couldn't breathe
My aching body fell to the floor
Then I called you at home
You said that you weren't alone
I should've known better
Now it hurts much more.

 
 



 
Quando la porta si chiude alle loro spalle, John batte la nuca contro una parete con abbastanza forza da rimanerne stordito per un attimo, ma non è questo che gli fa perdere l’equilibrio, tanto da doversi aggrappare al cappotto di Sherlock.
È l’emozione troppo intensa, troppo sconvolgente, è la sensazione delle sue labbra sulle proprie – così disperatamente agognata – a fargli tremare le ginocchia, come il loro primo bacio di tanti anni prima.
Stringe le dita attorno al bavero del suo cappotto, quello che alza per mettere in evidenza i zigomi. Dio, quanto ama quegli zigomi.
È un riflesso, lo stringo per non cadere si giustifica, ma riconosce che è sciocco, terribilmente sciocco da parte sua, perché non può giustificare l’altra mano che scorre sulla sua nuca, incastrandosi tra i ricci scuri – Dio, quanto ama quei ricci – e non può assolutamente giustificare se stesso quando schiude le labbra e lascia libero accesso alla sua lingua.
La verità è che in quel momento non riesce a pensare ad altro se non al corpo di Sherlock che lo schiaccia contro la parete (potrebbe una macchina emanare tanto calore?), alle sue mani sul suo viso e alla sua bocca, bollente, bollente quanto l’Inferno.
L’Inferno delle strade di Londra, l’Inferno che amava e che si è portato via, quello che sa di Earl Gray e di quotidianità, pericoloso quant’era pericolosa la loro vita assieme, tanto familiare e desiderato da far male.
Solo quando la coscia del detective scivola tra le sue gambe ritrova la lucidità e la forza per allontanarlo – non così tanto, non quanto dovrebbe.
I suoi occhi sono socchiusi, ma nella penombra dell’appartamento il medico riesce a scorgere quelle iridi particolari che pizzicano sotto le palpebre, rese lucide e luminose dalla luce artificiale che trapela dalla finestra, e sa che Sherlock sta studiando il suo corpo e la sua espressione con la confusione dipinta in volto e le labbra ancora semichiuse.
Prova a dire qualcosa – dì qualcosa, John, qualunque cosa – ma il gelo attorno al suo cuore minaccia prepotentemente di spaccarsi sotto l’insistente accelerare dei suoi battiti e John può quasi sentire le schegge affilate conficcarglisi nella carne, lacerando tutto ciò che di dignitoso è rimasto nella sua persona, orgogliosamente sprangato con le più possenti delle travi nel suo petto, per così tanto tempo (tre anni, tre lunghissimi anni) che Watson stenta a credere che qualcosa vi sia ancora dietro quella barriera di ferro e legno, qualcosa che ora tenta di scivolargli via dal corpo, un dolore che furiosamente combatte per uscire, diverso dalla rabbia sfogata giorni prima, così disperatamente profondo da non riuscirne a vedere la fine.
Digrigna i denti, le sue nocche sbiancano sulla stoffa ed in quel momento Sherlock pare capire la sua lotta interna perché poggia la fronte sulla sua, le loro labbra ancora troppo vicine, e gli accarezza uno zigomo col pollice con una dolcezza che appena cinque anni prima non avrebbe usato per nessuno, più violenta di un pugno nello stomaco.
« John, stai piangendo ».
In quel momento John sa di aver perso.
Tutto ciò che l’ha legato a Sherlock in quegli anni sta scivolando via ed ha paura di ciò che adesso riempirà il suo cuore, non è sicuro che possa davvero essere riempito da qualcos’altro.
Tutto ciò che di bello c’è stato nella sua vita dopo quella disastrosa caduta è stato eclissato da quel dolore; l’amore per Mary, il successo a lavoro, l’arrivo di un figlio, il suo ritorno dal mondo dei morti, ed ora come ora, mentre il detective tenta goffamente di fare i conti con le sue lacrime, la sua paura più grande è quella di non riuscire a dare la giusta priorità a chi lo merita davvero, alla donna che ama, alla sua famiglia.
Tenta di ignorare il suo tono stupito e gli poggia le mani sul torace, imponendo una distanza tra i loro corpi che gli consenta di respirare.
« Pensavo odiassi costatare l’ovvio ».
« Perché? »
« Dici sempre che lo trovi stupido, inutile e… »
« Perché stai piangendo, John? »
Il tono di Sherlock è spazientito, il medico sente i suoi occhi che gli trapassano la schiena mentre lo supera velocemente e gli sfugge una risata isterica perché mai le parole gli sono parse così difficili da pronunciare.
Perché ti amo. Perché la mia vita è stata un completo disastro da quando ti ho incontrato e vorrei che tornasse ad esserlo e mi odio per questo. Perché mi sei mancato e non ho avuto il coraggio di lasciarti andare, perché volevo tenerti con me finché non sarei stato pronto ad andare avanti e non lo sono mai stato. Perché sono debole e se svuoto il mio cuore di questo dolore è solo per riempirlo di te, di nuovo.
E ancora mi odio per questo.
 
« Non lo so, Sherlock. Io… »
Fa un respiro profondo, i palmi piantati sul tavolo di legno.
« Tra tre settimane mi sposo, Sherlock. L’invito è nella giacca e… »
« John… »
« No, fammi finire. Mary aspetta un bambino, diventerò padre, mi sposerò. E questo… » fece una pausa e scosse il consulente per il bavero prima di lasciarlo andare.  « Tutto questo non è giusto ».
È come se non parlasse da anni, come se, dopo una complicata operazione chirurgica, le sue corde vocali non fossero pronte per un simile sforzo, perché la voce che fuoriesce dalla sua bocca è sottile e roca, così flebile che il proprietario non è sicuro che il destinatario abbia ricevuto il messaggio, ed in effetti non vi è alcuna risposta. John lo conosce abbastanza da sapere che i suoi silenzi non promettono nulla di buono pertanto decide di continuare, augurandosi che la sua voce possa bastare per entrambi.
« Io ho la mia vita ora. La amo così com’è, ne sono… Felice. E lo sarai anche tu un giorno, sicuramente. Sono sicuro che sarà così, deve essere così perché… »
Questa volta una risposta non tarda ad arrivare; non che sia una vera e propria risposta, in realtà, dato che non c’è nessuna effettiva domanda, ma Sherlock non sembra intenzionato ad ascoltare oltre perché è tutto decisamente troppo e persino John se ne rende conto. Fissa i cocci della tazza che il detective ha scaraventato contro la parete, ora sul pavimento in mille pezzi. Proprio come il suo cuore, pensa. Ha sempre trovato un po’ inquietante questa sua mania di razionalizzare, di concretizzare l’astratto per catalogarlo, e ora che osserva quella ceramica spaccata con così tanta violenza non può fare a meno di chiedersi se, interiormente, il cuore di Sherlock abbia fatto altrettanto rumore rompendosi, perché lui davvero non ha avuto il coraggio di sentirlo. Si sente un codardo, un dannato codardo, ma gli occhi bruciano e non riesce a guardarlo, non riesce a girarsi finché Holmes non lo costringe, afferrandolo prima per una spalla e poi per il bavero della giacca, le dita tremanti e gli occhi umidi, come quella sera a Baskerville quando gli ha confessato di essere terrorizzato e John si vergogna tremendamente di essere la causa di quel crollo emotivo. D’altro canto anni prima Sherlock è stata la causa del suo.
È sempre stato un farsi del male a vicenda e basta questa consapevolezza a fargli sanguinare il cuore.
 
« Sherlock… »
« Felice? Felice, John, davvero? È per questo che piangi? Perché sei felice? È per questo che zoppichi di nuovo? Santo cielo, John, tu neghi l’evidenza! » ringhia, la voce colma di risentimento. « Tu hai bisogno di me. ti ho chiesto scusa, John. E tu mi hai perdonato. Cos’altro vuoi che faccia? Come puoi anche solo pensare che io possa essere felice senza di te? »
Non risponde, John, poggia le mani sulle sue e Sherlock pare placarsi un poco, la presa sulla stoffa meno salda.
« Tu. Tu mi hai reso così, John. Assumiti le tue responsabilità perché senza di te non voglio più esserlo ».
Stavolta è Sherlock ad essere a corto di parole come poche volte nella vita – e nella morte. Così stupido vorrebbe dire, così spaventato, così disperato, così innamorato, ma non esiste un termine che implichi anche gli altri. Spera che John capisca. Spera tante cose in quel momento.
« Troverò il modo di riportarti a casa. Sai che non puoi resistermi quindi perché anche solo tentare? »
« Non renderlo più difficile di quanto non lo sia già » sussurra e non può non cingergli le spalle con le braccia, non può non stringerlo a sé, non può negarsi quel contatto. Non sa nemmeno come abbia fatto a non abbracciarlo per tutto quel tempo, non riesce a credere di essere stato così forte, e spera con tutto se stesso di esserlo ancora, per entrambi.
La verità è che lo ama. Lo ama in modo così completamente diverso da come ama Mary da farlo sembrare spaventosamente sbagliato, oscenamente masochistico, perché non si può amare la bellezza o pensare di farlo, non si può ricercare la pacata felicità, quella che tutti cercano e che tutti giustamente meritano, ed essere inevitabilmente attratti dall’autoannientamento, da tutto ciò che di sbagliato e masochistico possa coesistere in un singolo individuo. Nella vita reale è giusto che un uomo, giunto ad una certa età, la smetta di atteggiarsi a folle e si assuma delle responsabilità, è giusto che pensi al futuro della propria famiglia, è giusto che cominci a vivere per qualcun altro ed in realtà John teme di essere  stato un adulto fin dalla nascita perché in effetti ha sempre vissuto per qualcun altro e non ha mai trovato nulla di riprovevole in questo, mai prima di adesso. La vita reale, dice Sherlock, è limitata: niente acerrimi nemici, solo fidanzati, fidanzate, amici, mogli, figli, mariti; non si è mai reso conto, John, di quanto la sua vita fosse tediosa e limitata prima di incontrarlo, e si chiede cosa sia quello che invece ha vissuto insieme a lui, quella vita di inseguimenti e pericoli, si chiede se sia possibile tornarci semplicemente chiudendo gli occhi, come in un bel sogno. Se fosse possibile, John lo farebbe.
Si è sempre schierato dalla parte della cultura e della morale, ha sempre rimproverato a se stesso e agli altri quel brivido di piacere che si prova a trasgredire una regola, ombra di una natura civilizzata, e si è illuso per tanto tempo di poter trovare così una felicità che fosse incrollabile e sopravvivesse al tempo stesso. Ma la verità è che l’uomo, inteso come groviglio di coscienza e morale, non è fatto per la felicità, tanto meno per una che perduri negli anni. Solo quando Sherlock lo bacia, John lo capisce.
Perché è felice di dannarsi, è felice di rinunciare a tutto ciò in cui crede di aver creduto per quelle labbra, per poi pentirsene subito dopo, quando torna alla vita reale, e convenire con se stesso, dopo un lungo monologo interiore, di aver fatto una gran cazzata.
« Rimarrò qui solo per stanotte, domani mattina andrò via ».
« Se riuscirai ad andartene, John ».
« E in nome di tutto ciò che è rimasto della nostra amicizia, tu mi lascerai andare »
 
 Arriva il momento in cui bisogna scegliere se rimanere incastrati in questo ciclo infernale per brevi, quanto soddisfacenti, sprazzi di felicità intermittente o sceglierne una meno intensa, che faccia meno male al cuore e alla propria sanità mentale.
Purtroppo negli anni vissuti insieme Sherlock ha appreso quanto John sappia essere un buon medico.
 
 
You caused my heart to bleed and
You still owe me a reason
'Cause I can't figure out why...
Why I'm alone and freezing
While you're in the bed that she's in
And I'm just left alone to cry

 

 

« Non sai allacciare una cravatta? »
John.
L’ha sentito salire le scale, l’ha sentito aprire la porta ma l’ha ignorato per principio: non riesce a cancellare dal suo palazzo mentale il rumore familiare dei suoi passi e ne è frustrato    .
 In più la detestabile cravatta che ha al collo non vuol proprio saperne di allacciarsi, nonostante i tutorial seguiti su Youtube e i sapienti consigli di Mrs. Hudson, e Sherlock è profondamente deluso da se stesso perché, santo cielo, lui risolve crimini e non riesce ad allacciare una stupidissima e maledettissima cravatta. Probabilmente John ha impiegato pochi secondi ad allacciare la propria.
Nessun motivo apparente giustifica la sua presenza a Baker Street se non quello più ovvio; o forse è venuto per essere certo che indossasse quella schifosa cravatta.
Maledizione.
« In mia difesa posso dire di non averne mai indossata una. In certe occasioni la pratica è essenziale ».
« Non hai mai indossato una cravatta? »
« Non di mia spontanea volontà. Non sono stato a molti matrimoni, in effetti ».
È stupito. A quanto pare nella vita reale le persone indossano cravatte come si indossano le scarpe e riescono a non soffocare. Sherlock non ne comprende l’utilità, come non comprende quella dei matrimoni, e onestamente non tiene a farlo, non senza John ad insegnarglielo.
« Non devi metterla per forza ».
« La signora Hudson non è del tuo stesso avviso. Ti costringerà a sposarti senza un testimone piuttosto che con un testimone vestito in modo così sciatto ».
Il medico sbuffa una risata, il detective arriccia le labbra verso l’alto e scioglie con stizza il groviglio di stoffa che si è formato attorno al suo collo, cercando di controllare di regolare il respiro e concentrarsi unicamente sul suo riflesso nello specchio: capelli pettinati, espressione appena troppo contratta – John darà la colpa all’irritazione –, labbra nuovamente rigide, occhi dello stesso colore di sempre.
Sembra tutto a posto, tutto normale, tranne il leggero tremore alle mani che complica esponenzialmente l’ardua impresa; spera che John non lo noti. Vuole che se ne vada. Perché non può semplicemente andarsene?
« Serve una mano? » chiede, la sua immagine che appare prontamente accanto alla propria. Gli allontana le mani dalla stoffa e Sherlock sbuffa infastidito e deve trattenersi per non sussultare a quel contatto, per non lasciare che la prepotente consapevolezza di quanto gli sia effettivamente mancato sulla pelle lo travolga e lo porti alla deriva.
Fa ancora sorprendentemente male.
Gli esperti dicono che dopo una separazione potrebbe far male per anni; Sherlock non ha tutto questo tempo e infondo morire con quel dolore nel petto non gli dispiacerebbe così tanto.
Come immaginava, John è perfettamente in grado di allacciare una cravatta. Eppure lo fa con estrema lentezza, come se non fosse sicuro del procedimento da eseguire; temporeggia.
« Sei nervoso? »
Domanda stupida, John.
« Non sono io quello che sta per sposarsi ».
« Ti tremano le mani ».
Come non detto.
« Lo ammetto, sono un po’ fatto » esclama, le labbra piegate in un sorriso, le mani che si torturano dietro la schiena. Vorrebbe baciarlo adesso, proprio mentre ride. Potrebbe; John non lo respingerebbe. Lo prenderebbe come un addio; forse lo sarebbe davvero.
« Perché sei qui? » chiede invece. « Hai compreso i tuoi errori e hai deciso di fuggire in Florida con me? »
« Florida? Lasceresti Londra per andare in Florida? »
« Tu fuggiresti con me? » domanda, il tono così incredibilmente serio da stupire persino se stesso, mentre i suoi occhi si spostano sulle dita del dottore che indugiano sul suo petto, tremando visibilmente. Dovrebbe precisare che si tratta di una battuta, ma entrambi conoscono la speranza e il desiderio che stillano da quelle parole, l’effetto devastante che una qualsivoglia risposta potrebbe provocare, ed entrambi tacciono mentre Watson tira un sorriso e lo lascia andare. « Come vedi, il sistema britannico non ha mai corso alcun reale rischio di perdermi ».
« Ho visto un’auto nera girovagare attorno a casa nostr-… » Serra le labbra per un attimo, poi riprende « casa tua » e per il consulente è come una stilettata al ventre.
« Lo so ».
« Lo so che lo sai. Mi chiedevo cosa avesse Mycroft da proporti questa volta. Sai, per venire fino a Baker Street deve esser importante ».
« Partirò. Non per la Florida, certo ».
Silenzio.
« Dove andrai? »
« Non lo so ancora. Mycroft dice che ci vorranno sei mesi ma conto di finire molto prima » dice infilando la sua giacca.
« Quindi tornerai ».
No, non tornerò, John.
Mycroft ha ragione, ha sempre avuto ragione su ogni cosa, persino su di noi, persino su di me. Mi ha chiesto di non partire, ma la sua parola non conta.
Se me lo chiedessi tu, John, non partirei. Vorrei tanto che tu lo facessi, che mi costringessi a restare. Forse se te lo dicessi, se ti dicessi che morirò, mi fermeresti.
Forse verresti con me.
Mi guarderesti le spalle e io non morirei; magari moriremmo entrambi. Non avrebbe alcuna importanza, se tu fossi con me.
Non ho nessun posto dove tornare.
Inconsapevolmente devo aver vissuto dentro di te, John, perché senza di te persino rientrare al 221B di Baker Street è diventato straziante. Come essere costretti a vivere in casa di qualcun altro, qualcuno che sopporti a malapena.
Come vivere in casa di Mycroft, ad esempio.
Avevo la solitudine a proteggermi e tu l’hai uccisa, hai ucciso tutte le mie convinzioni; serial killer. Un serial killer che commette troppi errori e dissemina tracce, comunque impossibile da  fermare.
È per questo che ti amo?
 
« John ».
« Hmh? »
« Tu mi avresti sposato? Se le cose fossero andate diversamente, intendo ».
« Mi era parso di capire che non credessi nel matrimonio ».
« Non ci credo, infatti. È solo una curiosità. Non farmi ripetere la domanda, siamo già troppo in ritardo ».
« In ritardo anche al mio matrimonio! Mary ci ucciderà ».
 « Sto aspettando ».
« Certo che ti avrei sposato, Sherlock. E sarei venuto a controllare che non tentassi la fuga, proprio come ho fatto oggi ».
« Capisco ».
« E tu? Tu mi avresti sposato? »
« Solo a patto che ti fossi vestito da sposa ».
 
Probabilmente se mi impegnassi di più, appena un po’ di più,  riuscirei a cancellare tutti i sogni ed i progetti irrealizzati, e a rinchiudere il ricordo di quelli avverati dietro qualche porta anonima della mia mente.
Ti prometto che ci proverò.
Riguardo al cuore, invece, non saprei.
Avevo appena realizzato di possederne uno quando l’ho visto bruciare tra le fiamme; non pensavo nemmeno che potesse fare così male una volta ridotto in cenere.
Dovrei odiarti, John, per avermi reso così debole.
Quando l’ultima nota vibra e abbandona il violino, Sherlock va via.
Alza il bavero e si stringe nel cappotto per proteggersi dal vento gelido che gli trapassa il petto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Oh, you can't hear me cry
See my dreams all die
From where you're standing
On your own.
It's so quiet here
And I feel so cold
This house no longer
Feels like home.

 
 
 


#Angolo della disperazione

Ebbene, eccoci giunti alla fine della mia prima fanfiction nel fandom di Sherlock! 
Chiedo preventivamente scusa - come ogni novellina - per il possibile OCC dei personaggi. Ho cercato di immaginare Sherlock alle prese con una relazione, John con un profondo conflitto interiore e non nego di aver fatto un gran casino. Mi rendo conto di aver trattato argomenti triti e ritriti ma tenevo a scrivere qualcosa con So Cold come base perché mi ricorda troppo la Johnlock ;A;
Iddio ha voluto che tutte le mie OTP condividano la stessa casa e che trasudino lacrime, pace.
Non mi sono nemmeno presentata! Sono AlfiaH e provengo dal culo più oscuro del fandom di Hetalia, quello con gli unicorni, le sopracciglia e gli stereoidi. Ogni tanto bazzico per l'America con il fantasmagorico mondo Marvel - che Arceus li benedica tutti, i miei bambini - fino in Inghilterra con Merlin e, ovviamente, Sherlock.
Ero un po' scettica all'inizio, devo ammetterlo - lo ero anche con Robert Downey Jr. d'altronde e con tutto ciò non fossero i libri di Sir Arthur Conan Doyle - ma mi sono ampiamente ricreduta, ci sono letteralmente affogata, e prevedo di infliggere opinioni in questo fandom per ancora molto tempo. 
Non un futuro roseo, comunque.
Oh, giusto: i personaggi non mi appartengono, sono un po' di Sir Arthur Conan Doyle, un po' di Moffat, un po' di Gatiss o chi ne fa le veci; la serie tv non mi appartiene, è della BBC e della gente sopraelencata.
Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno letto e apprezzato questa storia - anche chi non l'ha apprezzata, affancuore il razzismo (?) - e vi  prego di farmelo sapere con una piccola recensione o con un commento (o con un piccione viaggiatore, un fax, un telegramma, un codice binario. Picchiettate con le dita sulla scrivania o scrivete un breve messaggio su una mela. Vi amerei tanto).
E niente, se avete letto fin qui, meritate un biscotto. *sparge biscotti*
AlfiaH. <3
 
  
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