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Autore: Tears990    24/07/2014    0 recensioni
Urabrask è una dea che vive fra gli uomini per assaporare le piccole sfumature che una vita da umano può offrirle. Vive la sua vita quotidiana in pace finchè un altro essere minaccia i suoi domini con la sua brama di sangue. Scoppia così una sanguinosa battaglia fra dei immortali che vedrà vincitore solo il più forte.
Genere: Azione, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Gilgamesh'
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Capitolo III

Vendetta

 
Dopo due giorni di cammino Balthasar si trovava già molto a sud di Atlantide, nel deserto inoltrato e non accennava a smettere di allontanarsi da quei ruderi insanguinati.
Fra gli dei fu il primo a capire che il piano di Apollo sarebbe fallito, lo comprese quando vide come Gilgamesh aveva distrutto la sua stessa città, con quale foga mieté le anime dei suoi amici e compagni e la brutalità della sua forza.
Balthasar non attese di vedere la fine di quella mattanza e fuggì subito, inoltrandosi nel deserto più velocemente che poteva.
Dopotutto non era neppure un vero e proprio dio, lo adoravano come protettore degli spadaccini e propiziatore di battaglie, ma la verità è che era il galoppino di Ares, il più fedele, il più devoto, il più insulso degli dei, tanto stupido da amare il suo padrone al punto di tradirlo.
Lo avevano scelto proprio per questo, era una pedina sacrificabile e il dio della guerra avrebbe fatto benissimo a meno della sua pedante ed inopportuna presenza.
Così eccolo là, il povero Balthasar, intento ad allontanarsi più che poteva da Gilgamesh. Sapeva che avrebbe ucciso Apollo, ma sperava che almeno il suo padrone riuscisse a fermarlo, in ogni caso, lui sarebbe stato il prossimo.
La sua unica colpa era stata quella di procurare al suo padrone un degno avversario, qualcuno che lo smuovesse dalla noia del Monte Olimpo, qualcuno che gli ricordasse che era il grande dio della guerra.
Ma aveva fallito anche in quel compito, aveva trovato un pazzo, lo aveva fatto armare e lo aveva puntato contro il suo dio, una follia.
Quando arrivò alla vicina cittadina di Agarth mutò il suo volto in quello di un vecchio e si fiondò immediatamente nella locanda, incappucciato e celato in una spessa cappa scura che lo copriva fino alle caviglie.
- Una stanza. - disse di fretta con voce roca sbattendo un sacchetto di monete sul tavolo.
- Ne ho libere soltanto due – disse il locandiere – Datemene una e basta, non ho preferenze – rispose accigliato.
L’uomo gli diede la chiave e lui si dileguò immediatamente, rifugiandosi nel tugurio che gli aveva assegnato l’oste.
La stanza era piccola, stretta e buia, con alcune delle assi del soffitto marce e coperte di muffa e un persistente odore di carogna di gatto nell’aria, ma a Balthasar non importava, a lui bastava nascondersi nel più buio anfratto del mondo, lontano dallo sguardo di Gilgamesh e dal filo della sua lama.
- Dannazione, dannazione, dannazione dannazione dannazione! Che io sia dannato… - borbottò piangendo in un angolo meno putrido della stanza, strappandosi i capelli dalla testa per l’ira che provava verso se stesso.
- Ormai siamo tutti dannati… - disse piano, con la voce soffocata dai singhiozzi, mentre sentiva i suoi poteri abbandonarlo sempre più, come se fossero risucchiati da un pozzo senza fondo.
Le sue mani tremavano, sentiva un formicolio percorrergli gli arti e un brivido in fondo alla schiena più umano che divino.
Poi udì un urlo lontano, straziante, doloroso e folle, era Ares che veniva divorato e Balthasar pianse, pianse le lacrime più amare sentendo le urla del suo padrone, del suo dio sconfitto e divorato.
Ma alle sue urla si sovrapposero presto quelle di Apollo, altrettanto disperate e strazianti, ma sature di una follia indicibile, la stessa che aveva scatenato rendendo Gilgamesh così potente.
Per un momento quel servo, rannicchiato lì, nell’angolo smise di piangere, godendo del dolore di chi lo aveva indotto a tradire il suo signore ma riprese immediatamente quando vide il cielo aprirsi e grondare sangue.
Ovviamente i mortali non avvertivano tutto questo, ne sentivano urla di alcun genere, infatti serviva un udito “divino” per cogliere lamenti tanto lontani, ma era questa la vera tortura. Gilgamesh condannava i suoi aguzzini, punendoli e mostrando loro quale follia fosse insediata nella sua mente, di quali orrori fossero popolati i suoi incubi e di quanta sete e quanta fame provasse, una fame insaziabile.
Balthasar urlò e collassò a terra con gli occhi sbarrati, in preda alle più terribili convulsioni, al punto che il locandiere lo soccorse portandolo di sotto e adagiandolo su una panca robusta.
- Vecchio! VECCHIO! – Urlò l’uomo schiaffeggiandolo e Balthasar rinvenne lentamente, poi gli bagnò la fronte con una pezza fredda per far fluire il sangue alla testa più velocemente e gli offrì dell’acqua.
- G-grazie signore… – balbettò all’oste, poi bevve un sorso d’acqua e sospirò.
“Non devo temere, Gilgamesh non conosce il mio nuovo aspetto, non può trovarmi qui, ma devo partire appena possibile” pensò bevendo ancora, poi posò il bicchiere sul tavolo ed iniziò a farlo girare con le dita su se stesso un po’ alla volta, cercando di pensare a dove potesse andare a nascondersi.
Mentre era assorto nei pensieri più profondi che la sua mente potesse concepire la porta della locanda si aprì ed entrò un uomo alto, a torso nudo e coperto di sangue dalla bocca in giù. Era muscoloso, con la pelle d’ambra e i capelli d’argento, anch’essi macchiati di sangue e un ghigno mostruoso disegnato sul volto.
I suoi occhi rossi erano colmi di follia e crudeltà al punto che il locandiere guardandolo si nascose sotto al bancone della tavernetta.
L’uomo lo fissò, abbassandosi per portare il proprio viso vicino a quello del locandiere e chiese
- Ditemi, buon uomo, avete per caso ricevuto viandanti in questi giorni? Sto cercando un topo di fogna fuggito da Atlantide un paio di giorni fa… ne sapete qualcosa? –
La sua voce era potente e colma d’ira, sottolineata da una nota di follia che ricorreva nella pronuncia delle vocali.
Il locandiere fece cenno con la testa di non sapere nulla mentre si allontanava da lui.
Il forestiero tornò lentamente in piedi e si rivolse agli avventori della locanda questa volta
- Miei signori, si nasconde forse un ratto fra voi? Cerco Balthasar, un vile traditore, criminale e bugiardo. –
Sentendo pronunciare il proprio nome Balthasar si riscosse dai suoi pensieri e capì che ormai era giunta la sua ora, quello doveva essere Gilgamesh non c’erano dubbi. Era diverso da come si presentava due giorni prima ma era ovvio, adesso era un dio, lo stesso che aveva ucciso Ares e divorato Apollo, lo stesso che li stava scrutando uno ad uno con occhi accesi di sangue e fiamme.
Balthasar si voltò tremando come una foglia e puntò uno sconosciuto, il primo che gli capitò a tiro e rispose balbettando – L-lui, mio s-signore. È lui che state cercando…. –
L’uomo che veniva indicato iniziò a guaire come un cane per il terrore e si allontanò dal suo tavolo mentre cercava di discolparsi e accusare il vecchio di essere un bugiardo, ma Gilgamesh si avvicinò a lui e lo annusò.
- No, non sei tu, tu puzzi di mortale… ma tu… - disse rivolgendosi a Balthasar – …tu puzzi di ratto, sebbene sembri diverso da quello che cerco… - lo scrutò attentamente e sorrise, poi lo afferrò per il collo e sussurrò al suo orecchio – Speravi di sfuggirmi, Balthasar? Sai ho un certo fiuto per i topi di fogna come te… so bene che gli dei possono cambiare aspetto – si fermò un attimo e leccò il suo collo – ma il sapore, il sapore è la chiave… i mortali sanno di carne, gli dei invece… quelli sanno di porco, proprio come te. – concluse, afferrandogli la mano sinistra e strappandogli due dita con un morso.
Balthasar si alzò di scatto e si precipitò fuori della locanda, liberandosi della presa del suo nemico; cominciò a correre come se non avesse mai fatto nient’altro per tutta la sua vita, come se tutta la sua vita fosse quella stessa corsa. Gilgamesh uscì dalla locanda dietro di lui, ma camminava, osservandolo allontanarsi, poi fece un gesto con la mano, disegnando una sorta di lazo in aria e di colpo Balthasar si ritrovò con la faccia a terra, ai suoi pedi.
- Ohh si, ti piacciono i miei piedoni eh, ratto? Sono buoni? – disse strofinandoli sulla sua bocca, poi lo afferrò per il collo e lo guardò negli occhi mostrandogli i suoi, rossi e profondi come fiumi di sangue.
- Ora mio caro, faremo un gioco, io e te… – disse Gilgamesh ghignando – vedi io amo la caccia, è una cosa che mi ha sempre affascinato, quindi ho deciso di darti una possibilità. Tu sei solo un galoppino, me lo ha detto Apollo piangendo, mentre divoravo le sue budella. Tu hai solo eseguito gli ordini e nessuno ti biasima per questo, ma… sai… i traditori hanno un saporaccio… e non mi sono mai piaciuti e, a quanto diceva apollo mentre gli strappavo via gli intestini, tu hai tradito il tuo dio, Ares… –
Balthasar scoppiò nuovamente in lacrime mentre tentava di liberarsi dalla presa del suo aguzzino, ma era tutto inutile, le sue mani sembravano acciaio, inamovibili e stringevano sempre più forte ad ogni lamento che faceva, al punto che ad un tratto sentì quasi gli occhi schizzargli via dalle orbite. – Come ho già detto, non amo i traditori, bensì amo la caccia, quindi tu scapperai da me, e io ti darò la caccia. E visto che sono leale, ti prometto che non userò poteri divini per inseguirti, ma solo le mie gambe. Se riuscirai a fuggire sarai libero, ma se ti prendo… voglio sorprenderti. –
Gilgamesh afferrò l’aria con le dita e strappò lo spazio, così come si strappa un enorme foglio di carta, e si ritrovarono immediatamente in una fitta foresta di querce, poi gli lasciò il collo, gettandolo a terra come un rifiuto e accanto a lui lasciò cadere una spada, la stessa che brandiva Ares durante il combattimento in cui morì.
- La riconosci? Si, è proprio lei, la spada del tuo signore. Prendila, te la regalo, io non me ne faccio nulla, ma tu… ne avrai bisogno. Ora mi volterò e conterò fino a dieci, un piccolo vantaggio per fuggire. –
Balthasar era attonito mentre osservava Gilgamesh voltarsi contro il tronco dell’albero, come i bambini che giocano a nascondino. Poi iniziò a contare.
- Uno… -
Balthasar si alzò più veloce che poteva, raccogliendo la spada del suo signore, ancora una volta in lacrime.
- Due… tre… -
Si voltò e cominciò a correre a perdifiato, scivolando fra le foglie secche sparse al suolo.
- Quattro… cinque… -
Svoltò dietro un enorme masso e corse scendendo lungo il pendio.
- Sei… sette…-
Balthasar inciampò in una radice scoperta e rotolò giù, fermandosi in riva ad un fiume.
- Otto… nove… -
Si gettò in acqua correndo contro corrente per depistare il suo inseguitore, passando sulla riva opposta.
- Dieci… è ora di morire, Balthasar! – Disse serafico il dio sgranchendosi braccia e gambe.
- Sai, forse sbagliavo, non sei un ratto… - urlò camminando per la foresta, annusando l’aria, colma della paura della sua preda – credo che tu sia più simile ad una lepre… no, un coniglio! Ecco cosa sei, un codardo, vile e stupido coniglio. –
Gilgamesh salì su un albero, per ottenere una visuale migliore della zona, ma per lui era semplice, era abituato alla sopravvivenza in luoghi simili a quello, infatti veniva spesso mandato dal re di Atlantide in missione in luoghi lontani e pericolosi, popolati da uomini barbari che ancora non conoscevano l’acciaio e la tecnologia di cui disponeva la sua Nazione.
Scrutò a fondo il paesaggio circostante e vide le tracce lasciate dal passaggio di Balthasar, le foglie calpestate, la radice e le tracce della sua rovinosa caduta ed infine il fiume a sud.
Scese dall’albero e cominciò a correre nella foresta seguendo la pista della sua preda, proprio come fa il lupo con il coniglio. Era rapido e preciso, tutt’altra cosa rispetto al povero dio decaduto, la sua forma agile e possente scattava da un albero all’altro con passi leggeri e rapidi, come i migliori sicari e ladri.
Alla roccia svoltò con decisione e scese la parte ripida del pendio scivolando sulle cosce, poi prima della fine del percorso estrasse un coltello munito di corda dalla fondina sul fianco e lo lanciò conficcandolo profondamente nel tronco di una quercia, poi facendo leva sulla corda frenò la caduta e saltò dal ciglio della sporgenza di fronte a lui, atterrando con una capriola sulla riva del fiume.
- Sai Coniglio, pensavo che saresti affogato nel fiume… fortunatamente, avevo torto. – Gridò una volta in piedi, mentre osservava il fiume.
Da qui in poi non c’erano più tracce da seguire, l’acqua era un’ottima risorsa per una preda in fuga.
Guardò il fiume e notò che le acque diventavano sempre più rapide seguendo la corrente; se la sua preda fosse andata da quella parte sarebbe incappata in una cascata o in acque profonde, una caduta che lo avrebbe bloccato ora che non aveva più tutti i suoi poteri divini, mentre controcorrente avrebbe avuto più chance di depistare Gilgamesh.
Scelse di andare controcorrente e infatti, trovò qualche metro più avanti le orme di Balthasar uscito dal fiume.
- Aaaaahahah! Quando ti avrò trovato, ti infilerò un bello spiedo su per il culo… e ti divorerò! – Urlò Gilgamesh ghignando, poi vide dei sassi cadere da una parete rocciosa vicina e alzò lo sguardo. In cima vide la sua preda che lo guardava, ma appena incrociò lo sguardo del suo cacciatore, riprese a scappare.
- Ahahaaaaaa! Eccoti qui! – Disse estraendo la spada.
Scelse un albero abbastanza vicino alla sporgenza e conficcandovi la spada prese a scalarlo con una velocità inaudita, facendo leva su di essa, poi quando arrivò in cima spiccò un salto verso la sporgenza con la spada sguainata fra le mani. Conficcò la lama nella roccia viva e fece nuovamente leva per salire sulla sporgenza, infine estrasse nuovamente la sua arma con tanta forza da spaccare la pietra.
- Eccomi Balthasar, sto arrivando… - sussurrò sottovoce a se stesso, mentre cominciava a correre verso il suo pranzo.
Balthasar aveva a malapena cinquanta o sessanta metri di vantaggio e non era un gran corridore, mentre Gilgamesh era una belva affamata, capace di sforzi disumani pur di raggiungere il proprio scopo. Si muoveva fra gli alberi come se non avesse fatto altro per tutta la propria vita, come un lupo a caccia. In pochi secondi era già alle calcagna del suo nemico che piangeva e chiedeva pietà al suo inseguitore che però non sentiva più nulla, ormai era spinto solo dalla sua sete di sangue.
Quando finalmente fu alla sua portata Gilgamesh lanciò la propria spada, conficcandola nella coscia del suo pasto, facendolo cadere rovinosamente al suolo.
Quando lo raggiunse non disse nulla, si limitò a prenderlo per la mascella e guardarlo negli occhi.
Balthasar per il terrore si pisciò addosso mentre il dio di fronte a lui lo sollevava in aria.
- Phieethà…. Thi phreg-ho ph-iethà… - disse con voce soffocata.
- Pietà dici? Mh… non credo di conoscere questa parola, non ne ho mai sentito parlare. – Ghignò l’altro, afferrando con forza la gamba trafitta e strappandola via con la forza, riprendendosi la spada.
Lo gettò su un masso, estrasse dal fodero la vecchia spada di Ares, che aveva donato alla sua preda, e la riconficcò nel suo torace fino all’elsa, inchiodandolo alla roccia dietro di lui. Balthasar emise un flebile lamento, poi un urlo più forte e pianse ancora quando la spada passò attraverso il suo cuore per poi conficcarsi nella solida roccia alle sue spalle.
Gilgamesh si avvicinò ad un albero vicino e lo colpì con un pugno talmente forte che il tronco esplose in mille grandi schegge acuminate e ne raccolse una, la più grande e robusta, lunga un paio di metri e spessa una decina di centimetri.
- Sai, gli dei sono fortunati a non morire quando gli si taglia la testa o gli si infilza il cuore… - disse rivolgendosi al suo pranzo – Se non fosse stato così non avresti potuto godere dell’immenso dolore che sto per infliggerti. –
Detto ciò lo afferrò nuovamente per il collo ed iniziò a tirare, strappandolo dalla roccia alla quale era affisso. Gli si aprì un grosso buco nel petto, e il suo cuore, ancora pulsante, rimase infilzato sulla roccia assieme alla lama di Ares.
Così il lupo trafisse quel povero coniglio con lo spiedo, proprio come aveva promesso di fare, lo sbudellò, accese un fuoco e lo arrostì vivo, ma non morì e anche dopo essere stato cotto continuò a piangere e urlare, persino mentre veniva divorato non smise ed una volta finito il suo pasto Gilgamesh fece un gran rutto, si alzò in piedi, prese a passeggiare per il bosco e non tornò mai più in quel luogo.
Una volta che anche l’ultimo pezzo di Balthasar fu divorato, però, anche il suo cuore smise di battere e nel giro di qualche settimana marcì.
La spada restò conficcata nella roccia per millenni, mostrando il nome che il suo vecchio padrone le incise, attendendo paziente di passare ad un nuovo proprietario.
La lama di Ares, forgiata da Efesto, restò sempre affilata, ed il suo nome divenne leggenda, dapprima per mano di un dio ed in seguito per le gloriose imprese di un re chiamato Artù, il nuovo padrone di Excalibur.
 
Fine Capitolo III
   
 
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