Halloween
-
Quando
i fantasmi vagano nella notte
When the evening falls and the daylight is fading,
from within me calls - could it be I am sleeping?
For a moment I stray, then it holds me completely.
close to home - I cannot say.
close to home feeling so far away.
As I walk there before me a shadow
from another world, where no other can follow.
carry me to my own, to where I can cross over...
close to home - I cannot say.
close to home feeling so far away.
Forever searching; never right, I am lost
in oceans of night. Forever
hoping I can find memories.
those memories I left behind.
Even though I leave will I go on believing
that this time is real - am I lost in this feeling?
like a child passing through, never knowing the reason.
I am home - I know the way.
I am home - feeling oh, so far away.
(-Evening falls- Enya, 1988)
Una sagoma scura si aggirava guardinga,
ombra tra le ombre che distendevano il loro abbraccio di tenebra sul grande parco, isola verde nella caotica città.
Non c’era
nessuno nei dintorni e quella forma subdolamente strisciante, complice la notte
nera, faceva del proprio meglio per occultarsi il più possibile. Altri erano i suoi piani, il momento propizio per mostrarsi ancora non
era giunto.
Era stata
condotta in quel luogo dalla rabbia, da una sete di vendetta che attendeva
l’incontro con una persona per potersi a sufficienza sfogare… una persona
sopravvissuta, come i fratelli, all’inferno e che ora si crogiolava in un
illusorio riposo in quella villa sfarzosa.
Una folgore
saettò, lampo di luce nel cielo notturno velato di nubi che imprigionavano le
stelle in una gabbia temporalesca.
Nel medesimo
istante l’ignota figura sollevò il viso, permettendo alla folgore di illuminare
brevemente i lineamenti grotteschi; due iridi di fuoco sfavillarono incastonate
in una scarna maschera plasmata nell’odio, unico
sentimento in essa riconoscibile… per il resto era il vuoto, l’insensibilità
più spietata.
“Ikki di
Phoenix, ti ripagherò con la medesima sofferenza che mi hai inflitto, anzi no…
tu che sei stato all’Inferno, quel viaggetto sarà
stato nulla in confronto a ciò che ti attende, ti strapperò quanto hai di più
caro al mondo, tra atroci tormenti!”
Le tenebre
calarono nuovamente sul folle ghigno di creatura malata.
***
“Sta per scoppiare un temporale con i fiocchi… si preannuncia
una notte da lupi, tempo indicato per la notte delle streghe, no?”
Seiya, le mani
affondate nelle tasche dei jeans, scrutava attraverso
la finestra la tensione palpabile della natura che si preparava ad affrontare
la tempesta.
Dietro di lui,
accomodato sul divano a sfogliare distrattamente una rivista, Hyoga rispose con
un sonoro sbadiglio e, dopo aver gettato per terra il giornale con affettata
noncuranza, si stiracchiò come un gatto, allargando le braccia per poggiarle,
distese, sullo schienale e piegando la testa all’indietro, provocando un lieve
volteggio della chioma bionda.
“E’ un tuo modo
carino per dirmi che non te ne frega niente di ciò che
dico, Hyoga-kun?” osservò sardonicamente il ragazzino castano, voltandosi verso
l’amico e fulminandolo con un’occhiata velenosa.
L’altro si
strinse nelle spalle e rispose, senza cambiare posizione e mantenendo
sprezzantemente gli occhi chiusi, con un sorrisetto strafottente:
“Dipende da che
punto di vista consideri la cosa; il mio era un commento personale rivolto a
questa immane stupidaggine che è la festa di Halloween… terribilmente infantile e noiosa.”
“Sì” riprese
Seiya senza scomporsi e fissandolo insistentemente con il viso da bambino
imbronciato “Immagino che sarebbe molto più noioso uscire per strada a
divertirmi, piuttosto che starmene qui con qualcuno che dimostra la vitalità di
un Matusalemme!”
Non fece in
tempo a concludere la frase che fu zittito da un
cuscino in pieno volto; l’attimo dopo Hyoga gli fu addosso e lo spinse
brutalmente contro il muro. Seiya si difese, sgusciò sotto le braccia dell’assalitore ma fu prontamente ricatturato:
ne risultò un groviglio di corpi che precipitò pesantemente sul divano e calci
e pugni lasciavano il segno. Benché non fossero altro che due ragazzini
impegnati in una lotta cameratesca e giocosa, la loro preparazione guerriera
rendeva i colpi che si scambiavano non del tutto innocui.
Ridendo come un
forsennato, Seiya si districò, quindi, scappando dalle grinfie del ragazzo più
grande che in quanto a forza fisica, senza l’utilizzo del cosmo, gli era
nettamente superiore, afferrò il lenzuolo drappeggiato su una delle poltrone e
se lo gettò addosso.
Colpito da quel
gesto bizzarro, Hyoga si immobilizzò, interdetto:
“E adesso quale
diavoleria hai in mente, Seiya?!”
Completamente
ricoperto dal telo verde, agitando le braccia per farlo volteggiare intorno a
sé, il santo di Pegasus saltellava per la stanza, sbandando a causa della
visuale ostruita:
“Io non sono Seiya, sono il fantasma della villa!”
La voce sotto il
telo, già appositamente contraffatta dal proprietario,
fuoriuscì cupa e profonda. Hyoga ricadde ridendo sul divano, una mano posata
sulla fronte:
“Come no, magari
il fantasma di Mitsumasa Kido!” commentò, tra una risata e l’altra.
In quel momento
esatto la porta si aprì e Seiya, che stava dirigendo la sua danza sfrenata
proprio verso l’uscio, non poté evitare la colluttazione con la persona che
stava entrando, la quale cadde all’indietro con un’esclamazione di sorpresa,
spalancando gli occhi sulla singolare apparizione.
“Chi c’è?”
borbottò la voce cavernosa al di sotto dello strato di
stoffa verde.
Seiya proseguiva
imperterrito con la messa in scena dello spettro ma
non riuscì ad ingannare neanche per un istante il nuovo arrivato:
“Seiya ma… cosa
stai combinando?”
“Shun” rispose
il ragazzino sotto al lenzuolo riconoscendo la voce e
l’aura del compagno “Io sono il fantasma di Mitsumasa Kido!”
“Cosa?!” sbottò Shun, alzandosi con uno scatto fulmineo e,
strattonando violentemente il telo fino a strapparlo di dosso al santo di
Pegasus, lo rimproverò con un cipiglio severo, decisamente fuori luogo su quel
viso etereo e gentile:
“Falla finita
con queste idiozie, sei ridicolo!”
Quindi lasciò ricadere con sdegno il
lenzuolo e lo oltrepassò per entrare nella stanza.
“Ciao, Shun!”
Il saluto di
Hyoga si perse nel silenzio; in risposta ottenne un
solo cenno, mesto, appena percepibile. Il ragazzino dai capelli sfumati di un
rosso delicato si avvicinò alla finestra e il suo sguardo smeraldino affondò
nelle tenebre a tratti attraversate da guizzi di lampi
che, ben lungi dal conferire un’illuminazione passeggera rassicurante,
intridevano d’angoscia ancor più palpabile il paesaggio sconvolto… un’angoscia
che si rifletteva, come in uno specchio plasmato di tormentate emozioni, negli
occhi lucidi e limpidi come acqua del malinconico giovane.
Hyoga e Seiya
osservavano il loro amato fratello; il suo umore opprimente li aveva ricondotti
alla serietà che poco prima avevano accantonato. Conoscevano troppo bene Shun: quella afflizione sorgeva dal profondo di un’anima che mai
faceva pesare i propri terribili tormenti ma che, a volte, non riusciva a
trattenere, entro i confini della propria coscienza, una tristezza troppo
pesante da sopportare, per chiunque.
Seiya fece
qualche passo e si fermò dietro di lui, sfiorandogli dolcemente una spalla:
“Shun-kun, senti… se il mio stupido gioco ha ferito la tua
sensibilità, io… mi dispiace…”
Shun scosse il
capo, sospirò e gli sorrise con tutta la tenerezza di
cui la sua amabile indole era capace:
“Sono io che
devo chiederti scusa… non avevo nessun diritto di…”
Si interruppe, la sua voce tenera era
arrochita; non trovando le parole adatte agì come la sua naturalezza di
sentimenti gli suggerì: si accostò al compagno e gli posò un morbido bacio
sulla guancia. Solo dopo averlo fatto riuscì nuovamente a parlare:
“Scusami, ti prego… ti voglio bene…”
Seiya aprì la bocca ma non riuscì a dire nulla; ancora si accarezzava la
guancia imporporata mentre Shun già si stava allontanando, rivolgendo ad
entrambi un frettoloso saluto.
***
“Scherzare sulla
morte, ironizzarci sopra, giocare con essa… è vero…
forse è il modo migliore per esorcizzarla ma io non ce la faccio. Questa è per
chiunque una notte di festa, eppure le sensazioni che suscita in me sono
opprimenti. Come possono loro riuscirci? Loro che come me
hanno visto in faccia la morte tante volte… che tante volte l’hanno procurata…
come possiamo permetterci di giocare con la morte dopo essere discesi nel suo
stesso regno?”
La mente di Shun
affogava in vorticose ossessioni, accentuate dalla tetra tempesta notturna
sotto la quale, senza riflettere, si era gettato con l’anima ottenebrata ed
inconsapevole di ciò che faceva.
Gli accadeva
spesso da quando, con il proprio corpo vivo, aveva
affrontato l’esperienza più allucinante che creatura mortale potesse
affrontare: la discesa agli Inferi e la possessione dilaniante del Dio che
degli Inferi era sovrano. Gli capitava, quando la disperazione prendeva il
sopravvento, di lasciarsi andare a reazioni irrazionali, come quella notte…
scalzo, fasciato da vesti leggere e sottili, sotto un acquazzone torrenziale, a
camminare senza meta in mezzo al boschetto bersagliato da lampi minacciosi.
Chiunque
l’avesse visto l’avrebbe preso per un folle… o lo avrebbe scambiato per
un’apparizione incantata: un fanciullo bellissimo e
scalzo, talmente poco vestito che, essendo quel lieve strato di stoffa ormai
zuppo e incollato al corpo come una seconda pelle, sembrava quasi nudo… una
creatura di un mondo dimenticato dagli uomini, materializzatasi dalla pioggia
come uno scherzo provocato da una troppo fervida fantasticheria.
Nessuna di
queste conclusioni fu tratta dal proprietario di due occhi che, celati nelle
tenebre, scrutavano avidi i passi del piccolo santo di Andromeda;
occhi di fuoco, imbevuti di ferocia, come il ghigno che sotto essi si formò,
nato dalla soddisfazione che quella vista provocava in un animo più nero di
quelle tenebre autunnali.
“La fortuna è
dalla mia parte” pensava una mente ansiosa di sfogare la propria crudeltà e di
provocare sofferenza “Ciò che
***
Infreddolito e tremante, Shun si strinse
le braccia al petto ed appoggiò la schiena contro un albero.
“Che sto facendo? Sono forse impazzito del tutto? Quale
spettacolo pietoso e senza senso sto dando di me stesso…”
Questo pensava
il ragazzo, quando un fulmine sfrigolò e cadde spaventosamente vicino; pochi
centimetri e ad essere colpiti sarebbero stati lui o
la pianta cui si era addossato. Scosse il capo, con una smorfia di auto-rimprovero, tra l’ironico ed il rabbioso:
“Sono un
idiota…”
Si decise a
muoversi per tornare verso casa, quando il bagliore suscitato dal lampo
successivo attirò la sua attenzione: per una frazione di secondo, l’effimera
durata della folgore seguita dal cupo brontolio di un tuono, aveva investito
una sagoma nera alla sua destra… almeno gli era sembrato… o era forse stata
un’impressione dettata dalla mancanza di lucidità che, in quel momento, gli
ottenebrava la mente?
Tese i sensi ma non percepì nulla di singolare; tuttavia questo non
bastò a tranquillizzarlo. Mosse qualche passo cauto nella direzione in cui gli
era parso di scorgere quella presenza che l’aveva turbato; una sensazione
strana lo assalì e, improvvisamente, fu certo di non essere solo nel parco.
Rabbrividì e si raccolse ancor più nella stretta delle proprie braccia nude e
fradice, per poi lasciarle ricadere, concentrandosi con tutto se stesso.
Guardarsi
attorno non sarebbe valso a nulla, a causa del buio ma,
in quanto sacro guerriero, poteva fare affidamento, con altrettanta sicurezza,
sugli altri sensi: l’udito, l’olfatto… soprattutto l’intuizione, il sesto senso
che da sempre era altamente sviluppato in lui.
Si impose di riacquistare la lucidità
necessaria per padroneggiare al meglio la concentrazione; liberò lo spirito da
ogni altro pensiero che non riguardasse le priorità dell’immediato presente.
Chiuse gli occhi
e lasciò fluire i sensi, liberamente, fino a fondersi con il tutto che lo
circondava… e di colpo ebbe un sussulto, i suoi occhi si spalancarono nel buio.
L’aveva visto… no… sentito… c’era davvero qualcuno… e ciò che Shun credeva di
avere percepito lo sconvolse: un miscuglio di
sensazioni contrastanti, orrore, angoscia, assurdamente accompagnati da amore e
dolcezza… in un’unica presenza due essenze profondamente divergenti che lo
assalirono con emozioni opposte e al tempo stesso talmente intense da
sopraffarlo.
“Cosa… sta succedendo?” sussurrò, facendo del proprio meglio
per dominare il respiro e la tempesta che gli sconvolgeva l’animo, perfetta
gemella della bufera urlante intorno a lui.
Un tuono esplose
con tutta la sua rabbia, protraendo il ruggito furioso per parecchi secondi,
scuotendo orribilmente la terra; il santo di Andromeda
non riuscì a trattenere un singulto di spavento, in seguito al quale scosse
nervosamente il capo:
“Calma… è tutta suggestione, mi sto comportando come il bambino
pauroso di qualche anno fa!”
“Vedo che il mio
giovane allievo ancora combatte contro assurde paure infantili; a cosa sono
valsi sei anni di addestramento, se ancora tremi per
un temporale d’autunno?”
Ogni briciolo di
determinazione svanì al suono di quella voce e i tremiti divennero talmente
incontrollabili da farlo cadere in ginocchio, le braccia abbandonate, inerti,
lungo i fianchi, gli occhi sbarrati ed intrisi di lacrime. Un solo, flebile
balbettio uscì dalle labbra malferme:
“No… non è… possibile…”
Passi dietro di lui… l’erba frusciava piegandosi sotto il calpestio di membra massicce… Shun restava
immobile…. I passi si fermarono. Adesso era esattamente alle sue spalle, Shun
lo sapeva, lo sentiva, eppure, nonostante tutto, non osava muoversi… non
riusciva a muoversi.
“E’ così che mi
accogli? Mi sarei aspettato da te un po’ più di calore… dove sono la
gratitudine e l’affetto che hai sempre giurato di provare nei miei confronti?”
Il santo di Andromeda deglutì e, quando la presenza gli girò intorno
per portarsi davanti a lui, si sentì soffocare. Adesso gli era di fronte; gli
occhi di Shun potevano scorgere, anche nelle tenebre, la sagoma delle gambe
muscolose. Non aveva bisogno di sollevare lo sguardo per riconoscere quel
corpo, quella tunica lisa che fasciava membra possenti ed armoniose a un tempo.
Il suo volto si
abbassò, non poté farne a meno, i suoi tremiti erano ora accompagnati da un
gemito sottile e continuo, molto prossimo al pianto. Una mano ruvida e forte
gli si posò sotto il mento costringendolo, con gentile ma inderogabile
fermezza, a sollevare il viso.
Due paia di occhi, azzurri e verdi, si incrociarono; quelli verdi si
spalancarono in tutta la loro incommensurabile ampiezza e attraverso le
sorgenti di smeraldo le lacrime fluirono copiose:
“Albion…
sensei…”
Un confuso
balbettio, flebile come lo squittio di un topolino in trappola… sì… così si
sentiva, in trappola. Non c’era felicità nell’immenso
amore che lo incatenava a colui che gli stava dinnanzi
perché sapeva, era assolutamente certo che un inganno si celava sotto
quell’impossibile apparizione, eppure nulla si sentiva in grado di fare; troppo
forte il desiderio di aver ritrovato il suo adorato maestro, era prigioniero
dell’affetto che per lui provava, prigioniero della propria volontà che tutto
fosse vero, seppur certo del contrario.
La sua maggior
forza, tutto l’amore che aveva in sé verso coloro che amava,
più volte si era rivelata, al tempo stesso, la sua più grande debolezza; non
era in grado di reagire alla propria fragilità emotiva.
Una cosa simile
gli era accaduta in passato; qualcuno aveva già tentato di distruggerlo
giocando con i suoi troppo intensi sentimenti, con la sua
incapacità ad accantonarli e, come quella volta, ancora percepiva l’inganno
senza potervisi opporre.
Osservò il
proprio corpo reagire d’istinto, seguì quasi assente il movimento della propria
mano che si tese verso quel viso pregno di illusori
ricordi; accettò con naturalezza estrema la stretta di quelle braccia vigorose,
il bisogno assoluto di abbandonarsi ad essa, di credere in ciò che vedeva e
sentiva nel cuore… era tutto ciò che per lui, in quel momento, contava.
“Bravo, così ti
voglio, arrendevole e indifeso…”
Suonavano strane
quelle parole, strano il loro timbro; cosa significava
quella nuova inflessione che aveva percepito, verso la fine della frase, come
se la tonalità stesse subendo una metamorfosi… una metamorfosi insieme al suo
proprietario? Non riconosceva più Albion in essa e
neanche in quell’abbraccio.
Perché si stupiva, nonostante tutto? Non
l’aveva forse saputo fin dal primo istante di essere caduto in un crudele
inganno dal quale non aveva mai avuto la forza né la volontà di liberarsi?
Eppure, quella orribile sensazione che ora lo attanagliava andava
oltre ogni aspettativa e in nessun angolo del suo corpo e della sua anima
riusciva a raccogliere una briciola di coraggio per ribellarsi, per accertarsi
fino in fondo di ciò che gli stava accadendo. Ancora non sollevava il viso, non
guardava, rifuggiva alla realtà con tutto se stesso.
“Non vuoi guardarmi,
mio gemello? Non vuoi mostrarmi i tuoi bellissimi occhi?”
Albion, dov’era
Albion? Perché quella voce?
Shun
indietreggiò con un gemito disperato, per strapparsi a forza da quel contatto ma due mani si serrarono inesorabili sulle sue
braccia, poco sotto le spalle, fin quasi a penetrargli nella carne. Shun
sollevò di scatto il viso, per una sorta di riflesso condizionato e si trovò ad
annegare in due iridi blu senza fondo, spiccanti su un volto diafano intorno al
quale danzava una folta chioma nera che si fondeva con le tenebre della
tormenta notturna. Da quelle tenebre si era materializzato il suo incubo
peggiore, Hades, Signore degli Inferi, tornato per trascinarlo con sé, questa
volta per l’eternità, nel regno dei dannati.
Shun urlò, come
una di quelle anime che, senza fine e senza possibilità di sollievo, si
dibattono nei gironi infernali e, in risposta, le
braccia lo lasciarono per aprirsi, liberando, in tutta la sua ampiezza, il nero
mantello, appendice della notte che avvolgeva il mondo in quell’istante sospeso
nel tempo. Il drappo si impadronì di tutto l’arco
visivo del ragazzino e, un attimo dopo, si richiuse su di lui; Shun non poté
vedere altro mentre artigli di morte lo strappavano a se stesso.
“Uccidimi, ti
scongiuro, questa volta uccidimi” implorò, ultima
supplica singhiozzata, intrisa d’orrore prima di precipitare nel baratro
dell’oblio.
***
Dopo che Shun se ne fu
andato, nel salotto di Villa Kido l’atmosfera si era fatta più pesante; la
tristezza del tenero compagno aveva contagiato Seiya e Hyoga, rigettandoli
nell’amarezza pressoché costante della loro condizione, di un’esistenza che mai
avrebbe potuto permettersi di lasciarsi andare ad una spensieratezza eccessiva.
Capitava, a
volte, che provassero a giocare, a scherzare come era
normale per ragazzi della loro età… qualche volta capitava persino a Shun che,
più di tutti, sentiva il peso delle troppe vite strappate ad un mondo ignaro.
Ma poi, la
precarietà della loro esistenza tornava prepotentemente alla ribalta e
riportava alle loro menti la consapevolezza di quanto il soffio vitale
dell’intero universo potesse rivelarsi, in alcuni
istanti, terribilmente fragile; erano sufficienti l’ira o la brama di un Dio
per spazzare via tutto nel breve balenare di un attimo… era sufficiente molto
meno per innescare un lento ma inesorabile logorio o per spegnere una singola
vita.
E i santi di Athena, soli in questo universo, a tutti ignoti, donavano
se stessi per proteggere un mondo che, nonostante tutto, voleva vivere.
Quando tali
pensieri prendevano il sopravvento, allora i sacri guerrieri non riuscivano più
a fingere, neanche a sforzarsi di comportarsi come comuni adolescenti,
smettevano anche di desiderarlo, perché alla tristezza costante era miscelata
in perfetta armonia la gioia senza pari di essere fino
in fondo ciò che erano.
Quella sera era
stato Shun a riportarli, un po’ bruscamente, alla loro complicata realtà; non
l’aveva fatto apposta ma l’angoscia che lo permeava
era palese e lui non avrebbe potuto fare nulla per celarla sotto una maschera di
letizia, non era mai stato capace di fingere. Così, complice la forte simbiosi
che fondeva tutti loro in un’unica essenza, i compagni non potevano ignorare
quella mestizia e la sentirono scivolare in essi come
un fluido di implacabile oppressione.
Seiya era
tornato alla finestra ma non guardava nulla realmente;
pensava… a ciò che era stata la sua, la loro vita, a ciò che ancora sarebbe
stato. Si domandava se il loro dovere di santi avrebbe conosciuto, prima o poi, una fine… si domandava se lui la agognava
realmente questa fine. Cosa ne sarebbe stato, in quel
caso, di tutti loro?
Non poteva
immaginare un futuro nel quale Athena non avesse più
bisogno di lui; tuttavia, se il loro compito non si fosse, prima o poi,
concluso, il risultato sarebbe stato un protrarsi di guerre e dolore… e lui si
sentiva sempre meno preparato al pensiero di perdere per sempre uno dei suoi
fratelli o la sua Dea… non era da escludere… forse la sconfitta definitiva
sarebbe prima o poi arrivata… e se lui fosse sopravvissuto, solo, alla
scomparsa di coloro che amava?
Non vi era ombra
di sorriso sul suo volto di ragazzino vivace e abbronzato; i suoi occhi grandi
brillavano come braci ardenti quando i lampi
dell’interminabile tempesta si specchiavano in essi.
Non molto
differenti dovevano essere i tormenti che turbavano la mente di Hyoga; aveva
ripreso in mano la rivista ma da lunghi, troppi
istanti le pagine non si voltavano… I suoi occhi non leggevano, fissavano un
punto arcano ed invisibile tra le righe stampate, nascosto in una dimensione
lontana, recondita, proiettata dal suo spirito angosciato, quella stessa
angoscia che la depressione di Shun gli aveva trasmesso.
Era ormai deciso
ad alzarsi da quel divano nel quale si rifugiava, rannicchiandovisi quasi fosse
un nido che lo proteggeva da tutto ciò che si trovava all’esterno di esso; l’affetto nei confronti del fratellino prevalse sul
torpore che lo distanziava da tutto, voleva raggiungere Shun nella sua stanza,
dove probabilmente si era rinchiuso.
Ma proprio
quando stava per mettere in atto quella decisione, la porta si aprì nuovamente
e la sagoma alta e vigorosa di Ikki apparve sulla
soglia:
“Avete visto
Shun?”
“Era qui circa
mezz’ora fa, ma poi è uscito” rispose Hyoga “credo sia tornato in camera sua.”
Il nuovo venuto scosse il capo:
“Ci sono appena
stato, ma non c’è…”
“Forse è nella
biblioteca con Shiryu” intervenne Seiya, al quale Ikki rispose con un nuovo
cenno negativo del capo, prima di parlare ancora:
“L’ho cercato in
tutto il palazzo, neanche Shiryu e i servitori lo hanno visto.”
Un’ombra
attraversò lo sguardo di Seiya:
“Era depresso…
di solito, quando è in questo stato, lo si può trovare
a passeggiare nel boschetto, ma con questo tempo…”
Ikki comprese
cosa Seiya intendeva; sapeva benissimo che, da quando erano tornati dagli
Inferi, l’umore di Shun era terribilmente instabile, come se la speranza che
aveva sempre brillato nel fondo dei suoi occhi luminosi si fosse in qualche
modo offuscata. Sospirò e sollevò una mano fino a strofinarsi energicamente la
folta chioma corvina:
“Conoscendolo,
non sarà certo il temporale a fermarlo; posso immaginarlo, zuppo come una
spugna, a camminare sotto l’acquazzone come se niente fosse!”
Seguì qualche
istante di pensieroso silenzio, prima che Ikki riprendesse a parlare:
“Vado a
raccogliere il pulcino bagnato, ci vediamo tra un po’.”
Si lasciò alle
spalle due fratelli mesti e moralmente stanchi, indecisi se seguirlo o meno; alla fine optarono per lasciar fare al santo di
Phoenix, perché potessero incontrarsi da soli. Nessuna medicina, per Shun, si
sarebbe rivelata più efficace del conforto di Ikki-Niisan.
***
La notte era fonda come Ikki non ne
ricordava un’altra; si affacciarono alla sua memoria le lande tenebrose
dell’Ade e un’inquietante sensazione di déjà-vu accompagnava i suoi passi.
Non riusciva a scorgere assolutamente nulla a parte le sagome nere
degli alberi, a tratti rivelate dal saettare dei fulmini. Apparivano
intorno a lui come mostri protesi con lo scopo di
afferrare la sua anima e ridurla a brandelli.
Ikki si fermò
per raccogliere i pensieri, maledicendo se stesso: un temporale lo stava
rendendo nervoso… ma no… non poteva essere quello.
C’era qualcosa nell’aria che colpiva i suoi sensi con occulta ferocia.
Non poteva
spiegarsi il motivo ma pensare a Shun lo terrorizzava;
lo immaginava solo, fradicio, in lacrime, perduto nella tregenda. Perché quelle terribili immagini si presentavano alla sua
mente, quale irrazionale trama onirica gli si stava disegnando, strato dopo
strato, nella testa? Dov’era Shun e cosa gli stava
accadendo?
Brividi irrefrenabili
gli scuotevano il corpo ma non erano dovuti al freddo,
non sarebbe stato possibile, non per un banalissimo temporale d’autunno; cosa,
allora, lo faceva tremare?
Un recondito
timore, al quale non sapeva conferire un nome, un qualcosa di misterioso celato
nella notte, qualcosa che non si vedeva ma c’era… e
quel qualcosa aveva colpito Shun.
Non era solo
suggestione, lo sapeva, Ikki non si sarebbe mai fatto ingannare da fantasmi
sorti dal profondo della sua anima; se percepiva un’aura malvagia intorno, tale empietà esisteva e il suo flusso era talmente violento
da rischiare di sopraffarlo.
Riprese a
camminare lento, con circospezione. Desiderava così intensamente trovare Shun, desiderava riaverlo al suo fianco, vederlo apparire zuppo ed
intirizzito ma salvo e poi stringerlo nel rassicurante tepore delle sue braccia
e riportarlo dentro, dai fratelli, al sicuro.
“Shun… dove sei?
Fatti vedere… per favore…”
I suoi richiami,
dapprima flebili, completamente coperti dallo scroscio insistente dell’acqua e
dal rombare dei tuoni, giunsero poco a poco a sovrastarli, per esplodere in un
urlo finale, ormai dominato dal panico di ignota
provenienza:
“SHUUUN!!! MALEDIZIONE, DOVE DIAVOLO SEI?!!”
Nuovamente fermò
i propri passi, posando la mano su una corteccia impregnata di pioggia ed
ordinò a sé stesso di calmare il respiro che si era
fatto inspiegabilmente affannoso; doveva smetterla di lasciarsi guidare
dall’irrazionale turbamento.
“Sto perdendo il
controllo, dannazione a me! Cosa mi succede? Sono un
idiota, imbecille e cretino!”
Senza smettere
di lesinare insulti alla propria persona, scosse il capo nel tentativo di
scacciare il velo di confuso smarrimento e, bene o male, riuscì a riconquistare
un accettabile dominio sui propri nervi incomprensibilmente tesi.
Ma bastò qualche
passo e la funerea atmosfera di poco prima lo riassalì,
con ancor maggiore violenza. Ignaro del proprio gesto si portò le mani al
volto; sconnessi sussurri gli scuotevano il petto ma,
per lui, il suono della sua stessa voce era distante, terribile il suono di
parole che non si rendeva conto gli appartenessero:
“Dove sei…
fratellino… dove sei?”
“Cosa cerchi?”
Panico… si immobilizzò, rigido, sbarrando gli occhi sul sipario di
tenebra che nulla gli permetteva di scorgere. Una voce sottile tra gli scrosci
di pioggia, un tuono, un lampo, poi ancora:
“Perché cerchi qualcuno che non sono io?”
Memorie
aggrovigliate presero a rincorrersi turbinosamente nel suo cervello; mentre il
filo del tempo si riavvolgeva, il dolore divenne talmente insopportabile da
essere paragonato ad una pugnalata al cuore… un dolore che credeva sopito e che
tornò prepotentemente a galla, come prepotente e crudele era stata la mano che
aveva estirpato dal mondo il suo fiore prezioso di Death Queen Island.
Una risatina
sottile si fuse con la pioggia, trillo d’argento, suono arcano sorto da qualche
angolo ignoto di un regno ultraterreno; aveva in sé qualcosa di
orrendo, sensazione che
Tuttavia
l’inquietudine era secondaria, sommersa dalla marea di tutte le altre,
contrastanti emozioni; un fiore perduto in quella che sembrava un’ altra vita nuovamente sbocciò nel suo cuore in
subbuglio.
“Il tuo cuore
batte, lo sento, batte ancora per me ed io ti attendo,
seguimi, vieni, mia Fenice!”
“Dove… dove
sei?”
I rumori della
tempesta, uniti al suo stato confusionale, gli impedivano di stabilire la
direzione della voce che sembrava diffondersi nel vento, in ogni direzione,
essa stessa frutto dello sconvolgimento della natura.
Una nuova risata
gli fece correre un brivido lungo la spina dorsale.
“Perché ridi così?”
Domanda posta in
tono quasi estatico, assente e rapito; come poteva il suo fiore trasmettergli
un tale senso di inquietudine?
“Chi può sapere cosa
si nasconde tra le spire ineluttabili dell’orrida morte? Neanche tu, tornato
dall’Inferno, puoi sondare fino in fondo i misteri dell’eterno sonno; quante
cose ancora non sai, Ikki mio.”
Parole prive di senso alle orecchie del ragazzo sconvolto, ma in quel
momento era incapace anche solo di provare a svelarne il recondito enigma,
troppo intento ad assorbire in sé quella voce che gli offuscava i sensi.
“Ti prego, non confondermi con frasi così arcane, dimmi solo una
cosa… sei la mia Esmeralda?”
“Ancora ti
domandi ciò che già dovresti aver compreso ed io sono qui, ad attendere invano
da tanto, troppo tempo, un tuo pensiero che mai più mi hai
concesso…”
Malinconiche
parole, seguite da agghiacciante risata, stonata e fortemente
contrastante con il messaggio rilasciato, con la persona cui apparteneva.
Ikki scosse
confusamente il capo; cosa non quadrava? Perché tutto
gli sembrava così naturale ed al tempo stesso assurdo?
“Sono io che non
quadro” si ripeteva, violentando se stesso in un’affannosa ricerca di auto-convincimento “Io, maledizione! Non
riesco a ragionare coerentemente, non riesco… a rifiutare ciò che so
terribilmente sbagliato!”
Sapeva con
assoluta certezza che non avrebbe dovuto dare ascolto a quella voce; quella stessa risata diabolica era come se, prendendosi
gioco di lui, volesse metterlo allo stesso tempo in guardia, lo canzonava,
invitandolo a fuggire via, lontano, dalla vana speranza che l’illusione si
tramutasse in agognata realtà.
Sì, lui voleva
che fosse vero, voleva la sua Esmeralda, la desiderava
come mai l’aveva desiderata.
Impazziva, la
testa stava per scoppiargli ma, al tempo stesso, era
incapace di reagire. Nel tentativo disperato di strappare la mente a quella
situazione di stallo, ricercò nel caotico disordine dei propri ricordi il
motivo che l’aveva spinto ad uscire nella notte… e un nome lo trafisse con un
impatto inaudito sui nervi già provati… Shun… aveva rischiato
di dimenticarlo… di dimenticare che forse il fratellino aveva bisogno di lui.
“Esmeralda… tu
sai dov’è Shun? Ti prego, aiutami a trovarlo, temo che stia male…”
Risposta
stridula, colma di rabbia:
“Perché mi fai questo, Ikki? Anche dopo
tanto tempo, dopo che così a lungo mi hai dimenticato, ora che ritorno, perché
tu possa ricordarmi, tutto ciò che sai fare è pensare a lui?”
Era gelosa?
Esmeralda gelosa di Shun? Mai l’avrebbe creduta capace di tale sentimento.
Un pianto
sommesso rispose ai suoi pensieri inespressi:
“Ho perduto il
tuo affetto, volato via quando hai lasciato Death
Queen per tornare dall’unica persona che abbia mai davvero contato per te e,
fino ad allora, mi avevi soltanto ingannato; io ero solo una triste sostituta,
di me avevi bisogno perché ti ricordavo lui!”
Era tutto
terribilmente sbagliato, quell’atteggiamento non poteva appartenere a colei che
di sola umiltà aveva plasmato il cuore. Ikki lo sapeva; eppure fece sua quella
disperazione che lo fece sentire talmente colpevole da
gettarlo nel più completo sconforto.
Si stava
lasciando illudere, una parte di sé ne era
consapevole, come era consapevole di voler essere illuso; ma quella parte fu
messa ben presto a tacere, quasi del tutto.
Esmeralda lo attendeva, aveva bisogno di lui…
E Shun?
Un enorme peso
gli opprimeva l’anima, la voce del fratello gridava dentro di lui, una voce che
amava disperatamente e che lo faceva vibrare, come quella di Esmeralda…
la voce dell’altro suo tesoro che implorava il suo aiuto.
Dov’era il confine tra realtà e sogno?
In quella notte,
nella quale gli spiriti tornavano nel mondo, ogni delimitazione tra
incorporeità e materia diveniva molto più labile, il
concetto stesso di realtà si trasformava in qualcosa di terribilmente relativo,
la sua stessa definizione non aveva più alcun senso.
“Il tuo silenzio
mi opprime, mia Fenice; cosa devo pensare? Che davvero hai
messo da parte tutto ciò che c’è stato?”
L’amaro
rimprovero di un fantasma, di un’anima errante a causa di un’implacabile verità;
il ricordo di Esmeralda era davvero rimasto talmente
sopito da fargliela quasi dimenticare? E non era
sbiadito sempre più, man mano che il legame con Shun si rinsaldava? Davvero
Esmeralda era scomparsa, in silenzio e senza che lui se ne rendesse conto, dai
suoi sogni, proprio perché non aveva più bisogno di lei?
Da quel momento,
sentendosi dimenticato dall’unica persona che in vita gli aveva dimostrato
affetto, lo spirito della fanciulla, senza poter
ricevere pensieri positivi da alcuno, aveva cominciato disperatamente a vagare,
in preda a quel lancinante rimpianto.
Ed Ikki aveva sempre pensato che una
creatura come Esmeralda si fosse trasformata nel più puro degli angeli… per
colpa sua non era stato possibile?
Si portò le mani tra i capelli, sgranando gli occhi contro il cielo
rivestito di tenebra che, con guizzi di lampi improvvisi, sembrava
volerlo deridere:
“Io non ti ho
mai dimenticata, non è vero, non ho mai potuto!”
Era davvero
così? Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole il dubbio nuovamente lo colpì come una frustata inattesa; la
confusione gli impediva di riflettere con obiettività.
“Non l’ho
dimenticata…” Il viso si era ora abbassato, così come la
voce, ridotta ad una litania prossima ad un isterico, bisbigliato lamento “Non
è vero… non posso averlo fatto… la mia Esmeralda… non posso averla
dimenticata…”
Un urlo
agghiacciante gli trafisse il cuore… ancora Shun che supplicava, Shun che
soffriva… orrendamente…
Non era stato in
parte anche Shun colpevole della triste sorte di Esmeralda?
E non era stato sempre a causa di Shun se lui, poi, aveva relegato ad un
puntino sempre più nascosto il ricordo della fanciulla?
Il respiro di Ikki era ridotto ad un sibilo rantolante, gli occhi
sbarrati e vuoti nel nulla, le mani convulse, oscillanti nel vuoto… perché ora
quelle maledette idee? Perché sentiva tornare, in
tutto il suo orrore distruttivo, la follia che un tempo l’aveva portato a far
del male a Shun, al sangue del suo sangue?
“Shun… Shun mio…
fratellino…”
Cercò di
concentrarsi solo su di lui, non poteva permettere a nessuno di estirpargli
nuovamente dal cuore l’amore che provava per Shun, neanche ad Esmeralda…
eppure… era difficile, così difficile… come trovare
una chiave di lettura a ciò che gli stava accadendo? Esisteva tale chiave di
lettura o tutto era governato dall’incubo illogico e senza sbocco alcuno?
Singhiozzi
sottili e angosciati lo assalirono ancora con tutta la loro afflizione… la sua
Esmeralda piangeva, implorava il suo aiuto,
esattamente come Shun, implorava la definitiva liberazione che solo lui poteva
aiutare a conquistare.
“Cosa devo fare?” gemette, in preda ad un opprimente senso di
impotenza. Shun era in pericolo e la voce di Esmeralda
lo rimproverava di averla dimenticata a causa di quel ragazzino che le
somigliava talmente da farli sembrare pressoché gemelli “Esmeralda… cosa devo
fare? Cosa vuoi da me?!”
Il silenzio che
seguì era assoluto, persino la pioggia sembrava essersi fatta improvvisamente
muta; una sospensione più opprimente del rumore della tempesta, un’apparente
quiete che urlava di terrore, di aspettativa. La
natura stessa attendeva e sentiva che l’incubo stava avanzando, a passo di
morte lenta ed inesorabile. Ikki si guardò intorno: era come avere una visione
rallentata del mondo, più nulla seguiva il proprio corso normale, l’ignoto era
di tutto padrone e disumano dominatore.
Un movimento
leggero nel buio, un guizzo di esile forma danzante
attirò l’attenzione del giovane che, guidato solo da istinto, l’anima quasi
strappata a se stessa, mosse qualche passo in quella direzione, anche lui lento
o almeno così gli sembrava, in una dissociazione completa di corpo e spirito,
osservava i propri stessi passi come spettatore esterno di un vecchio film
dell’orrore.
Non vedeva più
nulla intorno, ora seguiva un percorso senza sapere cosa lo avesse
spinto ad intraprenderlo; quell’apparizione fugace non si era più
mostrata ma lui andava avanti, sempre dritto davanti a sé, sonnambulo sul
sentiero tessuto da un sonno innaturale.
Da qualche
parte, un angolino minuscolo del suo essere si
chiedeva dove l’avrebbe condotto quella strada, eppure, al tempo stesso,
sentiva che non aveva più senso domandarsi nulla; doveva solo proseguire,
lasciarsi agire dal corso imprevedibile degli eventi del tutto privi di ordine
logico.
Ogni tanto quel
guizzo compariva ancora, quel lieve passo di danza che sembrava aleggiare
nell’aria, silfide o folletto dalle forme immensamente amate… e orrendamente
diaboliche… ma a questo Ikki non pensava, non voleva
pensarci, solo sul primo aspetto concentrava la propria attenzione ed il
proprio sentimento che gli esplodeva nel petto.
Non si fermò neanche quando qualcosa cambiò nella cortina di tenebra
densa e proseguì imperterrito verso il bagliore che si accese qualche metro più
avanti, lucore tra giallo e verdastro, di putrescente essenza… non rassicurante
ardore del cosmo positivo delle stelle ma lume di morte, sorto da sotterranee
contrade infere dove speranza è sconosciuta.
In mezzo alla
luce scorse ben presto qualcosa, una forma indistinta che assumeva consistenza
man mano che vi si avvicinava e che, sempre più, gli comunicava una calda,
familiare sensazione… non Esmeralda questa volta; tale sensazione era intatta,
pura, non corrotta da inquieto terrore… la creatura alla quale si stava
avvicinando non era angosciante fantasma ma integro
essere umano… e lo stava attendendo… o forse no, non poteva attenderlo, non
più, perché nulla vedeva. Il capo reclinato sul petto,
giaceva incosciente o quasi, le braccia sollevate ed i polsi incatenati ai rami
di due alberi rinsecchiti che sembravano essere stati messi lì apposta.
Il corpo snello e graziosamente flessuoso era nudo, in balia della pioggia
impietosa che frustava senza sosta la pelle lattea, prossima al pallore insano
della morte.
I capelli
spioventi, appesantiti dall’acqua che li faceva rilucere come fossero intrisi
di stelle, coprivano del tutto il volto abbassato, eppure era possibile
intravedere un leggero movimento, un tremito appena percettibile ma chiaro
indizio di sofferenza.
Ikki aprì la
bocca per gridare, ma tutto quello che riuscì ad emettere fu un gemito
strozzato, seguito da un balbettio pressoché inudibile:
“Sh.. Shu..
Shun…”
Tese una mano,
stupendosi per i tremori convulsi che la rendevano tanto malferma, riuscì a
fare un altro passo, uno soltanto prima di crollare in ginocchio. Strinse i
denti, per fare forza su se stesso, per sollevarsi, ma non aveva alcun potere
sulla propria volontà. Eppure doveva andare da lui, doveva raggiungerlo, anche
strisciando se fosse stato necessario… e allora perché
non lo faceva? Perché rimaneva maledettamente
immobile?
Si trovò ad
osservare distrattamente i rivoletti scarlatti che striavano le membra
marmoree, punteggiando qua e là il corpo del suo fratellino come tanti boccioli
di rosa che spuntavano dal nulla, ferite che si aprivano improvvise, una dopo
l’altra, in ogni parte del corpo, senza nulla risparmiare.
Ikki percepì
vagamente la carezza calda di lacrime silenziose che gli attraversavano le
guance; piangeva la sorte del fratello ma non faceva
nulla per porre fine a quel martirio, non riusciva a fare nulla.
Fiotti di sangue
sgorgavano sempre più numerosi, tagli sempre più profondi torturavano le tenere
carni e, ad ogni nuova lacerazione, il corpo di Shun sussultava in uno spasimo
di dolore, non troppo accentuato, essendo la sofferenza anestetizzata da una probabile semi-incoscienza che tuttavia era ben lungi
dal concedergli sollievo… quale incubo atroce stava vivendo il suo fratellino? E cosa lo colpiva così selvaggiamente? Potevano quei fiotti
di sangue sgorgare dal nulla?
Solo allora udì
la risatina, dapprima flebile, poi sempre più acuta e stridente alle sue
orecchie; la stessa risata udita poco prima… o forse non poco prima… quanto
tempo, quanti minuti erano passati dacché era uscito
dalla villa, quante ore… quanti secoli? Gli sembrava di errare da sempre in
quelle contrade oniriche, senza un prima, né un poi…
solo un eterno vagare nell’incubo.
E la vide… folletto fluttuante,
dalle sinuose movenze, avvolta nel suo abito rosa, la cui gonna si sollevava ad
ogni passo danzante, i capelli biondi ondeggianti nel vento, apparve
materializzandosi dalla pallida luce infernale, accanto al ragazzino
prigioniero, a lui talmente simile da sembrare una medesima immagine riflessa
in uno specchio; donna e uomo, capelli biondi e capelli castani ma per il resto
identici come due gocce nel mare.
Erano talmente
veloci e fluidi i suoi passi, che Ikki non poteva ben
scorgerla in viso ma quando la vorticosa danza la portava a voltarsi verso di
lui, in una frazione di secondo scorgeva due bagliori di brace su quei
lineamenti di creatura amata.
Ma lui vedeva
solo la sua Esmeralda; il confine tra incubo, desiderio e tutti i possibili
sentimenti dell’animo umano era crollato: tutti erano fusi in lui e ad essi reagiva con l’inerzia assoluta.
Era Esmeralda
che saltellava ridendo come spiritello infernale intorno a Shun e, ad ogni
passo del suo demoniaco balletto, con una minuscola lama che stringeva tra le
dita, incideva un frammento del corpo inerme del ragazzino, ora più leggermente,
ora con maggior ferocia mentre, ad ogni taglio
inflitto alle vulnerabili membra, la risata si faceva più perversamente
soddisfatta ed aspra.
Era Esmeralda
che godeva, con insana follia, di tale pena da essa
stessa causata ed Ikki guardava la scena, sperimentando forse per la prima
volta la vera essenza del terrore più puro, il senso stesso della sofferenza
alla quale non sapeva porre un freno. Per la prima volta in
vita sua, il santo di Phoenix si sentiva totalmente in balia degli eventi,
bloccato in un vicolo cieco dal quale non aveva alcuna speranza di fuggire: i
due esseri per lui più preziosi nell’intero universo, gli stavano davanti,
protagonisti di un macabro gioco di violenza e morte. Mai, come in quel
momento, il destino si era fatto beffe di lui.
“Ti prego,
Esmeralda, lascialo stare, smettila… non fargli più del male, ti scongiuro,
Esmeralda… è colpa mia… è stata tutta colpa mia, non devi odiarlo così tanto, lui è innocente, è una vittima, proprio come te…
non merita il tuo odio, è innocente…”
Aveva cominciato
a parlare senza rendersene conto, vane preghiere che si perdevano nell’eco
della risata, inascoltate, forse neanche udite; sì, il suo Shun era innocente,
innocente di tutto ma anche Esmeralda lo era… Solo
lui, Ikki, era il solo autentico colpevole, l’unico meritevole di biasimo, lui
era l’essere abbietto che non era riuscito a fare nulla di buono per i suoi due
tesori… anzi, era forse lui che li aveva condotti a quel punto, il suo amore
per loro li aveva unicamente trascinati verso la completa rovina.
Un ennesimo
taglio, il più feroce inferto fino a quel momento, lacerò in profondità il
petto di Shun, che si contrasse per la sofferenza. Ikki credette di udire anche
un sottile gemito, un lamento appena accennato ma non poteva esserne sicuro e,
probabilmente, era solo la sua immaginazione; dal punto in cui si trovava non
avrebbe potuto udirlo, sarebbe stato coperto dalle risate di Esmeralda,
dalla pioggia, dai tuoni… anzi, forse era stato lui stesso a gemere, forse
quelle ferite inflitte al fratello le sentiva sulla propria stessa pelle, forse
per questo ora stava urlando, le mani affondate nei capelli, grido straziante
che si prolungò nella notte senza fine.
***
Doveva essere quella l’essenza della pura
tenebra; l’aveva già sperimentata, avrebbe dovuto conoscerla bene ormai. Ma quando era precipitato nel baratro la prima volta, la
luce fluttuava, seppur flebile, sull’orizzonte distante. Ora dov’era quella
luce? Non c’era nulla che gli aprisse il cuore alla speranza, nulla che potesse
fare per rendere più serena la sua nuova discesa agli Inferi.
Oscillava nel
nulla, sospeso in un incubo destinato a protrarsi in eterno, oltre la sua
stessa morte e, tuttavia, la sua anima già stava
morendo. Il suo corpo ancora sentiva il dolore inflitto da demone senza volto,
percepiva sulla propria pelle il dilatarsi delle ferite, laddove le sue giovani
carni erano già state ripetutamente dilaniate, ancora le sue membra reagivano
all’interminabile agonia con spasimi incontrollati, ma l’anima no, essa era
inerte e spenta… a tutto… quello era il suo destino che eternamente si
rinnovava, Andromeda incatenata offerta in sacrificio e le catene questa volta
non si sarebbero spezzate.
Ancora Hades
l’aveva trascinato con sé… Hades o qualcun altro… una parte ancora cosciente
del suo spirito era pressoché certa che non il Dio degli Inferi fosse, in quel
frangente, il responsabile dell’oscurità impadronitasi di lui… eppure… Hades o
altro demone, che importava? Il saperlo non sarebbe servito a cambiare la
realtà, a far girare in senso opposto la ruota di un destino che da quando era nato gli era stato avverso.
Detestava l’auto-compatimento
nel quale si stava crogiolando o, forse, non era proprio così; quelle erano
solo considerazioni razionali elaborate da una mente ormai del tutto assente a
se stessa… non aveva più senso compiangersi e neanche lo stava facendo in
realtà… desiderava solo dormire, che almeno gli fosse concesso il sollievo di
non accorgersi di nulla, di distaccarsi del tutto per poter ignorare il limbo
nel quale galleggiava da un tempo ormai interminabile… e a quel punto anche
pensare in termini temporali era assurdo ed inutile… ridicolo, era quasi
prossimo a pensare… se ne avesse avuto la forza forse
avrebbe riso… o avrebbe pianto… anche quella distinzione era adesso così
labile, inutile… inesistente…
Forse stava già
piangendo… debolmente i suoi sensi ancora funzionavano, ancora era ancorato ad
un corpo che gli impediva di rifugiarsi nel distacco tanto bramato… e i suoi
sensi percepivano il liquido caldo che gli colava sulle guance… lacrime, ben
note e persino rassicuranti amiche di una vita intera..
o sangue sgorgato dalle lacerazioni che gli solcavano la pelle? Forse entrambi…
ed il sangue scorreva ovunque lungo il suo corpo ed ancora oltre, lo
circondava, sommergendolo, soffocandolo… no, non era il suo, non solo… era
tutto il sangue che aveva versato nel corso della sua adolescenza, in esso era destinato ad affogare, la sua coscienza stessa in
quel mare scarlatto si sarebbe smarrita, perduta… impazzita.
Un’esplosione di
dolore più intensa, nella tenebra striata di sangue, un urlo… il suo? Ancora
riusciva ad urlare? E quei singhiozzi, erano i suoi?
Ascoltava il
proprio cuore, ora; da quanto ad esso non poneva
alcuna attenzione? Aveva ricominciato a battere? O,
probabilmente, non aveva mai smesso di farlo, seppur debolmente; un filo
sottile lo aveva fino a quel momento legato ad una vita ormai fragile. Con quel
grido, quei singhiozzi, la vita era tornata ad ardere e ora sapeva perché, ora
aveva riconosciuto la voce, la presenza… una presenza che quasi si fece palpabile quando lui riuscì a darle un nome, in un
sussurro flebile ma reale… forse la prima cosa reale, importante dopo ore… dopo
non avrebbe saputo dire quanto tempo:
“Ni… Niisan…”
Era ancora vivo,
ora lo sapeva e finché la vita avesse sussurrato, anche con un’inconsistente
briciola di forza residua, il proprio desiderio di continuare ad ardere, lui l’avrebbe ascoltata, perché lui amava la vita, lui amava
quella persona che ora attraversava un incubo pari al suo, lo sentiva, forse
peggiore… Shun amava quella persona che aveva bisogno di lui e per quella
persona si sarebbe aggrappato alla vita.
Quel lume che si
era acceso per lui si stava spegnendo ora, in
un’agonia che non si poteva descrivere ed il cuore di Shun si spezzava,
assimilando con profonda empatia tutta l’angoscia dell’adorato fratello:
“Perché, Niisan? Perché soffri così?
Cosa ti sta accadendo?”
Era davanti a
lui, a qualche metro di distanza… stava riuscendo a scorgere qualcosa nella
notte, tutto sembrò farsi improvvisamente più chiaro, nitido… stava lentamente
uscendo dal limbo, si sforzava di farlo, stava
strappando se stesso alla sospensione dell’incubo. I sensi, uno dopo l’altro,
tornavano con fatica a compiere le loro funzioni, tutto assunse una propria
logica, il mondo tornava ad essere quello che lui conosceva: la pioggia che gli
frustava la pelle, il gelo del temporale d’autunno, i lampi ed i tuoni che
sconvolgevano il bosco, persino il dolore delle ferite… accolse tutto questo
con gioia, perché significava riacquistare il controllo di se stesso e degli
eventi.
Ora poteva
nitidamente scorgere anche la figura sottile e goffa che gli saltava intorno,
colpendolo ripetutamente, ora poteva dare un volto a quella creatura, la causa
di tutti gli inganni perpetrati in quella notte infernale; colui
che già era stato loro nemico, colui che faceva dell’ipocrisia la
propria arma, che combatteva non con il valore del guerriero ma con la subdola
malignità di chi sfrutta i sentimenti dell’avversario per distruggerlo
psicologicamente… colui che si serviva della sfera affettiva di chi gli stava
di fronte, delle emozioni, delle fragilità, per cercare la vittoria nel modo
più infido e sleale che qualsiasi combattente potesse usare: il generale degli
abissi, evidentemente sopravvissuto al crollo del regno sottomarino, il custode
della colonna antartica, in grado di leggere nel cuore dell’avversario e di
assumere, ai suoi occhi, l’aspetto di una persona amata… Khysa
di Lymnades!
Una rabbia
ardente si impadronì del santo di Andromeda e
risvegliò spontaneamente in lui il cosmo di sacro guerriero, dapprima sottile
fiammella che divenne sempre più vitale, bruciante nelle viscere, giunse come
fiume in piena in ogni frammento delle sue membra, anche alle mani incatenate.
I polsi e le dita si tesero, accogliendo quasi con gioia quel rinnovato vigore
che avevano perduto; Shun strinse forte i pugni e gli anelli metallici non
ressero a quella pressione con la quale non potevano competere; con un rumore
sordo si creparono, per andare poi in frantumi, restituendo la libertà al loro
prigioniero ormai non più vittima nel bizzarro gioco di destini che quella
notte di spiriti aveva intessuto.
***
Tutto si ripeteva,
il tempo si riavvolgeva su se stesso ed Ikki si trovava di nuovo a Death Queen,
in quel giorno fatale che lo avrebbe visto rinascere come sacro guerriero;
ancora una volta il colpo mortale venne sferrato,
ancora la sua estrema violenza si abbatté sul fragile petto di Esmeralda… ma
non il misterioso maestro dell’isola, questa volta, perpetrava tale gesto
inaudito…
In un
susseguirsi terribile di secondi, Ikki assisté al risvegliarsi del cosmo di
Shun, vide la catena che lo vincolava all’albero spezzarsi, vide le mani del
fratello afferrarne le estremità per volgerle contro la fanciulla
che adesso, sgomenta, si era immobilizzata davanti alla creatura furiosa eretta
di fronte a lei in tutta la sua maestosa fierezza… le catene di cui era signore
si trasformarono in crudeli armi che vennero scagliate con ferocia contro la
ragazzina, trafiggendola, spingendola lontano…
Ikki non vide
altro, cercò di strappare il proprio corpo a quell’insana immobilità
ma tutto quello che riuscì a fare fu esplodere in un urlo, come già un
tempo, quando per la prima volta l’aveva perduta:
“ESMERALDAAAAAAAA!!!!!”
***
Khysa giaceva al suolo, immobile; Shun non riuscì a capire se fosse
ancora vivo o meno, tuttavia non infierì. Nelle sue orecchie echeggiava l’urlo
disperato del fratello… era stato questo l’inganno, questo quel demonio vivente
aveva mostrato ad Ikki: i suoi due più grandi affetti che si facevano del male
l’uno con l’altro… adesso aveva visto il corpo della dolce Esmeralda
selvaggiamente trafitto, esperienza da lui già vissuta in passato, esperienza
che l’aveva segnato per sempre, la goccia ultima accumulata su tante altre,
quella che aveva spianato definitivamente la strada verso la cieca follia… e
questa volta era stato lui, Shun, a compiere il delitto… questo ciò che si era
presentato agli occhi sconvolti di Ikki.
Il santo di Andromeda
assorbiva dentro di sé l’atroce stato d’animo del fratello ed il suo cuore si
dilaniava, si sentiva colpevole nonostante sapesse che in realtà aveva
sottratto entrambi a un destino di morte certa o ad un’esistenza scandita da
una follia senza speranza… Eppure Ikki era ancora preda dell’incantesimo, lo
dimostrava l’oscurità del suo spirito, la sua mano tesa e tremante, il corpo
così teso che sembrava sul punto di spezzarsi, gli occhi sbarrati e la bocca
aperta in un grido conclusosi da tempo ma che si protraeva in muta
disperazione.
Shun fu improvvisamente pervaso da molle
debolezza e faticava a reggersi in piedi; tutte le vicissitudini di quella
notte lo schiacciavano con il loro peso opprimente, il sangue continuava a
scorrere imperterrito attraverso ferite non rimarginate
ed il precipitoso fuggire del liquido vitale si portava via con sé ogni
briciolo di residua energia.
Ma il ragazzino non si rassegnò a lasciarsi semplicemente cadere a
terra; fece invece qualche passo malfermo in direzione del fratello, lo
raggiunse e, solo allora, scivolò in ginocchio, allungando stancamente un
braccio per portarlo su quel viso in subbuglio che non vedeva nulla, fissava un
punto distante davanti a sé. Shun avrebbe desiderato talmente che quello
sguardo amato si posasse su di lui, desiderava
incontrare i suoi occhi:
“Niisan” si trovò a
sussurrare ancor prima di pensarlo “Quella non era Esmeralda… ti
scongiuro, perdonami… guardami, ti prego…”
La reazione fu spropositata e
sconvolgente, Shun non si accorse del movimento con il quale Ikki si erse in
piedi e si scagliò contro di lui, sferrandogli un pugno in pieno volto che il
ragazzino non poté evitare. Cadde all’indietro, rannicchiandosi al suolo, il
fiato corto, ingoiando il sangue di quell’ulteriore
ferita, tanto più dolorosa di tutte le altre. Non osò muoversi, non importava
quello che Ikki avrebbe fatto… ma il santo di Phoenix
non fece nulla, Shun udì il suo rantolo soffocato, i suoi passi che si
voltavano e fuggivano via. Poi tutto fu di nuovo buio e l’oscurità nuovamente
lo avvolse.
***
Hyoga e Seiya si erano precipitati nei
corridoi della villa e si trovarono, quasi subito, faccia a
faccia con Shiryu che scendeva di corsa le scale dopo essere uscito
dalla biblioteca dei Kido.
Si fermarono quel tanto che bastò per
interrogarsi con gli occhi ma già avevano ripreso a
muoversi quando il santo del Dragone chiese ai due compagni:
“Avete sentito?”
Annuirono semplicemente e tutti e tre si
diressero senza perdere altro tempo verso l’uscita del palazzo; a nessuno di loro
era sfuggito il sentore di dolore e battaglia che
infuriava in un punto imprecisato del parco, un’esplosione di cosmi e flussi di
energia colmi di paura ed oscura inquietudine e uno di essi malvagio, ostile,
plasmato solo da odio e rancore.
Il pensiero dei tre ragazzi si era subito
rivolto ai due fratelli che nessuno aveva ancora visto rientrare e quei cosmi
erano inequivocabilmente familiari, come era
inequivocabile l’ultima sensazione che aveva assalito i loro sensi: Ikki aveva
colpito Shun… era già accaduto… perché ancora? Cosa
stava succedendo questa volta?
Uscirono sotto un cielo che non aveva
cessato di spandere la propria rabbia sulla terra, tuttavia il temporale si
stava lentamente esaurendo; lampi e tuoni si erano diradati e la pioggia,
benché sempre fitta, si riversava dalle nuvole con meno violenza.
Adesso non c’era più nulla a guidarli
nella giusta direzione, ogni flusso era scomparso e la cosa che più li rendeva
ansiosi era il cosmo di Shun, spentosi dopo aver esternato tutto il proprio
immenso, insopportabile dolore.
Si affidarono quindi all’istinto per
cercare qualche traccia della tragedia che, erano certi, si era conclusa da pochi istanti, senza conseguenze nefaste
speravano.
Fu Seiya il primo a vederlo, immobile,
nudo, sdraiato di fianco sull’erba bagnata del parco; si gettò su di lui,
immediatamente seguito dai compagni e raccolse quel corpo straziato tra le
proprie braccia. Era una visione spaventosa, le membra di Shun erano coperte di
ferite, tagli a volte anche molto profondi; il volto era
una maschera di sangue fuoriuscito dal naso e dal labbro spaccato.
Seiya lo chiamò, sussurrando
angosciosamente il suo nome, cercando di contenere la propria rabbia estrema
verso chiunque avesse infierito in quel modo su un corpo indifeso, con evidente
sadismo… non poteva aver fatto tutto Ikki, non voleva crederci… e comunque avevano percepito un’altra presenza.
Shun era solo svenuto, la vita pulsava
ancora in lui ma qualcosa gli impediva di riprendere i
sensi, forse il dolore troppo intenso che provava lo teneva segregato nella sua
incoscienza e non aveva né la forza né la volontà di uscirne.
Hyoga si era accovacciato accanto a Seiya
ed osservava il suo fratellino con l’animo colmo di ansia;
non sapeva mai che dire né che fare in questi momenti, neanche quando cose
simili accadevano in battaglia; ma vederlo così, nudo ed indifeso, fragile come
un bambino, immaginando cosa quella pelle tenera potesse avere passivamente
subito, andava oltre la sua soglia di sopportazione. Allungò una mano a
sfiorare il ricciolo castano che ricadeva sugli occhi chiusi di Shun, toccò
quei fili di seta incrostati di sangue e lacrime ed egli stesso pianse, lasciando cadere sul viso del fratello le gocce
calde della propria commozione.
“Qui ci sono segni inequivocabili di
battaglia e qualcuno si è trascinato via” fu Shiryu a riportarli all’urgenza
del momento “Gocce di sangue si allontanano nel bosco; qualcuno ferito che è
scappato.”
Seiya affidò Shun alle cure di Hyoga e
raggiunse il compagno che osservava, corrugando la fronte per sforzare la
propria vista al buio, le tracce fresche e recenti.
“Potremmo ancora raggiungerlo?”
Shiryu scosse il capo in segno di
dissenso:
“E’ sicuramente già scomparso… e non credo affatto si trattasse di Ikki…”
“Ma allora, lui
dov’è?”
Un nuovo cenno
di negazione, questa volta senza parole, in seguito al quale Shiryu gli diede
le spalle, per tornare a dedicarsi al fratello svenuto. Hyoga lo aveva sottratto al gelo tagliente del suolo e si era
tolto la maglia per poter coprire, almeno un poco, con essa,
la nudità indifesa del fratello, stringendolo forte a sé, per trasmettergli il
più possibile il proprio calore.
“Portiamolo in casa” fu il perentorio
ordine di Shiryu che, in questi momenti di incertezza,
era in grado di guidare i compagni sulla strada della ragione e allora, se ce
n’era bisogno, sostituiva momentaneamente Seiya nel suo ruolo di leader
riconosciuto quando il ragazzino si lasciava vincere dalla propria fragilità
emotiva.
Ma Seiya era ben deciso, come spesso accadeva, ad agire di testa propria
e se così stabiliva niente poteva fermarlo:
“Prendetevi cura di lui,
io vado a cercare Ikki!”
Nessuno dei due fratelli ebbe il tempo di
ribattere; si era già voltato ed era scomparso nella notte; Shiryu chinò il
capo lasciandosi sfuggire un sospiro rassegnato,
mentre Hyoga, impaziente di portare Shun laddove avrebbero potuto curarlo e
restituire un po’ di tepore al suo corpo ghiacciato, si era già avviato verso
casa.
***
Le mani… era così orribile guardarsele… lo
avevano fatto davvero, un’altra volta; aveva giurato che mai più avrebbe
sfiorato il suo tesoro se non per rivolgergli una carezza, per trasmettergli
tutto il suo amore… eppure, Shun aveva davvero colpito Esmeralda, l’aveva
uccisa di nuovo, davanti ai suoi occhi, come aveva potuto?
Si portò le dita tra i
capelli, scosse convulsamente il capo:
“No, no, basta!”
Le parole di Shun risuonarono nella sua
mente, la vocetta angosciata e supplichevole:
“Non era Esmeralda…
perdonami… non era Esmeralda…”
Non era Esmeralda… lo sapeva, lo sapeva benissimo anche lui e allora perché non la smetteva
di torturarsi in quel modo? Perché lo aveva colpito,
perché?
L’illuminazione fu improvvisa, come il
ricordo che lo assalì: il generale degli abissi che combatteva assumendo le
sembianze di una persona amata… all’ultimo momento, durante lo scontro in fondo
al mare, aveva scoperto il segreto che Ikki custodiva gelosamente nel cuore… Khysa di Lymnades conosceva
Esmeralda, sapeva come fargli del male; allora lo aveva scoperto troppo tardi ma il santo di Phoenix era sicuro, nel momento esatto
in cui l’aveva sconfitto, di aver percepito tutto il suo odio e la brama
assoluta di tornare per vendicarsi… era tornato davvero, quindi? Era
sopravvissuto? O il suo desiderio folle gli aveva
permesso di sfidare la morte stessa e di agire contro di loro come spirito?
Non poteva esserne certo e neanche
importava in fin dei conti, ma di una cosa adesso era sicuro: la lucidità stava
tornando e sapeva di averlo sentito, sapeva che dentro
di sé se n’era reso conto fin da subito… quella figura che colpiva
selvaggiamente Shun era Khysa di Lymnades!
“Cieco, stupido… idiota!”
Inveì contro se stesso; lui che era sempre
andato tanto fiero della propria forza, della propria virile sicurezza, si era
fatto raggirare come un bambino; ciò che aveva sempre rimproverato a Shun, ciò
che aveva rimproverato anche a Seiya ed a Hyoga i quali, quel giorno di
battaglia, si erano lasciati ingannare da Khysa sul
campo dei sentimenti, l’aveva portato ad impazzire a
tal punto da agire in maniera spropositata nei confronti del suo fratellino.
Come aveva osato accusare gli altri di
debolezza? Lui si era comportato peggio di tutti loro.
Dai capelli, le mani si spostarono al
volto, nel vano tentativo arginare il fiume di lacrime che aveva cominciato a
fluire, copioso:
“O Shun.. Shun
mio…”
Appena le tolse vide qualcuno avanzare
verso di lui… un altro inganno? Istintivamente si mise sulla difensiva.
“Hai intenzione di colpire anche me,
Ikki?”
Seiya… ma era davvero lui? Si stava
comportando in modo assurdo, non sapeva più di cosa fidarsi… si vergognava
profondamente di se stesso.
“Sei veramente tu, Seiya? Khysa di Lymnades è tornato per
aggredirci ancora… ed io ora… come posso essere sicuro…”
Pegasus si fermò ed assunse una posizione
rilassata, le braccia incrociate sul petto, sperando che la paranoia di Ikki non intravedesse in lui alcun intento ostile:
“Immaginavo una cosa del
genere… era lui quindi… per questo hai fatto del male a Shun? Temevi
fosse lui sotto false sembianze? Hai perso un briciolo di lucidità a quanto
vedo…”
Ikki scosse il capo, imponendosi di
ignorare la rabbiosa ironia di quelle osservazioni; in altri momenti non
avrebbe permesso a nessuno, neanche a Seiya, di apostrofarlo in quel modo ma questa volta, la consapevolezza di essere nel torto
totale era troppo elevata, questa volta avrebbe accettato qualsiasi punizione
che lavasse via il gesto orribile che aveva compiuto… e nulla sarebbe bastato,
ne era ben consapevole.
Ogni timore d’inganno svanì; non sapeva
cosa lo rendesse così sicuro ma quello che aveva
davanti era proprio Seiya, estremamente preoccupato per quello che era
accaduto, tra l’altro. Evidentemente aveva già visto Shun, per questo Ikki non poté trattenersi dal chiedere:
“Lui… come sta?”
“Intendi tuo fratello? Quando l’ho
lasciato, Shiryu e Hyoga lo stavano portando in casa, svenuto
e coperto di sangue… ma è vivo se proprio ci tieni a saperlo.”
Ikki sospirò, faticando sempre più a
mantenersi paziente:
“Finiscila con questo
sarcasmo irritante, fammi il favore! Ora voglio solo andare da lui! E non sono stato io provocargli quelle ferite… l’ho colpito
solo una volta…”
“Già… immagino che a questo sia dovuta la brutta lesione che ha sul viso; perché vuoi
vederlo? Per infierire ancora?”
“SEIYA, FALLA FINITA!”
Non aveva potuto trattenersi dall’urlare;
rendendosene conto, proseguì più pacatamente:
“Vorrei morire per quello che ho fatto,
ora come vorresti che mi comportassi? Guardami bene e dimmi se pensi che possa
fargli ancora del male!”
Si fissarono in silenzio, per un lungo
istante ed infine Seiya gli diede le spalle, con un’ultima asserzione:
“Sì, sì, OK… andiamo da Shun…
però dovrai spiegarci cosa è accaduto…”
***
Le condizioni di Shun non erano gravi,
glielo avevano assicurato ma ancora non aveva aperto
gli occhi; tuttavia, il respiro era regolare e probabilmente aveva
semplicemente bisogno di una lunga dormita senza sogni né pensieri, di un
riposo morale più che fisico.
Ikki aprì silenziosamente la porta oltre
la quale giaceva il suo fratellino; la stanza era immersa nelle prime luci di
un’alba che lasciava presagire un giorno sereno dopo la lunga notte di
tempesta.
Il ragazzo giaceva supino sul letto, una
mano sfuggita alle coperte languidamente posata sul petto; il respiro era
profondo e sano e questo rasserenò Ikki quasi del tutto… se non fosse stato per
quel tormento, per la terribile consapevolezza di avergli fatto ancora del
male… dopo che, probabilmente, lui l’aveva salvato, aveva salvato
la vita di entrambi!
Si avvicinò; la prima cosa che lo colpì
come una pugnalata fu l’orribile tumefazione che gli sfigurava il volto. Ad una
più attenta osservazione non era una cosa poi così grave e, probabilmente, ogni
segno sarebbe scomparso, come tutti quelli che si
erano susseguiti sul corpo di quella miracolosa creatura che sembrava assorbire
e cancellare ogni cicatrice. Solo ad occhiate approfondite era possibile notare
qualche segno delle innumerevoli battaglie trascorse… anche tutte queste nuove
lacerazioni accumulate in quella notte infernale sarebbero scomparse, ne era certo.
Eppure, quell’ematoma violaceo ancora
screziato di sangue era terribile per Ikki, perché lui ne era
stato responsabile.
Non poté impedire ad una lacrima di
sfuggire al proprio controllo, mentre prendeva posto
su una sedia accanto al letto e gli sfiorava dolcemente il labbro gonfio; era incredibile
come neanche una lesione così brutta a vedersi potesse offuscare l’immacolata
bellezza di quel volto.
Quella sottile carezza bastò a provocare
un movimento lieve nel ragazzo addormentato; scosse appena il capo, le palpebre
tremolarono fino a schiudersi leggermente. Dapprima offuscate ed assenti, le
iridi smeraldine brillarono di un lampo fugace quando
si posarono su di lui. Ikki temeva di trovarsi di fronte ad uno sguardo
spaventato e diffidente e vi lesse, invece, solo gioia e sollievo; si vergognò
di se stesso per l’ennesima volta in poche ore: avrebbe dovuto conoscere bene
il suo fratellino, ormai.
Ricambiò quell’occhiata con un sorriso
commosso e con una cauta carezza sulla parte del viso vigliaccamente guastata
dalle sue maledette mani, quelle stesse mani che ora, con quei tocchi
affettuosi, desideravano avidamente domandare un’assoluzione non meritata ma
che, sicuramente, sarebbe stata concessa… in fondo quello era Shun, il santo di Andromeda, la creatura più pura dell’universo intero.
“Perdonami” gemette Ikki, senza riuscire a
trattenere un singhiozzo.
Shun scosse il capo, in quel modo tenero
che era solo suo ed un sorriso apparve sul viso pallido che rispecchiava tutta
la bontà e la nobiltà del suo animo incontaminato.
Poi parlò, un debole sussurro, appena
udibile, ma che scese come linfa vitale fin nel cuore di Phoenix:
“Mi abbracceresti, Ikki-Niichan?”
Tese le braccia, atletiche e snelle, verso
il ragazzo più grande che, a quella richiesta, non si fece pregare e lo aiutò a
sollevarsi, cautamente, cercando di non stringere troppo per non causare fitte
indesiderate ai punti doloranti di quel corpo martoriato e lo avvolse nel suo
calore protettivo, cullandolo come avrebbe fatto con un bambino.
Mentre Shun si crogiolava in
quell’affetto, Ikki aprì gli occhi e li puntò oltre la finestra, verso il sole
che sorgeva limpido e rassicurante: l’eterna notte dei fantasmi si era conclusa dopotutto, ma se il disco dorato di Apollo si
ergeva fiero sulla terra, il cuore di Phoenix era ancora cupo… la sua notte non
sarebbe mai finita, un ricordo si sarebbe protratto, in eterno, con tutta la
sua crudeltà:
“Khysa… allora
ti ringraziai, perché avevi risvegliato in me la memoria della mia Esmeralda…
ora non posso che odiarti, perché il suo ricordo lo
hai corrotto, con la tua perfidia!”