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Autore: Atticus 182    24/07/2014    1 recensioni
"L'aria bruciava la pelle, il silenzio teneva con cura tutto il Giacimento nelle sue mani e il dente di leone era appassito."
Questa è la storia vista dalla prospettiva di Primrose, e racconta tutto ciò che succede durante l'assenza di Katniss nella vita di Prim. Ricordi, sensazioni, amori, luce e oscurità.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Primrose Everdeen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
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«Sai cosa rende il Sole speciale? » mi disse con un filo di voce. «Cosa? » risposi. «Il suo colore. Pensa se fosse stato blu, o viola, o verde. Non avrebbe avuto lo stesso impatto sulle cose. Il giallo è il colore associato all’energia e alla vitalità. Inoltre questo colore ha la capacità di regolare la frequenza del battito cardiaco. »

Chiusi gli occhi e lasciai che la brezza leggera penetrasse in ogni angolo di pelle, mi liberasse dal sangue delle persone morte che colorava insistentemente il mio corpo e ricacciasse le lacrime. Lungo la spalla un raggio di sole mi aveva raggiunta, aveva combattuto le nuvole e sbatteva contro la mia schiena, regolando il mio battito cardiaco. Il calore mi si stava irradiando nelle ossa, ossa ormai deboli e consumate, che avevano perso tutto, persino il loro colore naturale. I capelli sciolti, sempre pronti a proteggermi le spalle, fluttuavano nel vento invernale, creando onde di mare biondo lucente; con due dita sfiorai il piccolo graffio che mi ero procurata sgattaiolando fuori dalla finestra socchiusa da cui Ranuncolo fuggiva per andare a caccia di topi. Chiusi le braccia intorno al petto, stringendo le mani ai gomiti e perdendomi nel freddo del mattino. Non mi ero mai accorta della bellezza del sole, in quel momento tramite il grigiore delle nuvole riuscivo a scorgere i suoi lineamenti precisi, i punti in cui i raggi si facevano piu’ ondeggianti e il pallore che il cielo nuvoloso gli donava, annebbiando il suo giallo carico. Capii a cosa si riferiva Isaac, capii tante cose quella mattina. Cose che ormai non avevano piu’ significato.
Abbassai lo sguardo per riuscire a raccogliere l’ultimo granello di me che voleva evadere da quel corpo malconcio. Colsi un fiore, un dente di leone, stringermi nelle spalle non bastò a placare i brividi di freddo, diedi le spalle ai boschi e i miei capelli fluttuarono un’ultima volta nell’aria fresca, per poi ricadere lungo la schiena e riprendere il colore slavato delle pareti del 13 che rifletteva in essi una volta tornata in camera. Sapevo di aver perso tutto, mi rendevo conto che dalla sua morte niente sarebbe stato piu’ lo stesso. Eppure c’era sempre quella punta di positività che riusciva ad entrarmi dentro. Ma non questa volta, non adesso che l’instabilità aveva preso possesso della mia vita, della vita di tutti. Dalla mia prima Mietitura niente riusciva ad incastrarsi al posto giusto, a trovare un sentiero da percorrere, il mondo mi stava dimostrando qualcosa, qualcosa di così grande, un disegno così ben studiato che niente, nessuno, nemmeno la mia Katniss sarebbe riuscita a modificare. Forse sarebbero dovute andare così le cose,  chiunque avesse conosciuto Primrose Everdeen sarebbe morto. E forse quel disegno finiva con la mia morte.
Il respiro mi si fermò in gola, un deserto asciutto e arido si srotolò sulla mia lingua, un sole cocente mi bruciò i vestiti, sangue caldo ed insidioso scorreva sulla mia pelle, sgorgando da una ferita al petto. Mi lasciai scivolare nella minuscola doccia del bagno senza forze, il rubinetto sputò due o tre gocce d’acqua, e quello che poi si riversò sul mio corpo mi fece raggelare dentro. Litri di sangue rosso e freddo si stavano incollando alle mie gambe, sulle braccia e sulla faccia. Urlai, ma nessuno sarebbe riuscito a sentirmi, le mie urla erano come insonorizzate, avevo le labbra schiuse ma nessun suono fuoriusciva. Sentii come se qualcuno mi stesse stritolando le ossa, e potevo vedere ciò che ne restava sul pavimento. Le pupille si muovevano a scatti, cercando di memorizzare piu’ cose possibili prima di spegnersi per sempre. Sarei morta, ma ero pronta, ero pronta a quello. Smisi di opporre resistenza e quando anche l’ultimo osso del mio corpo era stato sbriciolato in terra, distesi i muscoli e mi lasciai cullare dalle onde di sangue nella doccia. Alla fine era piacevole, morire sapendo di non poter perdere piu’ niente, chiunque avessi mai amato mi era già stato portato via, e Katniss e la mamma erano così forti, sarebbero sopravvissute a una vita senza la loro paperella che era tanto stanca del mondo.
Quando riaprii gli occhi e vidi il soffitto bianco ergersi sopra di me, una fitta di delusione mi percorse il corpo. Ero pronta, avrei sfidato la morte, l’avrei guardata negli occhi e poi mi sarei lasciata sopraffare. Gli incubi mi avevano ingannata e questa volta lasciai che le lacrime mi percorressero le guance fino alle orecchie per poi perdersi nei capelli. Il suicidio era un atto così egoistico che lo esclusi immediatamente dalle mie possibilità, nessuno lì mi odiava tanto da ferirmi mortalmente o uccidermi nel sonno, eppure un modo poteva esserci per far smettere il dolore, per far tacere le urla di tutte le persone che amavo morte, per cancellare i graffi delle loro mani sulla mia pelle e il loro sangue appiccicato ai vestiti. L’acqua era come morfamina, ma il suo effetto svaniva velocemente, mi sarebbe servito qualcosa di permanente.  
Riempii un vaso d’acqua e vi porsi dentro il dente di leone. Lo nascosi sotto al mio letto, per proteggerlo, per proteggere l’ultima parte di me ancora intatta da occhi indiscreti e pugnali avvelenati. Nel preciso instante in cui fosse appassito, avrei dovuto capire che la mia ora era arrivata. Così ogni giorno controllavo il suo aspetto e mi perdevo a percorrere i petali con lo sguardo da bambina. Il colore giallo si spargeva sul pavimento e si rifletteva lungo le sbarre del letto, era ancora pieno di vita. Isaac viveva nel suo colore e viveva nel sole, finché non si fosse spento, Isaac era con me, e non c’era possibilità che accadesse.
Tanti bambini e uomini e donne entravano in ospedale, e altri morti uscivano da quelle porte. Conobbi un uomo di nome Aurelius, dell’ 11, un ottantenne che si stava spegnendo sotto i nostri occhi, la vecchiaia se lo portò via nel giro di 3 giorni, ma ogni mattina e sera ero lì, a stringergli la mano e raccontargli del Sole e del mare, e della storia di una bambina morta sulla spiaggia. I suoi occhi erano così vividi, ma il suo corpo così stanco, schiacciato dal peso degli anni. Pendeva dalle mie labbra, vedevo il modo in cui lottava per vivere, vedevo i suoi sforzi per riuscire a scendere dal letto autonomamente, ma il mio corpo era sempre lì a sorreggerlo.
La terza notte non riuscii a lasciarlo dormire da solo, così presi posto sulla poltrona rossa accanto al suo letto. Mi avvolsi nella coperta e poggiai la testa sulla stoffa, lasciando che il calore mi cullasse. I suoi capelli bianchi avevano preso la forma del cuscino e ogni tanto mi prendevo la briga di sistemarli delicatamente all’indietro con il pettine, un paio di baffi gli coprivano metà viso, ma le sue labbra erano visibili e sottili, la pelle del viso mi ricordava un vestito sgualcito, ma i suoi occhi il profondo mare. Nel tepore della sera Aurelius mi lanciava tristi sorrisi e mi parlava di sua moglie, era la prima volta che mi raccontava della sua famiglia, il modo in cui ne parlava mi fece capire che l’aveva amata tanto, così come il figlio che portava in grembo. «Sorrideva spesso e aveva la pelle profumata. I suoi baci sapevano di antico e il suo corpo mi ricordava le primule danzanti nel nostro piccolo giardino. Mi meravigliavo di come il tempo non influisse affatto sul suo aspetto, i capelli risplendevano sempre della stessa luce, così come i suoi occhi. Aveva l’abitudine di sedere sulla sedia a dondolo in salotto, davanti al fuoco. Stava lì a dondolarsi all’incirca per 20 minuti, poi si alzava e accarezzava il suo pancione, questo accadde negli ultimi 5 giorni della gravidanza. E fu proprio lì che la ritrovai addormentata e livida in viso, senza vita. » Gli occhi presero a luccicare, ma evitai di fissarlo in viso. Teneva sempre un’espressione serena pur parlando della morte. Lo ammiravo tanto. «I medici dissero che un infarto me la portò via. Il mio unico rimpianto è stato di non aver mai passato la mano sulla sua pancia per sentire il battito di nostro figlio. Ma la porto nel cuore, sai ? Prima di far prelevare il corpo, ricoprii la sedia di fiori, li misi tutt’intorno e le chiusi dolcemente gli occhi. La ricorderò così, addormentata tra i fiori di settembre. »   Non conoscevo questa donna e non conosceva l’uomo disteso a letto di fronte a me, ma presi parte al suo dolore. Gli rivolsi un sorriso pieno di apprensione. «Oh su, ragazzina, non devi piangere. » Non ebbi nemmeno il buon senso di ricacciare le lacrime, ma ormai il viso ne era pieno e presi lentamente ad asciugarle. «Mi scusi, è che... la capisco, Aurelius. » Sentii la mia voce tremante arrivare dritta al suo cuore. Allargò le braccia e fece segno di avvicinarmi, mi abbracciò. Non importava se mi sentivo la persona piu’ triste della terra, se piano piano e inconsapevolmente mi stavo avvicinando alla morte, quell’abbraccio mi stava scaldando il cuore e ricomponendo i pezzi. Stava dando vita e giorni al dente di leone e a me.
«Grazie, piccola. » Mi sussurrò all’orecchio. Poi le sue braccia persero la presa sul mio corpo, i muscoli si rilassarono e con il sorriso sulle labbra, la morte lo accompagnò lentamente verso la sua fine. Non piansi per lui. Non perché la sua vita fosse meno importante delle altre, semplicemente mi ero rassegnata. E anche lui. E ne uscimmo entrambi indenni, da quella guerra. Spensi il monitor e mi assicurai che nessuno toccasse il corpo prima del mio arrivo. Tornai alla mia stanza, alla stanza 307, quella stanza che in fin dei conti non mi era mai veramente appartenuta. Scivolai fuori dalla finestra e raccolsi ogni tipo di fiore mi capitasse a tiro. Li nascosi per bene nelle tasche del camice e della gonna e mi diressi all’ospedale.
«Lasciatemi mezz’ora da sola con lui. » Biascicai, schiarendomi la voce per far sentire a tutto il reparto. Il loro silenzio fu per me un via libera. Chiusi saldamente la porta della camera e iniziai a sistemare i fiori lungo il suo corpo. Incorniciai il suo viso nei denti di leone piu’ gialli del Distretto e gliene porsi uno in mano, portandola sul suo cuore. Il profumo dei fiori freschi invase la stanza, nella mia mente quella canzone. “Là in fondo al prato, all'ombra del pino c'è un letto d'erba, un soffice cuscino il capo tuo posa e chiudi gli occhi stanchi quando li riaprirai, il sole avrai davanti. Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio, qui le margherite ti proteggon da ogni cruccio, qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare qui è il luogo in cui ti voglio amare. Là in fondo al prato, nel folto celato c'è un manto di foglie di luna illuminato.  Scorda le angustie, le pene abbandona. Quando verrà mattina, spariranno a una a una.  Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio,  qui le margherite ti proteggono da ogni cruccio.  Qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare qui è il luogo in cui ti voglio amare.” Una preghiera concluse il rito e potei vedere quasi il sorriso sul viso di quell’uomo allargarsi e distendere le rughe per tornare giovane. Pulii la stanza dai fiori che ritornarono, sgualciti e un po’ rovinati, nelle mie tasche. Quanta amarezza colsi nella sua storia, i battiti del cuore di un bambino rimbombarono nelle mie orecchie, poi il click della maniglia e i miei passi nell’atrio vuoto.
   
 
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