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Autore: casty    23/07/2014    7 recensioni
Cosa ci fanno Sherlock e John travestiti da Merlin e Arthur al Comicon di Londra? Cercano un serial killer, che domande! Se la dovranno vedere con un gruppo di fanciulle furbe, spietate e ossessionate da una strana passione...
[post stagione 3][rapimento]
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Il velociraptor era a pochi metri da John, ancora qualche secondo e gli sarebbe stato addosso.
All’improvviso Sherlock spuntò da dietro una roccia con un pugnale di selce nella mano. Il tempo rallentò e John potè ammirare per qualche istante il suo fisico scolpito. Il suo corpo nudo era coperto solo di un minuscolo perizoma leopardato.
Sherlock balzò sul velociraptor e gli squarciò la gola con la selce affilata, salvando John da una morte certa.
«Sherlock!» esclamò John correndogli incontro. Sherlock, lucido di sudore e sangue spalancò le braccia e i due si strinsero in un abbraccio. Poi si baciarono con passione.
«Oh, John! Questa volta ho davvero temuto di perderti» disse Sherlock con la voce quasi rotta dal pianto.
I due si guardarono intensamente negli occhi.
«Se tu fossi morto non me lo sarei mai perdonato. Perché io ti...»
L’ultima parola di Sherlock fu coperta da un forte squillo.
«Tu mi...?» lo incalzò John col cuore in gola.
«Io...»

Il secondo squillo svegliò bruscamente John. Portò una mano davanti agli occhi, infastidito dalla luce vivida.
Che razza di sogno...
John era steso su una superficie dura. Dura e fredda. Una lieve brezza fresca gli scompigliava i capelli.
Un telefono squillava da qualche parte, ma John era troppo sbalordito per badarci.
«Dove mi trovo?» si chiese ad alta voce.
Strizzò gli occhi e scrollò la testa. Sbatté le palpebre un paio di volte. La luce della scena si fece meno intensa man mano che i suoi occhi si abituavano. Il telefono smise di squillare.
Inclinò la testa all’indietro e vide un cielo grigio uniforme sopra di sè. Si alzò in piedi e si guardò intorno: si trovava in alto, sul tetto di un edificio.
Strinse la radice del naso tra pollice e indice e cercò di concentrarsi. Le ultime cosa che ricordava erano il gelo pungente, la stanza allestita come una grotta preistorica e il corpo nudo di Sherlock avvolto attorno al suo. A quel pensiero il suo cuore ebbe un sobbalzo. Si era addormentato tra le braccia di Sherlock, completamente nudo, entrambi prigionieri di un gruppo di serial killer e si era svegliato da solo, rivestito di tutto punto, apparentemente libero, sul tetto di un edificio.
Il suo pensiero corse a Sherlock. Non era sul tetto con lui. Dove si trovava? E perché li avevano separati? Cosa avrebbe dovuto aspettarsi stavolta da quelle maledette shipper?
Proprio in quel momento il telefono ricominciò a squillare. Si voltò in direzione del suono e lo vide, posato a terra a pochi metri da lui.
Lo afferrò e rispose.
«Ciao John» disse Midonz.
«Dove mi avete portato?» chiese subito lui «Dov’è Sherlock?»
«Guarda in strada, John.»
John si avvicinò al parapetto con le gambe che gli tremavano leggermente e gli ci vollero solo pochi istanti per riconoscere quel luogo familiare.
«Il Saint Barts...» sussurrò sentendosi mancare il fiato. Si trovava sul tetto dell’ospedale. L’ospedale dove aveva fatto praticantato da ragazzo, l’ospedale dove lavorava Molly Hooper.
L’ospedale dove Sherlock aveva inscenato il suo suicidio.
Guardò in basso e riconobbe il parcheggio delle ambulanze da dove aveva assistito alla caduta di Sherlock.
Nonostante ora sapesse che era stata una finzione, ripensarci gli causava ancora sofferenza. Lo shock che aveva provato era stato troppo intenso e profondo per poterlo dimenticare.
«Guarda bene, John, riesci a distinguere quella piccola figura accanto al palo della luce dall’altra parte della strada?»
John socchiuse gli occhi: non riusciva a vedere i connotati del viso, ma il cappotto nero lungo e l’inconfondibile taglio di capelli erano quelli di Sherlock.
«Lo riconosci?» incalzò Midonz.
«È Sherlock? È davvero lui? Cosa ci fa lì?»
Un brivido freddo lungo la schiena.
«John, questa prova sarà diversa dalle altre. Questa sarà la prova finale.»
John deglutì. «Che intendi dire?» John ripensò alla sera prima, alla conversazione nascosta tra lui e Sherlock sotto le lenzuola: Sherlock gli aveva scritto dei messaggi sulla pelle. Le shipper li controllavano ventiquattr’ore su ventiquattro con delle telecamere nascoste e Sherlock aveva ideato quel metodo per comunicare segretamente con lui. Forse le shipper se ne erano accorte e li stavano punendo.
«Non sei stupido, John.» disse Midonz al telefono «Credo non ti sfugga il fatto che le parti sono invertite rispetto al giorno in cui Sherlock si è buttato dal tetto dell’ospedale davanti ai tuoi occhi.»
Volevano farlo buttare di sotto? John scartò quell’ipotesi. La prova doveva essere un’altra. Le shipper non volevano fare del male a lui e Sherlock. O almeno così avevano detto.
John vide Sherlock agitarsi. Ma i suoi movimenti erano frenati, sembrava legato al palo dietro di lui.
«Si sa poco di cosa è successo precisamente in quella giornata, sulla stampa sono uscite tante ipotesi, e c’è ovviamente il racconto di Sherlock pubblicato online da Philip Anderson. Che, tra parentesi, sta benissimo ed è tornato a casa come vi avevamo promesso.»
«Va’ avanti» la esortò John. Nel frattempo non staccava un attimo gli occhi da Sherlock, che sembrava essersi calmato.
«La ricostruzione pubblicata da Anderson è verosimile ma ha dei punti deboli. Sospettiamo che Sherlock abbia glissato su alcuni aspetti della storia, forse per timore delle conseguenze legali che avrebbero potuto esserci per i suoi complici, per chi l’ha aiutato. Ciò che sappiamo di certo è che tu non eri un complice, tu non ne sapevi niente, l’hai creduto morto per due anni. Sappiamo anche che c’è stata una telefonata, tra voi due, poco prima che si buttasse. L’ultima telefonata. Ne hai parlato con la dottoressa Thompson, ma non le hai mai raccontato cosa vi siete detti»
«Avete rubato le cartelle della mia psicoterapeuta?» sbottò John.
«Cosa ti ha detto Sherlock?» continuò Midonz, ignorandolo. «È stata una dichiarazione d’amore, vero?»
«Voi... tu... non...» John era talmente furioso che non riusciva ad articolare il discorso «Le sedute psicoterapeutiche dovrebbero rimanere segrete!»
Midonz sbuffò. «Puoi stare tranquillo, John, siamo delle persone riservate. Non andremo a spiattellare in giro quello che abbiamo scoperto su di te. Nessuno saprà della tua fissazione erotica per le mutande rosse.»
John si passò una mano sulla fronte esasperato: non ricordava di aver mai parlato con Ella Thompson della sua passione per le mutande rosse.
«Torniamo alle cose serie, John. Cosa vi siete detti in quella telefonata?»
«Non sono affari vostri» rispose secco John.
Ci fu qualche istante di silenzio.
«Va bene. Capisco. Non vogliamo portarti via quel ricordo con la forza: se non vuoi raccontarlo non importa. Possiamo immaginare e l’immaginazione a volte è meglio della fantasia.»
Midonz fece un’altra pausa, come per lasciare a John il tempo di sbollire la rabbia. Poi riprese a parlare. «Ieri sera, costringendovi al contatto fisico diretto, eravamo certe che vi sareste lasciati andare alla passione più sfrenata»
John roteò gli occhi.
«Non è andata così. È stato un momento molto tenero, certo, ma abbiamo capito una cosa: il blocco psicologico che vi impedisce di amarvi è troppo grande, e non riuscirete mai ad abbatterlo. Perciò abbiamo preso una sofferta decisione: questa storia sta per diventare una deathfic»
John cercò di dare un significato a quella parola. «Deathfic? Morte? Cosa volete dire?» chiese con il respiro che si faceva più affannato. Il suo sguardo corse di nuovo a Sherlock giù in strada.
«Una deathfic è una fanfiction in cui muore uno dei protagonisti»
John si sentì quasi venire meno.
«No» disse. Scosse la testa con vigore. «Non ci casco. Mi avete detto che ci adorate. Che non volete farci del male. Dov’è il trucco? Devo fingere di suicidarmi? Devo buttarmi su un materasso come ha fatto lui?» John guardò giù dal parapetto. Decine di metri più in basso c’era solo il marciapiede. Nemmeno l’ombra di un materasso per attutire l’eventuale caduta.
«Non è uno scherzo, John» la voce di Midonz era gelida e impassibile «Il finale che noi shipper vogliamo non ci sarà mai. Ci abbiamo messo un po’ a capirlo, ma alla fine l’abbiamo accettato. Quindi abbiamo deciso di farvi un regalo: un finale epico, drammatico, degno di Romeo e Giulietta. Dimostrerai il tuo amore a Sherlock sacrificandoti per lui»
Le mani di John erano talmente deboli e sudate che il cellulare gli scivolò. Riuscì ad afferrarlo prima che cadesse a terra e lo portò nuovamente vicino all’orecchio.
«No...» disse debolmente «Ci deve essere un trucco, io...»
«Non ci saranno reti di salvataggio, John. Nessun trucco. Ora guarda Sherlock» John spostò gli occhi su di lui. Aveva due persone accanto, forse si erano accorte che era legato al palo, l’avevano visto agitarsi.
Due colpi secchi risuonarono nell’aria e quelle persone caddero a terra, una dopo l’altra.
Sherlock ebbe un violento sussulto. John portò una mano alla bocca.
I pochi passanti che stavano nei paraggi fuggirono seguendo percorsi confusi. Da quella distanza sembravano topolini impazziti.
«Un cecchino...» mormorò John.
«Un cecchino dalla mira infallibile, John. Un cecchino che hai già visto all’opera al Comicon.»
L’omicidio di Moffat, pensò John, la ragazza col visore a infrarossi.
«Quel cecchino tiene di mira Shrlock e lo farà secco se non eseguirai i nostri ordini. Devi sacrificarti per lui, devi buttarti di sotto. Lo farai?»
John raddrizzò le spalle e unì i tacchi delle scarpe, come se volesse mettersi sull’attenti «Sì» disse infine. «Sì. Certo che lo farò»
«Puoi parlare con lui, adesso. Puoi dirgli addio»
«John!» la voce di Sherlock uscì distorta dal cellulare «Non lo fare! Non azzardarti a farlo!» John lo vedeva agitarsi giù in basso.
«Sherlock...»
«No! Stammi a sentire! Ascoltami!» c’era del panico nella sua voce «Ci deve essere un’altra soluzione. E se non c’è voglio morire io, lascia che mi sparino»
John si sentì invadere da una rabbia cieca «Non dire stronzate, Sherlock!» gridò «Non. Dire. Stronzate. Non ti lascerò morire di nuovo. Non sono disposto a soffrire un’altra volta come ho sofferto. Non essere egoista! Tu non hai idea... tu...»
«La soluzione è far soffrire me?» sbraitò Sherlock. John non l’aveva mai sentito tanto furioso.
«Pensa a qualcosa, Sherlock. Tu trovi sempre una soluzione» disse John quasi in lacrime.
«John...» disse Sherlock stancamente.
John si sentì mancare le forze. Si appoggiò al parapetto.
«Sherlock... dimmi che è uno scherzo. Dimmi che hai organizzato tutto tu per... per...»
«Per fare cosa? Per costringerti a dirmi che mi ami? Hai così poca considerazione di me?»
«Una volta mi hai fatto credere che stavamo per morire, solo per farmi dire che ti perdonavo. Te lo ricordi?» John fece una risatina isterica. Sherlock, dall’altra parte della linea, rispose alla risata con uno sbuffo che sembrava quasi divertito.
«Sì. È vero. Oh, sono una persona orribile» Sherlock rise. Una risata folle, disperata. «Ma stavolta no, John, te lo giuro. Non c’entro niente. E non vedo vie d’uscita. Sono ammanettato a questo palo sotto tiro di un cecchino. Anche se riuscissi a liberarmi mi sparerebbero dopo due passi, John. E forse... forse sarebbe la cosa migliore»
«Non lo dire!» gridò John.
Rimasero per qualche istante in silenzio. Poi John salì sul parapetto.
«No! John, ti prego no!» gridò Sherlock.
«Sherlock...» disse John. Si sentiva stranamente calmo. Stava per morire e si sentiva calmo.
«Lo sai cosa succederà se ti butterai, vero?» disse Sherlock.
«Mi sfracellerò al suolo» rispose John osservando il marciapiede. Fu colto da un lieve senso di vertigine.
«E anche il mio cuore si sfracellerà»
«Il tuo cuore?» disse John accennando un sorriso. «Quale cuore? Dici sempre di non averne uno»
«Non mentivo, John. La lettera. Era tutto vero. Io...»
John lo interruppe. «So che ci tieni a me, Sherlock. Me l’hai dimostrato tante volte. Troppe volte» Si morse un labbro pensando a quando Sherlock aveva ucciso Magnussen, rinunciando a tutto, a tutto! solo per mettere al sicuro lui e Mary «Adesso è il mio momento di dimostrare che ci tengo a te»
«No! Ascoltami, John! Dire che ci tengo a te è un eufemismo. Io...»
«Zitto Sherlock!» John lo interruppe di nuovo «Non dire altro. Non voglio sentire altro»
«Non posso lasciarti morire, John» disse Sherlock con voce tremante.
«Zitto ho detto!» sbraitò John «Smettila di trattarmi come una damigella in pericolo. Non sono la tua damigella in pericolo, sono stufo di essere salvato da te. La devi smettere di sacrificarti per me» John ansimava per la rabbia.
Poi guardò il marciapiede sotto di sé.
Doveva farlo. L’avrebbe fatto. Sherlock avrebbe sofferto, sì. Ma si sarebbe ripreso, aveva Mycroft e due genitori che lo adoravano. Aveva Molly e Mrs. Hudson e Lestrade. Sherlock doveva vivere.
E pensare che solo poche ore prima Sherlock gli aveva detto di avere un piano per fuggire. John sorrise per la crudele ironia. Sentì le lacrime salirgli agli occhi.
«Non guardare, Sherlock» disse John.
«Non farlo...» disse Sherlock senza convinzione.
«Ho deciso, ormai»
«No!» gridò Sherlock.
«Addio, Sherlock»
Il marciapiede dove si sarebbe sfracellato era deserto. John lasciò cadere il cellulare oltre il parapetto: dopo qualche secondo toccò il suolo e si ruppe in mille pezzi. John rabbrividì pensando che sarebbe successa la stessa cosa a lui.
Guardò Sherlock un’ultima volta. Ora che aveva gettato il cellulare probabilmente le shipper non lo stavano più ascoltando.
«Mi dispiace, Sherlock. Io...» avrebbe voluto dire ancora qualcosa. Qualcosa che non aveva mai avuto il coraggio di dire. Qualcosa che non avuto il coraggio nemmeno di pensare.
Non lo disse. Chiuse gli occhi. Trattenne il fiato. E saltò.
 
John spalancò gli occhi urlando.
Si afferrò il petto, una fitta di dolore gli attraversò ogni cellula del corpo.
Adrenalina. Sangue e adrenalina.
Terrore. Freddo. Gelo. Un brivido.
Un lettino chirurgico.
Elettrodi. Fili e tubi che penetravano nel suo corpo.
John ne strappò una manciata.
I suoi sensi erano iperattivi. La luce era bianca, violenta, gli riempiva gli occhi, i suoni cristallini. Riusciva a percepire ogni piccolo rumore: il suo respiro forsennato, il cuore che sembrava volergli rompere il costato, un ronzio elettrico, la frizione tra la sua pelle e la pelle del lettino su cui era steso. Ora seduto.
Strappò altri fili. Solletico sotto i polpastrelli, la pelle sudata che si appiccicava. E freddo, tanto freddo. Sudore freddo.
«Cosa è successo?» la voce eruppe dalla sua gola come un singhiozzo. «Sono morto? No, non sono morto!» John ansimava pesantemente. «Dove mi trovo?» John faticava a parlare tra un respiro e l’altro. Era senza fiato. «Sherlock dov’è?»
I suoi muscoli erano tesi allo spasimo.
Scese dal lettino e strappò con rabbia i fili che erano rimasti attaccati al suo corpo. Vide qualche rivolo di sangue scorrergli dai punti in cui lo strappo era stato più violento. La sua sensibilità tattile era acuita, ma nonostante ciò non provava il minimo dolore per le ferite. Si guardò e si tastò: aveva indosso un camice da paziente, uno di quelli con l’allacciatura sulla schiena. Sotto il camice era completamente nudo.
Gridò. Un grido inarticolato. Sentiva il bisogno di sfogare in qualche modo tutta l’energia che gli bruciava nelle vene.
Si trovava in una minuscola stanza buia e spoglia, ad eccezione del lettino chirurgico e di un gigantesco macchinario da cui fuoriuscivano i fili che erano stati attaccati al suo corpo. La scena era illuminata solo da una lampada chirurgica puntata sul lettino.
Raggiunse barcollando la porta della piccola stanza e l’aprì con un gesto nervoso.
Sul salotto di Baker Street. La replica del salotto.
Ancora in prigione...
Quasi cadde a terra investito da un corpo che lo strinse con tanta forza da soffocarlo.
«John! John!»
Era Sherlock.
John era troppo sconvolto. Non rispose all’abbraccio e si lasciò stritolare per qualche secondo, smarrito. Sherlock si allontanò come per esaminare John, tenendolo per le spalle. I suoi occhi si muovevano spasmodicamente senza fermarsi per più di mezzo secondo sullo stesso punto. Le sue pupille erano talmente dilatate da far sembrare neri i suoi occhi azzurri. La sua fronte era imperlata di sudore.
«Ci hanno drogati, John» disse. Deglutì. «Riconosco i sintomi. Ci sono passato tante volte»
«È stata... solo un’allucinazione?» chiese John incredulo.
«No!» disse Sherlock. Lasciò le spalle di John e si mise a camminare avanti e indietro con furia. «No, no, no! Hai visto gli elettrodi e gli aghi sottocutanei?» smise di camminare «Allucinazioni indotte. Mycroft me ne aveva parlato. Una nuova tecnologia sperimentale. Una specie di realtà virtuale a immersione totale.»
John prese la testa tra le mani. Si accasciò a terra. Si sentiva allo stesso tempo pieno di energie e mortalmente spossato. Avrebbe voluto strapparsi la pelle di dosso.
«Non è possibile...»
«Ci hanno iniettato un cocktail di sonniferi e alcaloidi. E ci hanno svegliati con un’iniezione di adrenalina.»
John scosse lentamente la testa.
«L’ipersensibilità!» proseguì Sherlock «Tutto è più brillante, più vivido, i suoni più distinti... lo noti anche tu?»
«Sono gli alcaloidi?» chiese John che iniziava a credere a quella storia dai contorni fantascientifici.
«Sì, gli ultimi effetti. Entro qualche minuto dovrebbero svanire. Gli effetti dell’adrenalina, invece, dovrebbero già essere in remissione.»
Come a confermare quanto detto da Sherlock John si stese sul pavimento, in preda a un’improvviso attacco di debolezza. Le forze lo stavano rapidamente abbandonando.
«Quindi è stato... una specie di sogno?»
«Con scenario indotto. Eravamo entrambi nello stesso luogo, John. Tu vedevi me sulla strada, io vedevo te sul tetto...» Sherlock chiuse gli occhi e prese un respiro «...sul tetto dell’ospedale. Credevo fosse vero.»
«Come è possibile? È assurdo, non esiste una tecnologia simile.»
«Nessuno sa che esiste. È una tecnica di stimolazione cerebrale tramite elettrodi programmati da un software.»
«Ma è... Matrix? Inception?» disse John incredulo.
«È una tecnologia ancora imperfetta. Per questo solitamente vengono somministrati degli allucinogeni, per far sembrare tutto più vivido, per confondere il soggetto e non fargli capire che si tratta di una simulazione indotta. Pensaci. Ricordi particolari specifici? Ricordi come era fatto il cellulare con cui mi parlavi?»
«Era il mio cellulare, me lo ricordo bene.»
«Potrebbe essere un falso ricordo. Oppure la tua mente nell’allucinazione ha ricostruito la forma che le era più familiare. Ricordi me?»
«Eri distante, non ti vedevo bene.»
«Esattamente. È difficile visualizzare mentalmente un volto umano in modo preciso, e le sensazioni che i computer sono in grado di trasmettere ai nervi ottici sono ancora grossolane, sono lontane dal livello di dettaglio necessario alla ricostruzione tridimensionale perfetta di un volto. Anche per questo hanno scelto di metterci distanti. Dannazione!» Sherlock sedette a terra accanto a John e battè un pugno sul pavimento, con rabbia. «Dannazione, avrei dovuto capirlo! Tutto era vago, la strada, le due persone che mi sono venute vicino... ma io ero troppo concentrato su di te per notarlo. Io riconosco sempre un sogno, quando mi ci trovo dentro. Sono capace di pilotare i miei sogni. Ma questo no! Mi sono fatto ingannare come un pivello qualunque.»
«Mi sono fatto ingannare anch’io Sherlock. Eravamo drogati.»
«Ma tu non sapevi dell’esistenza di questa tecnologia. Io sì. E non ci ho pensato, non mi è passato nemmeno per la mente, me ne stavo lì come uno stupido a guardarti e credere che stessi per morire.» la voce di Sherlock era piena di amarezza.
«Ma come è possibile che quelle psicopatiche siano entrate in possesso di questa tecnologia sperimentale?»
«Le nostre shipper hanno dei contatti governativi. E non sono contatti qualunque.»
«Pensi che una di loro possa essere un membro del parlamento o qualcosa del genere?»
«No, no» Sherlock scacciò quell’ipotesi con un gesto della mano «Più verosimilmente nei servizi segreti, inglesi o americani. Hai sentito l’accento di Midonz, lei è americana. Sono un gruppo internazionale.»
John provò a mettersi a sedere e la testa ricominciò a girare.
In quel momento John ricordò il sogno che stava facendo prima di svegliarsi nell’allucinazione.
«Ora capisco.» disse John sorridendo «Mi sembrava strano, in effetti. Io non faccio mai sogni del genere.»
Sherlock guardò John con un’espressione perplessa.
«Il sogno preistorico!» disse John «Anche quello era un’allucinazione indotta, no? Figuriamoci se potrei mai sognare te in perizoma leopardato! Era chiaramente una fantasia malata di qualche shipper.»
«Uhm» disse Sherlock abbassando lo sguardo. Sembrava leggermente imbarazzato. «Be’, uhm. Forse...» si grattò la testa «Non so, io non c’ero, in quel sogno.»
«Oh» disse John «Strano. Davvero non ricordi nulla? Tu che mi salvi dal dinosauro. E poi ci siamo persino baciati, ahah! Sopra al cadavere di un dinosauro! Certo, le shipper dovrebbero cercare di mantenere almeno un po’ di coerenza storica nelle loro fanfiction, umani e dinosauri non sono mai coesistiti.»
Sherlock aprì la bocca per parlare. Poi la richiuse. Poi si grattò la testa. Poi mugugnò. Alla fine si decise a parlare. «Sai John... a quanto ne so con questa tecnologia non è ancora possibile sottoporre il cervello a più scenari indotti consecutivi.»
John impiegò qualche secondo a capire le implicazioni di quella affermazione.
«Oh» disse infine «Quindi...»
Non ebbe il coraggio di terminare la frase: quindi aveva davvero sognato Sherlock che lo baciava. Tutto nudo in perizoma leopardato.
E lo aveva appena candidamente confessato a Sherlock.
E alle shipper.
Voleva sprofondare nel pavimento e non riemergere mai più.
«Ma è molto probabile che ci siano stati degli avanzamenti tecnologici» proseguì Sherlock con fare quasi indifferente. Quasi indifferente. «Sì, probabilmente adesso possono farlo. Probabilmente era uno scenario indotto.»
«Sì» disse John. Il suo tono di voce era più acuto del normale. Si schiarì la gola. «Sì» ripetè con un tono di voce normale «Deve essere così.» ridacchiò, come per minimizzare la cosa.
Sprofondare nel pavimento.
«È possibile avere degli strumenti diagnostici?» chiese John cambiando argomento. Guardò il soffitto. «Io e Sherlock abbiamo bisogno di un check-up dopo quello che ci avete servito per colazione.»
La risposta di Midonz impiegò qualche secondo ad arrivare ed era decisamente allegra.
«John, non preoccuparti di nulla, tu e Sherlock state benissimo. Mentre eravate immersi nella realtà virtuale abbiamo monitorato le vostre attività cardiache e cerebrali e i principali valori sanguigni. Tutto era perfettamente compatibile con uno stato di alterazione controllata. Non avete difetti congeniti che possano portare complicazioni. Tutto ciò che dovete fare e mantenervi idratati e assumere quanto prima il cocktail di vitamine e sali minerali che potete trovare sul tavolo della cucina.»
John scosse la testa incredulo. Si preoccupavano per loro, che tenere! Notò che non aveva commentato la faccenda del sogno preistorico e non sapeva se essere sollevato o inquietato dalla cosa.
«È stato bellissimo John.» aggiunse Midonz con voce quasi commossa «Spero che questa esperienza traumatica vi abbia aiutato a capire i vostri sentimenti.»
John ripensò ai momenti vissuti in quell’allucinazione indotta. Era stato sconvolgente. Non era la prima volta che pensava di essere sul punto di morire: gli era successo in Afghanistan, gli era successo quella notte di due anni prima nel tunnel della metropolitana, quando quel manipolatore di Sherlock aveva finto di non riuscire a disattivare la bomba. Solo per strappargli un perdono.
Ma la consapevolezza del sacrificio, la circostanza che replicava il finto suicidio di Sherlock, il senso di sconfitta nei confronti delle shipper. E l’idea, quella maledetta idea che erano riuscite a insinuargli nel cervello. Che lui amava davvero Sherlock, non come un amico. Non riusciva a evitare di pensarci. Ripensava al passato, ad alcuni sogni confusi che aveva avuto con Sherlock protagonista. Ripensò al sogno in perizoma. A quel ridicolo sogno in perizoma. I sogni rappresentano i desideri repressi, diceva Freud.
Quel buffone di Freud.
No, non doveva lasciarsi suggestionare.
E l’emozione che provava ogni volta che Sherlock diceva “Il gioco è cominciato”. Al desiderio di stargli sempre vicino, di toccarlo, di...
No, non ho mai desiderato toccarlo.
Stava reinterpretando i suoi ricordi.
Ho represso il mio amore per lui. Per tutti questi anni.
John mise una mano sulla fronte.
No. No. No! Non cadere nel tranello John.
Era un lavaggio del cervello. Non ci sarebbe cascato.
Ieri notte.
Il turbamento che aveva provato al contatto con Sherlock.
È normale, John.
Chiunque sarebbe stato turbato: non era eccitazione, era disagio.
Come si può confondere l’eccitazione con il disagio?
«Devo parlare con Midonz.» disse improvvisamente Sherlock.
John si riscosse dai suoi pensieri ossessivi e ricordò il dialogo segreto della notte prima. Sherlock gli aveva detto che avrebbe chiesto di parlare da solo con Midonz. John avrebbe dovuto protestare un po’, ma alla fine lasciarli soli.
John doveva stare al gioco.
«Dimmi tutto, caro» disse lei.
«John, vai in camera» comandò piattamente Sherlock.
John si finse seccato dalla richiesta, guardò Sherlock con un’espressione che sperava sembrasse incredula, vista dall’esterno. «Cosa diavolo...? No, Sherlock. Non andrò in camera»
Sherlock lo guardò con aria di rimprovero. «John...»
«Devi svelarmi un segreto, Sherlock?» chiese Midonz ridacchiando.
«John, fidati di me» disse Sherlock guardandolo negli occhi «Vai in camera. Lasciaci soli»
«Ma...» John sostenne lo sguardo per qualche istante, corrucciando la fronte. Poi lasciò cadere le spalle e scosse la testa. Alzò le mani, in segno di resa. «Ok. Va bene» finse di essere irritato «Agli ordini, generale!» disse in tono ironico. Sherlock fece un cenno di assenso.
John si alzò in piedi. Le ginocchia gli tremavano per la debolezza. Fece un passo e fu come non avere più le gambe, i muscoli cedettero sotto il suo peso. Sarebbe caduto a terra se Sherlock non fosse intervenuto prontamente a sorreggerlo; lo aiutò a tirarsi su e passò delicatamente il braccio di John sulla sua spalla. «Ci sei?» disse.
John annuì. Un altro contatto fisico, pensò.
Chiuse gli occhi: non poteva continuare a inquietarsi per ogni tocco. Non l’aveva fatto per tanti anni, non avrebbe cominciato a farlo adesso.
Non ti ha mai turbato il contatto con Sherlock? Sei sicuro John?
John sbuffò, esasperato dai suoi stessi pensieri.
Raggiunsero lentamente la camera di Sherlock. L’allestimento preistorico era sparito, ed era di nuovo identica alla camera di Baker Street.
«Oh, vedo che non ci sono più lettino ed elaboratore virtuale.» commentò Sherlock. Da quell’affermazione John capì che Sherlock era stato drogato e allucinato in quella stanza.
John si lasciò cadere sul letto. Sherlock uscì dalla camera. John stava per chiedergli di chiudere la porta, ma Sherlock rispuntò dopo pochi secondi, con un bicchiere pieno d’acqua e una capsula.
«Su una cosa le shipper hanno ragione: idratazione. Bevi. E prendi le vitamine»
«Va bene, dottore» disse John. Afferrò il bicchiere e guardò la capsula «Devo prendere questa? Ti fidi delle shipper?»
«No. D’altra parte se vogliono drogarci o avvelenarci sarebbe molto più conveniente somministrarci la droga con il cibo, o con l’acqua, o nebulizzarla nell’ambiente. Sono ragionevolmente certo che questa sia davvero una capsula di vitamine e sali minerali. Non dimenticare: loro non vogliono ucciderci, John.»
John annuì. «Vogliono solo drogarci e farci il lavaggio del cervello» disse sarcastico.
Ingoiò la capsula e scolò tutto il bicchiere. Non si era reso conto di essere tanto assetato.
Sherlock uscì dalla stanza e chiuse la porta.
John si stese e fissò il soffitto.
Sherlock avrebbe parlato con Midonz. Cosa gli avrebbe detto? John non lo sapeva.
E poi? John doveva fingere di innamorarsi di lui. Così aveva ordinato Sherlock, senza dare spiegazioni.
John chiuse gli occhi.
Fingere di innamorarmi.
Il confine tra finzione e realtà non gli era mai sembrato tanto labile.
   
 
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