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Autore: shimichan    23/07/2014    9 recensioni
I respiri si aggrovigliano, ansanti come dopo una corsa. E forse non hanno davvero fatto altro. Correre per fuggire i rimorsi e la paura, ignorando che sono malattie infettive e non rimangono mai nel luogo in cui si contraggono. Correre senza una meta precisa, col solo scopo di allontanarsi.
E poi correre di nuovo. Per tornare indietro, recuperare in fretta il tempo perso dei passi compiuti nella direzione sbagliata. Per rincontrarsi una volta scoperto che su quel filo ondeggiante, intessuto di bugie e false identità, un abbraccio donava equilibrio, il segno che l’amore è restare anche quando è la vita ad urlarti di correre.

[AiConan teens]
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Shinichi Kudo/Conan Edogawa | Coppie: Shiho Miyano/Shinichi Kudo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Behind the lie

“E dopo tutto cos'è una bugia? Solo la verità in maschera”
(Lord Byron)

 
È notte fonda, ma non riesce a dormire. Gli capita spesso, tanto che può definirla un'abitudine.
Si stende a letto, chiude gli occhi, comincia a rigirarsi tra le coperte, finché le grinze delle lenzuola non lo infastidiscono a tal punto da costringerlo ad alzarsi.
Va in bagno allora, poi, al solito, inizia a girovagare per casa, piano, con passi che non fanno rumore quasi appartenessero ad un'ombra.
E forse lo è davvero. L'ombra di se stesso, di quanto è stato.
Non avrebbe mai pensato che la lotta contro l'Organizzazione comportasse un prezzo così alto come quello di svegliarsi ogni giorno con gli occhi riempiti di fantasmi. Simili a fogli di carta scarabocchiati, se ne stanno in agguato sotto le palpebre per alcuni minuti, prima di dissolversi.
Ma ritornano, ritornano sempre. 
Sospira. Sul vetro compare una chiazza opaca e umidiccia su cui traccia una faccina, due punti per gli occhi e una linea piatta per la bocca. Si china, cercando di guardare fuori dalla finestra dalla sua prospettiva e tutto ciò che riesce a scorgere è il piano superiore dell'abitazione di Agasa, la camera di Ai per esattezza. È vuota, lo sa.
Rimane fermo a fissarne le tende tirate ancora un po', frugando tra i suoi ricordi senza trovare nulla. Era il suo sguardo di un tempo, quello, ma ormai i suoi occhi hanno visto troppo per potersi accontentare di due fessure grandi quanto polpastrelli, perciò si allontana.
La faccina è scomparsa e sul vetro resta solo qualche segno, poco più di un'ombra. 
 
Torna a letto.
 
"Non riesci a prendere sonno?".
Denega la testa, fissa il soffitto, ma non le chiede se l'hai svegliata.
Sarebbe una domanda inutile visto che conosce già la risposta. Neanche lei riesce a conciliare i propri pensieri con la piacevole entropia in cui si cade quando si ha un materasso sotto la schiena perché la loro realtà è un'attricetta di punta che non lascia mai il palcoscenico a comparse fatte di sogni e illusioni.
Si gira sul fianco, abbraccia il cuscino,
la guarda.
 
Gli dà le spalle e tiene le coperte tirate fino all’attaccatura dei capelli perché è freddolosa, anche se si ostina ad indossare solo slip e maglietta sotto le lenzuola, una delle sue tante contraddizioni.
Una volta trapuntava quella schiena d’interrogativi segreti, ora non più.
Ora allunga una mano sulla sua vita e intrufola le dita oltre il lembo di stoffa che la protegge, percorrendo la lieve curvatura del ventre lungo il pizzo della sua biancheria.
La sente ritrarre la pancia un istante, respirare a fondo, accettare, infine, la sua invadenza, senza opporre resistenza, ma senza collaborare quando la trascina, di peso, contro il suo petto, sfiorandole l’orecchio con la punta del naso.
È un abbraccio che porta con sé tracce della disperazione di un tempo, nella presa di lui che aumenta impercettibilmente e nelle dita di lei che scorrono sulle nocche con fare rassicurante.
“Domani c’è scuola…” biascica, ma la sua voce manca della convinzione necessaria a farlo smettere. Gioca con l’elastico pinzato tra i polpastrelli, lo solleva, lo lascia di nuovo per tornare a lambirle la carne con un tocco tanto leggero da avvertire sul palmo il brivido che le rizza i peli chiari e sottili della pelle.
È calda.
 
“Sei gelato” borbotta, ostentando indifferenza alle sue attenzioni, mentre soffoca il riso tra i suoi capelli, sospingendoglieli delicatamente contro la guancia. Non cambierà mai, pensa.
Intanto ha superato l’ombelico, premurandosi di arrotolarle la maglietta fin sotto il seno, di cui ricalca la forma con estenuante lentezza, prima uno poi l’altro, e di nuovo, su e giù.
In mezzo c’è l’osso piatto dello sterno e un solo dito basta a sentire il suo cuore battere ad un ritmo diverso. Non è frenetico, ma è il suono fiducioso che gli serve per rompere gli indugi e voltarla.
Il suo profilo, serio nella penombra, mostra labbra appena dischiuse, protese in avanti alla ricerca di scuse che non ci sono, perché l’ha già convinta, come piace a lei, con dolcezza e decisione.
Tiene gli occhi chiusi, quegli occhi che ha imparato ad amare e temere come si confà alle cose belle, che nascondono, parlano, ridono e fanno danni, ma solo se davanti a loro si sente il bisogno di abbassare per primi lo sguardo, e i pugni stretti, il sinistro sul cuscino, il destro passivo sopra al petto, che il suo movimento ha scoperto ulteriormente.
Ricorda la prima volta in cui l’ha vista nuda. Era stato un tuffo al cuore che poco aveva a che fare con l’imbarazzo, perché il passo che stavano per compiere era inevitabile, era un qualcosa che tanto sarebbe successo comunque. Ma non erano pronti.
Lei aveva tenuto una mano premuta sulla bocca per tutto il tempo, impedendo ai gemiti di uscire come se si vergognasse di provare piacere, come se non lo meritasse perché viveva ancora la loro condizione come un errore cui non era riuscita a porre rimedio, mentre lui lottava per non cedere il corpo al rancore, alla frustrazione, a quella parte ancorata ad un passato che non sarebbe mai diventato presente.
E alla fine avevano perso entrambi.
 
Adesso sa dare il giusto peso al significato di quell’inevitabile.
Adesso ha capito che essere innamorato ed amare sono due concetti profondamente diversi,
che non esiste amore senza innamoramento, ma si può rimanere innamorati tutta la vita e non amare affatto.
Shinichi era innamorato di Ran. Conan, invece, ama Ai
Si china a baciarle le palpebre e sente le sue ciglia fremere, richiedere spazio per potersi finalmente aprire, perciò glielo concede.
A quella distanza le sue iridi verdi sembrano rifulgere. C’è vanità, nel suo sguardo, desiderio, impazienza, una punta d’irritazione che prende forma nell’aggrottamento della sua fronte.
Sta per dire qualcosa, probabilmente di saggio e maturo – sul fatto che arriveranno tardi a scuola, fomentando i pettegolezzi, ad esempio – e per questo assolutamente fuori luogo. Così l’anticipa, bloccandole le parole in gola con baci brevi e fugaci.
Lo fa per vincere le sue ritrosie, per farla sbollire, per sentire la sua risata morire nella sua bocca e soprattutto perché così può trattenerlo facilmente. Le mani di Ai, infatti, s’intrecciano sulla sua nuca e premono per ottenere di più, ma è lui questa volta, a temporeggiare.
Si stacca, nonostante un mugolio di proteste, e osserva, in un misto di bramosia e compiacimento, le sue guance accaldate e le sue labbra tremanti, contratte in un broncio che trova adorabile: è capricciosa. Fa parte del suo fascino enigmatico, un mondo ricco di misteri che è meglio non sondare, perché tanto proibito quanto fragile, un mondo che senza i suoi segreti non potrebbe sopravvivere.
“A cosa pensi?”.
“A chi siamo, a cosa siamo” avrebbe detto un tempo.
Quando la vita era ancora sospesa tra quello che era, che poteva essere e che non sarebbe mai stata.
E i rimorsi erano vivi, le colpe sentite, i silenzi assordanti, gli sguardi lasciati cadere a terra perché chi era destinato a riceverli volgeva il proprio altrove prima ed era troppo arrabbiato poi. Quando accanirsi contro destino era solo la via più semplice per non fermarsi a guardare.
Aprire bene gli occhi, vedere, trovare in fondo a se stessi il coraggio di ammettere che l’unico motivo per cui non si riesce a capire cosa c’è nel cuore di chi si ama è che ci si concentra su quello sbagliato.
Ai ride, prima ancora di ascoltare la sua risposta – quella risata amara, sempre un po’ smorzata, di chi ha sofferto, di chi ha perso, di chi non ha ricevuto abbastanza sorrisi, che nel silenzio della notte si espande per le stanze vuote e risuona come una istigazione e non più come un pianto.
Gli fa pensare a qualcosa di sfacciato che lo spaventa e lo eccita insieme, e lo spinge ad impossessarsi delle sue labbra ancora arcuate.
Sono morbide, umide, si modellano sulle sue e lasciano sfilare un leggero sospiro che gli riempie la bocca di un nuovo sapore.
Ci sarebbe da scrivere un trattato sui baci di Ai, che poi sarebbe anche la sua storia giacché ogni suo bacio racconta chi è.
La gente la raggela e la chiude in un mutismo ostile o l’aizza ad atteggiamenti protervi.
Sono poche le persone da cui si lascia sedurre. Sedurre è il termine giusto per descrivere il modo in cui usa lo sguardo mentre ti ascolta: se, e solo se, fissa le pupille nelle tue hai la certezza di averla rapita, di aver scoperto un argomento su cui il suo cuore si scioglie e la mente si ottenebra.
Così sono i suoi baci.
Si schiudono piano come se volesse sussurrare un segreto, gli occhi aperti fino all’ultimo per essere certa che il buio non s’insinui tra lo spazio via via più stretto dei loro visi, le dita leggere posate sulle guance pronte ad afferrare ogni pensiero. Solo allora danno tutto.
Preoccupazioni, gioie, lacrime, paure. Una vita intera sigillata da due bocce.
Gli amanti soltanto sanno scambiarsi le proprie storie con un bacio, ecco perché si dice che muoiano nello stesso respiro.
Quando si separano, Ai ha il volto intriso di vergogna, quella di una bambina colta in flagrante a compiere l’ennesima marachella, e ride ancora.
“Ti faccio tanto ridere?” le chiede, pizzicandole il fianco e suscitandone uno spasimo incontrollato, dovuto al solletico che lei soffre terribilmente.
“Tu mi fai sempre ridere” replica, ostinata fino alla fine a non dargliela vinta, nonostante la voce rotta e i sensi in allerta.
Conan sbuffa. Le sue dita prendono a stuzzicarle le anche, scendono lungo la curva della coscia, si spingono dove la pelle è sensibile e una pressione più audace basta a trasformare il suo sorriso in una smorfia di piacere. La vede trattenere il labbro inferiore tra i denti pur di non riversare nell’aria il gemito che le sale alla gola e che esce comunque roco, gutturale, mentre indugia sull’elastico degli slip prima di sfilarglieli completamente.
Si ferma e lo sguardo di lei, abituata a lanciare provocazioni, non ad incassarle, s’indurisce a quel punto, ma lo ignora.
“Pensavo alla scuola. Potremmo arrivare davvero tardi domani”.
Un sorriso sghembo gli s’incunea su un angolo della bocca e muore incompleto, perchè Ai flette all’improvviso un ginocchio, colpendolo amorevolmente al basso ventre per poi trarlo su di sè e lasciargli un morso sul mento: una stretta tenace, a rammentargli che il sarcasmo è un’arma prettamente femminile, un’altra più docile, a rinnovargli la sua indifferenza verso le chiacchiere da corridoio.
Vicini.
 
I respiri si aggrovigliano, ansanti come dopo una corsa. E forse non hanno davvero fatto altro. Correre per fuggire i rimorsi e la paura, ignorando che sono malattie infettive e non rimangono mai nel luogo in cui si contraggono. Correre senza una meta precisa, col solo scopo di allontanarsi.
E poi correre di nuovo. Per tornare indietro, recuperare in fretta il tempo perso dei passi compiuti nella direzione sbagliata. Per rincontrarsi una volta scoperto che su quel filo ondeggiante, intessuto di bugie e false identità, un abbraccio donava equilibrio, il segno che l’amore è restare anche quando è la vita ad urlarti di correre.

Ai lo stringe e fissa il blu sconfinato dei suoi occhi: un mare in cui far naufragio senza morirne, sul fondo del quale c'è sempre pace, nonostante la superfice sia spesso in tempesta.
Lo accarezza. Parte dalla base dei capelli e ci affonda le dita come se cercasse i pensieri, le gioie, i tormenti per eliminare le cose buie e lasciare solo quelle fatte di luce. Poi segue il profilo della fronte, del naso, delle labbra alla ricerca di ogni piccolo segno inciso sulla pelle da un passato ingombrante. Lo sente tendersi, sfiorarle un braccio e delinearlo in tutta la sua lunghezza fino alla spalla, dove una cicatrice è prova di quei segreti mai svelati a nessuno. Ci preme sopra il pollice.
“Il ricordo di una brutta caduta alle elementari, eh?”.
Sorridono entrambi.
 
Hanno quell’età in cui il solo pensiero “prime volte” è sufficiente ad abbatterti, eppure non c’è impaccio nei loro gesti, né imbarazzo quando la nudità diviene completa, tangibile nel contatto di due corpi che riconoscono la pelle dell’altro, ma non sanno capire in quale punto termini la propria.
Conan esala un sospiro pesante, trattenuto forse troppo a lungo, consumato dall’apnea dei loro baci. Il suo sguardo è privo di domande, ed è forse la cosa che la colpisce ancora, nonostante tutto, perché la sua bocca sembra invece cercare avidamente delle risposte, imprimendosi sul suo collo, sul suo seno, sul suo ventre.
È nella memoria di Ai che può trovarle. E la memoria delle donne non è situata nella testa, ma nel corpo. Anima e corpo sono più uniti in una donna e ogni parte del corpo ricorda e fa ricordare chi sono e come lo sono diventati.
 
Sono la legge infranta della natura, che li vorrebbe già adulti e si è dovuta arrendere ad una pillola.
L’infanzia senza sorprese e l’adolescenza aspettata come il tic di un orologio fermo che ricomincia finalmente a battere.
 
Mugugna. Si crogiola di quella dolce tortura, ma inizia a fregargli le gambe sui fianchi per averlo più vicino, per continuare il racconto da dove fa più male, perché la sofferenza è il solo modo che ha l’amore di dimostrare quanto vale.
 
Sono il ballo sotto la pioggia, il giorno dei funerali di Agasa: pochi passi traballanti su un fazzoletto di terra e un abbraccio infinito per nascondere le lacrime che si raccoglievano sulle ciglia e cadevano, vittime del loro stesso peso, perché, Ai, di forza per versarne, non ne ha più.  
                                                  
La fissa un istante.
Ha le forme belle e incompiute di una diciasettenne, due ferite verdi sul volto, l’anima smarrita dalla stranezza della sua condizione.
Mentre respira tra le sue braccia, sembra restringersi, farsi piccola piccola. Una bambina spaventata da cullare con la dovuta delicatezza.
Conan conosce le sue antiche paure, lo spettro di quell’amore di cui era stata testimone e il sospetto di non poterlo contrastare. Così le scosta la frangia e le mostra che dietro i suoi occhi, ora, c’è solo lei. Nella sua mente, nei suoi pensieri, nei sogni più reconditi, perfino negli incubi.
Nel suo cuore, invece, c’è entrata già da un pezzo, come un ospite inatteso che promette discrezione e, prima o poi, sveglia tutto il vicinato.
Vorrebbe le sue labbra per farsi perdonare la pessima accoglienza, si abbassa per impossessarsene, ma la incontra a metà strada.
 
Sono il caldo che arriva all’improvviso, quando ormai non lo si aspetta più. Il condizionatore rotto. Le notti trascorse sul pavimento fresco del salone a guardare il buio, cercando quel qualcosa che alla fine trovano sempre sulla bocca dell’altro.

Gioca con i capelli della sua nuca, li attorciglia e li liscia a suo piacimento. Non ha appoggi, ma sa che non l’abbandonerà, non la farà cadere di nuovo, specie adesso che la sua schiena inarcata è un invito fin troppo gradito per le sue mani. Mani di pianista, leggere e fatali, conoscono i tasti giusti e fanno uscire dalle sue labbra la nota più dolce.
 
Sono i no perentori, i forse strappati a fatica, i si che valgono quanto una conquista.
 
Il piacere marchia le loro azioni, i corpi si tendono sopra le lenzuola umide, le sensazioni rendono palese la propria esistenza nei versi che increspano l’aria. Ai si preme contro di lui, lo spinge più affondo, pronta ad accogliere ogni ansito nell’incavo del collo dove Conan incastra la fronte e inspira forte il profumo del suo petto. Il profumo del perdono.
Perché Ai ha imparato a perdonare e, cosa più difficile, a perdonarsi.
È stato un percorso arduo, compiuto a ritroso lungo le croci cresciute come fiori al suo passaggio a chiedersi perché lei non era morta a differenza di chi aveva sempre avuto il coraggio di lottare per la giustizia. La vita, all’epoca, era ancora un vestito troppo grande che le scivolava costantemente dalle spalle, inadeguata, forse indegna, per una stoffa tanto pregiata.
Poi, un giorno, lui, in mezzo a tante parole aveva trovato quelle giuste.
“…il tuo sorriso sarebbe mancato troppo al mondo, sarebbe mancato a me”.
 
Sono i pianti tenuti nascosti, visibili solo a chi porta nei propri la medesima macchia.
E gli incubi che rubano il sonno, ma sono preludio a notti come questa.
 
Notti che stemperano i dubbi e rinsaldano le certezze, che bruciano solo per illuminare e vedere meglio la testimonianza di due come loro, una bugia diventata verità.
 



Angolo Autrice

Mah che dire…è uscita. Così senza preavviso, complice la nottata calda (intendo letteralmente calda), e il pensiero che su di loro ci siano poche fic del genere…
Se l’avete letta e non vi ha proprio fatto schifo, recensite.
In caso contrario avete comunque il mio GRAZIE per il tempo dedicatomi ;)
besos


 
 
  
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