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Autore: hiromi_chan    24/07/2014    4 recensioni
Arthur Pendragon, demotivato e con la tendenza a ignorare i suoi problemi, viene spedito per conto della Pendragon Immobiliare a Castel Camelot in Scozia. Gli abitanti della città di Ealdor sono convinti che il castello sia in balia di strane presenze, ma Arthur non è dello stesso avviso. L'occasione lo porterà a unire le forze con la sorellastra Morgana, una veggente che gestisce un'agenzia di investigatori psichici, e con Merlin, l'eccentrico socio sensitivo di Morgana.
Inaspettatamente, Arthur si ritroverà a dover farei i conti con i suoi fantasmi personali... e anche con un altro tipo di fantasmi.
(Storia conclusa in tre capitoli)
[Questa fanfiction partecipa al contest “Il romanticismo del 666” indetto da _Stardust e _LoveStory_ sul forum di EFP.]
[Revisionata]
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Morgana, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'King and Lionheart'
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Questa storia è stata scritta per il contest “Il romanticismo del 666” indetto da Stardust e LoveStory sul forum di EFP.

 

Titolo: Howling ghosts (in mountains stacked with fear)

Autore: hiromi_chan

Fandom: Merlin

Numeri scelti
Luoghi: 7, 24
Cose che capitano: 30, 32
Citazioni: 28, 4

Rating: Arancione

Genere: Sovrannaturale, Sentimentale

Avvenimenti: Modern AU; slash (Merlin x Arthur); mini long in tre capitoli;

Introduzione:

Arthur Pendragon, demotivato e con la tendenza a ignorare i suoi problemi, viene spedito per conto della Pendragon Immobiliare a Castel Camelot in Scozia. Gli abitanti della città di Ealdor sono convinti che il castello sia in balia di strane presenze, ma Arthur non è dello stesso avviso. L'occasione lo porterà a unire le forze con la sorellastra Morgana, una veggente che gestisce un'agenzia di investigatori psichici, e con Merlin, l'eccentrico socio sensitivo di Morgana.

Inaspettatamente, Arthur si ritroverà a dover farei i conti con i suoi fantasmi personali... e anche con un altro tipo di fantasmi.

NdA:

-Canzone del titolo: “King and Lionheart” - Of Monsters and Men.

-In questa storia due personaggi leggono i tarocchi; mi sono documentata su internet sui significati e sul modo in cui si dispongono le carte, ma a un certo punto Morgana userà lo schema a una carta in modo sbagliato, cioè estraendo più di una carta, una dietro l'altra (mentre da quello che ho capito non serve a nulla fare una cosa del genere, ma basta una singola estrazione). Consideriamola una licenza d'autore ;-)

In ogni caso, se qualcuno più informato di me sull'argomento troverà a proposito dei tarocchi qualche incorrettezza, prendete tutto come licenze d'autore, grazie xD

 

 

 

 

Howling Ghosts

(in mountains stacked with fear)

 

 

 

 

 

 

«L'inferno si trova dentro la tua testa.»

Soul Eater

 

 

 

 

 

 

~Mescolare le carte~

 

 

 

 

La pioggia ticchettava sui vetri, quella sera. L'unico soprabito rimasto sull'appendiabiti era l'impermeabile color sabbia di Arthur Pendragon.

Una montagna di fotocopie sulla sua scrivania iniziò a suonare – no, il telefono sotto le fotocopie iniziò a suonare. Arthur lo lasciò fare finché il rumore non divenne insopportabile.

“Sì, Pendragon Immobiliare,” grugnì alla fine, occhi incollati ai fascicoli e cornetta tra la spalla e la guancia.

“Buonasera, qui parla la Du Lac and Co,” rispose una voce di donna dall'altro capo della linea.

Arthur abbassò le palpebre, sbuffando stancamente.

Elena aveva inserito di nuovo la documentazione relativa a Villa Blacke nella cartella di Villa Blanche.

Arthur si allungò sulla scrivania buttando giù il portapenne e schiacciò il tasto dell'interfono. “Elena, portami la cartella di Villa Blanche nella quale hai messo i documenti di Villa Blacke, nonostante io ti abbia ricordato di non farlo un milione di volte,” disse, senza curarsi di coprire la cornetta. “E già che ci sei portami anche un caffè. Vedi di non versarne la metà durante il tragitto dalla tua scrivania al mio ufficio.”

“Trattate i vostri impiegati in modo davvero antipatico,” lo ammonì la donna al telefono.

Arthur si strinse tra le dita il ponte del naso. Odiava perdere tempo in quel modo. “L'inefficienza paga. Elena, allora, mi hai sentito? Elena?”

“Le è venuto in mente che la sua segretaria potrebbe essere già tornata a casa, come ogni persona sana di mente farebbe alle nove di sera?” cantilenò la donna.

Fu lì che Arthur non riuscì a trattenersi dal sorridere. Conosceva a memoria quell'inflessione di voce, eppure non c'era una volta in cui il sentirla non facesse crollare le sue difese.

“Dovresti smetterla di divertirti tanto a prendermi in giro, Guinevere. È una cosa un po' triste, sai,” disse. Se gli scappò con più indulgenza del dovuto, entrambi ignorarono il fatto.

“Tu invece dovresti essere uscito dall'ufficio già da un pezzo,” gli ricordò Gwen. “Scommetto che nemmeno ti eri accorto dell'ora. Lo fai sempre, ti perdi nel tuo mondo concentrandoti unicamente sul lavoro e...”

Arthur appoggiò i piedi sulla scrivania, sprofondando il più possibile nella poltroncina girevole. Per il momento sarebbe stato meglio abbandonare le scartoffie; quando Gwen iniziava a parlare a raffica era impossibile riuscire a concentrarsi su qualcosa. Meglio far valere il principio di economia e usare quel tempo per una pausa. La lista mentale della spesa da fare era più che sufficiente a intrattenerlo.

“... E sai benissimo quanto tutto ciò preoccupi me e Lance,” continuò Gwen, che non si era fermata nemmeno per prendere fiato.

“Hmm... aspetta, che?” fece Arthur, ricollegando la spina al cervello qualche secondo dopo. “Preoccuparvi? Guinevere, ti prego, smettila con queste sciocchezze.”

Lei sospirò, il dispiacere palpabile nel momento di silenzio che ne seguì. “È solo che io e Lance non possiamo evitarlo, Arthur. Sei tutto casa e lavoro, ormai. Così non possiamo fare a meno di stare in pensiero per te. Sei diventato una persona completamente diversa da quando...”

La pausa successiva fu carica di quello specifico imbarazzo che Arthur detestava – quello che saltava fuori ogni volta in cui qualcuno faceva riferimento alla rottura tra lui e Gwen. Dio, era imbarazzante anche solo se a parlarne era uno di loro due.

Arthur decise di salvare entrambi cambiando prontamente argomento, pur sapendo benissimo quanto fosse difficile far desistere Gwen quando si metteva in testa qualcosa. “Mi hai chiamato solo per farmi la ramanzina, mamma?” disse, tirando giù i piedi per far ruotare la sedia.

“Certo che no. Be', in parte sì. E ho dovuto addirittura ricorrere al numero del tuo ufficio, signor Irraggiungibilità.”

Arthur mise su il broncio e procedette a darsi un'altra spinta, facendo perno sul cestino dei rifiuti. Intorno a lui girò in macchie colorate il meraviglioso studio nel quale lavorava – sedie di pelle, scaffali immacolati, pianta nell'angolo, enormi vetrate fradicie di pioggia che davano sulle luci notturne della città e, alla fine, con la coda dell'occhio, Arthur trovò l'impermeabile color sabbia. Allora afferrò la scrivania, si fermò e d'improvviso nulla girò più in quel meraviglioso e desolante studio.

“Mi avevi cercato al cellulare? Scusami, mi sarà sfuggito,” disse, gettando un'occhiata poco colpevole al suo BlackBerry, dove sapeva che lo attendevano sei chiamate perse.

“Arthur,” disse Gwen. Usò quel tono lì, il tono da dovresti vergognarti, ti conosco come le mie tasche, sai. “Spero che la smetterai di evitarci. Lance era così felice all'idea di andare a festeggiare il tuo compleanno tutti insieme come ai vecchi tempi. Non trovare un'altra scusa, pensa che sia un sabato sera qualunque se proprio non ti va di festeggiare.” Poi, più piano, concluse col colpo di grazia. “Non odiarci.”

Cazzo.

Così lo metteva in difficoltà. Così lo metteva in enorme difficoltà, innanzitutto perché Arthur non era mai stato incline ai compleanni, al suo in particolar modo (ogni suo compleanno coincideva con l'anniversario della morte di sua madre, che c'era da festeggiare?). Poi perché, messa in quella maniera, Gwen la faceva sembrare come se Arthur fosse il responsabile delle loro afflizioni. Faceva sembrare come se lui dovesse sentirsi in colpa di sporcare la loro felicità con un po' di pena, dopo aver trascurato Gwen negli ultimi anni della loro relazione e aver ignorato i sentimenti di Lance di cui era sempre stato più che consapevole, e... uh.

“Non vi odio affatto,” disse Arthur sottovoce, le orecchie infuocate. Perché si ostinava ad annodarsi la cravatta tanto stretta attorno al collo? “Lance, al contrario, è il mio migliore amico.”

Il migliore amico che ora si scopava la sua ex. Anzi, il migliore amico per il quale la sua ex l'aveva lasciato, sebbene Gwen e Lance ci tenessero a specificare che l'inadeguatezza di Arthur nelle relazioni umane in generale non c'entrasse affatto.

“Pensaci su, ti prego,” disse dolcemente Guinevere. “Possiamo ancora fare in modo che le cose tra noi tre tornino quelle di una volta.”

No, non potevano. Se non altro, perché niente al mondo può mai tornare come prima. Tutto cambia e tutto passa. Tornare indietro al punto di partenza, fingendo che nulla sia mai successo? Idea carina ma, pur sforzandosi disperatamente di metterla in atto, pur pregando con tutto sé stesso... una madre morta restava sempre una madre morta, e un'amica restava sempre la donna che si aveva amato.

E, dio, ad Arthur veniva la pelle d'oca quando si perdeva nei sentimentalismi.

“Ti prometto che farò del mio meglio per essere lì con voi, sabato,” disse, mordendosi il labbro.

Dopo salutò Gwen e mise giù il telefono.

Fece in tempo solo a mettersi la faccia tra le mani che un Uther Pendragon nel suo miglior completo scuro spalancò la porta. Ovviamente indossava l'immancabile fermacravatta della Pendragon Immobiliare – il drago d'oro con l'occhio di rubino. La mano di Arthur volò a coprire il punto esatto in cui avrebbe dovuto esibire il suo.

Intanto suo padre si era fatto strada nello studio con la determinazione di un vendicatore sul campo di battaglia. “Vuoi andarci davvero?” esordì, mettendosi dritto davanti alla scrivania del figlio.

Arthur era troppo abituato alle follie dei Pendragon per lasciarsi infastidire dal fatto che Uther ascoltasse le sue conversazioni private. “No, non mi va affatto di andarci,” si ritrovò a borbottare con innocente onestà.

“Bene, perché per questo fine settimana sarai nelle Highlands scozzesi,” annunciò Uther.

Arthur accolse la novità con un neutro “mmh” e procedette a poggiare il viso sui pugni chiusi.

Ma intanto una strana sensazione aveva iniziato a insidiarsi alla bocca dello stomaco, un qualcosa di simile allo stimolo nervoso di quando si svegliava nel cuore della notte pensando di non avere più il letto sotto di sé: sentirsi come cadere da mille metri... Un senso di colpa all'idea di aver trovato ancora un modo per svicolare lontano da Gwen e Lance, ecco cos'era.

“Ho già sistemato tutto quanto per il viaggio,” lo informò Uther, minimizzando con ampi gesti delle mani l'abilità di fare incursioni nella sua vita. “L'unica cosa di cui dovrai preoccuparti sarà goderti uno splendido soggiorno di una notte a Castel Camelot di Ealdor, un ridente villaggio poco fuori Inverness.”

Oh, sì. Quello era esattamente il tono che Uther Pendragon usava quando cercava di invogliare i clienti. Anche il sorriso tirato di convenienza c'era, era proprio lì a piegargli la pelle in quelle rughe che Arthur aveva imparato a temere. Mai fidarsi delle rughe di Uther Pendragon.

“Nelle Highlands c'è una delle nostre proprietà in affitto. Proprio vicino a Inverness, se non sbaglio,” ragionò lentamente Arthur, strizzando un occhio. Suo padre non l'avrebbe mai mandato in gita di piacere; inoltre, i nomi del castello e del villaggio gli facevano risuonare qualche campanello nelle orecchie.

“Forse ricorderai che Castel Camelot è stato scelto diverse volte come location cinematografica,” disse Uhter annuendo.

Arthur batté un palmo sulla scrivania, facendo sollevare qualche fotocopia. “Ah! È il castello che bruciò durante le riprese di quel fantasy hollywoodiano. Che anno era, il...”

“Si parla dell'ottantasei, Arthur,” intervenne Uther. “E per evitare l'interruzione delle riprese, la Pendragon Immobiliare si assicurò di fare in modo che tutte le ristrutturazioni del caso fossero portate a termine nel più breve tempo possibile, senza bloccare mai i lavori della troupe di Hollywood. Oggi Castel Camelot è una splendida struttura perfettamente a norma, e noi della Pendragon Immobiliare siamo sempre felici di affittarla garantendo il massimo del servizio.”

Arthur roteò gli occhi al soffitto ma fece comunque cenno a suo padre di accomodarsi. Era un uomo a cui piaceva stare sempre in piedi, Uther.

“Qual è il problema, allora?” gli chiese Arthur. “Non si tratterà ancora di qualcosa legato al famoso incidente... cos'è, la maledizione di Castel Camelot?”

Un nervo batté sulla tempia di Uther, tradendo il suo vero umore. “C'è poco da scherzare, Arthur. In quelle zone sono particolarmente sensibili a certe tematiche, e giurerei che qualche epiteto del tipo 'il castello maledetto' sia davvero stato usato.”

Arthur si morse il labbro, intrecciando le dita tra loro.

“Lo staff che si occupa della manutenzione del castello ha riempito i centralini di lamentele, nell'ultimo mese,” disse Uther, vuotando il sacco con ferocia.

Arthur stavolta dovette nascondere il sorrisetto con un colpo di tosse.

Uther invece, per niente divertito, rizzò la schiena in una delle pose più nobili e distaccate del suo repertorio. “Si lamentano delle solite cose: fans inopportuni che vengono a visitare i luoghi dei loro film preferiti, urla nel cuore della notte, apparizioni spiritiche, sangue che gocciola dai torrioni...”

Le sopracciglia di Arthur schizzarono in alto – non tanto per la strana virata della conversazione, quanto perché Uther Pendragon, l'uomo della concretezza con la “c” maiuscola, stava davvero parlando con una certa vena di serietà di un castello infestato.

“È una sciocchezza,” riprese suo padre, il labbro arricciato che faceva bene intendere cosa pensasse. “Sai quanto siano creduloni e fantasiosi i pecorai di quei posti. Lì le leggende piacciono molto e la suggestione è di casa. Basta qualche pipistrello notturno per far gridare al disastro sovrannaturale.” Uther si agitò sulla sedia, premendosi per un attimo le tempie con le dita. “Ho tentato di liquidare la faccenda, ma è stato inutile. La nostra filiale scozzese richiede urgentemente un sopralluogo da parte della casa madre, il che è un modo furbo per dire che loro vogliono lavarsene le mani, facendo leva sui nostri obblighi. Non possiamo tradire la politica aziendale, ne andrebbe del buon nome della Pendragon Immobiliare.”

Arthur poteva capire il motivo per cui suo padre volesse evitare che si spargessero strane voci su Castel Camelot, già coinvolto in un incidente in passato.

Prima chiedendosi se non fosse il caso di mettersi a ridere o a piangere, poi ricordandosi che Uther stava scaricando l'ingrato compito sulle sue spalle proprio come i “pecorai scozzesi” avevano fatto con lui, Arthur sospirò e passò alla professionalità. “Cosa dovrei fare, di preciso?”

“Soltanto dormire a Castel Camelot per una notte e a fine soggiorno farti vedere sano e salvo dall'agente immobiliare della nostra filiale. Non so, fai delle foto per testimoniare l'assenza di mostri e spiriti, o qualcosa del genere. Questo basterà a rassicurare il personale addetto al mantenimento del castello... spero. È tutta gente che vive a Ealdor. Le voci si diffondono in fretta nei piccoli villaggi.”

Arthur ghignò, afferrando un post-it e una penna per appuntarsi i dettagli necessari. Chi l'avrebbe mai detto che sentir uscire le parole “mostri e spiriti” dalla bocca di suo padre sarebbe stato così soddisfacente? Uther era sempre stato incline a evitare anche solo il minimo accenno a certi argomenti – il che, data la storia della loro famiglia, era davvero uno sforzo notevole.

“E mi raccomando, ricordati di portare i miei saluti a Morgana,” aggiunse con studiata casualità suo padre, alzandosi.

Arthur ci mise tre secondi netti per processare la cosa. “Morg- papà, che c'entra ora Morgana?” balbettò, scattando anche lui in piedi mentre l'altro si lisciava la giacca. “Lei vive a Glasgow, no? È piuttosto lontano da Inverness.”

Uther alzò le mani a mezz'aria in un gesto seccato. “Non chiedermi come, ma la tua sorellastra è venuta a conoscenza di movimenti spiritici anomali registrati intorno a Castel Camelot. Mi ha telefonato e ha insistito per venire a dare un'occhiata al posto insieme a te.”

I palmi aperti sulla scrivania, Arthur piegò la schiena in avanti, frenando l'irritazione.

Si trattava di un piano ben elaborato per fargli passare il suo compleanno insieme alla sorellastra, vero? Doveva essere per questo che Uther aveva aspettato un mese prima di mettere mano alle richieste dei centralini. Far riappacificare Arthur e Morgana era un chiodo fisso, per lui.

“Non sono in vena di rimpatriate familiari,” fece presente Arthur, la voce traditrice che era calata di tono.

In fondo al suo stomaco già si stava aprendo il buco nero che ingoiava tutto ogni volta che lui pensava alla sorellastra.

Arthur lasciò vagare lo sguardo per lo studio, in modo che non fosse costretto a incontrare quello di Uther. Fuori pioveva con più violenza; il riscaldamento aveva appannato le vetrate e la città, oltre gli aloni grigi, era ridotta a un ammasso di punti luminosi nella sera.

Il bagliore della pupilla rossa del drago Pendragon richiamò l'attenzione di Arthur, giudicandolo e ricordandogli qual era il suo posto.

“Morgana ha detto che non sarà una visita di piacere,” disse Uther, insolitamente pacato. Si avviò alla porta a grandi falcate, riprendendo a parlare solo dopo aver portato un piede fuori dall'uscio. “Si presenterà in qualità di detective della Trinetra per indagare sul caso. Ha insistito molto perché specificassi bene questo punto.”

Perfetto. Così Arthur non avrebbe dovuto vedersela solo con un team delle pulizie spaventato da una storiella dell'orrore; adesso avrebbe dovuto gestire pure la combriccola di imbroglioni capitanata da Morgana.

“Papà, ti prego, non farmi questo, non mandarmi laggiù direttamente nelle sue fauci,” avrebbe voluto dire Arthur. Perché un confronto con Morgana era una delle cose di cui aveva meno bisogno, adesso. La sua vita era già disordinata così com'era, grazie tante, e la sua sorellastra era un uragano, era il caos allo stato puro. In nome della verità, non si sarebbe ritenuta soddisfatta fino a che non avesse sfasciato anche la più piccola delle sue certezze.

Ma poi, ad Arthur venne in mente che l'alternativa al viaggio in Scozia era la serata al pub con Lance e Gwen, e un'emicrania gli scoppiò tra una tempia e l'altra come una bomba nucleare.

“Io... non ti deluderò, papà,” fu quello che alla fine uscì dalla sua bocca.

La pioggia continuò a scrosciare contro le finestre, la porta si chiuse con un clack.

Avrebbe dovuto far lucidare le sue scarpe, vero? Sì, avevano assolutamente bisogno di una lucidata.

 

 

 

ʘ

 

 

 

Un grosso sasso si scontrò con le ruote della valigia e Arthur imprecò di nuovo. Si sentiva un idiota, in giacca e cravatta in mezzo alla natura. Sotto all'impermeabile si era messo il completo buono, quello blu scuro che Elena aveva fatto arrivare da Milano, e si era pure ricordato fermacravatta con il drago d'oro. Per chi se l'era messo, poi? Arthur era certo che a quei tori pelosi e inquietanti che brucavano al lato della stradicciola non importasse un granché del suo completo italiano.

Dei nuvoloni plumbei coprivano il cielo; il sole nascosto dietro di loro mandava qualche raggio a colorare i rilievi di una sfumatura grigiastra. Il terreno era davvero accidentato, e quella che su internet era stata classificata come una “meravigliosa e rilassante passeggiata tra i suoli scozzesi” stava mandando Arthur fuori di testa.

La sua irritazione aumentava in modo proporzionale ai balzi che la valigia spiccava a ogni buca o sasso. Data la montuosità del paesaggio, era tutto dire. Inoltre, doveva aver piovuto da poco, perché l'erba e la ghiaia erano mescolate in una poltiglia umida che gli si appiccicava alla scarpe.

Quella era solo la coronazione dello stato nervoso in cui Arthur aveva sguazzato nelle ultime ore.

Il viaggio verso la Scozia si era rivelato uno dei più stressanti della sua vita, con la testa che aveva tamburellato per tutto il tempo al ritmo del pensiero fisso della rimpatriata con Morgana. Arrivare a Inverness, poi, era stato solo l'inizio della fine.

Ti manderò a prendere in città dal mio socio Malone che ti accompagnerà fino a Ealdor, gli aveva fatto sapere tramite fax Morgana. Peccato che Arthur non avesse trovato proprio nessuno ad attenderlo a Inverness, e che avesse aspettato la bellezza di tre ore seduto sopra la valigia davanti al fiume (tenendosi a distanza di sicurezza dall'acqua).

Quando i bambini che passavano avevano iniziato a ridere di lui, Arthur aveva ritenuto fosse il caso di telefonare alla sorellastra, suo unico contatto di riferimento oltre una certa Helen Burn della filiale della Pendragon. Il telefono di Morgana, però, era staccato, e Arthur, digrignando i denti, aveva rinunciato a chiamare la Burn. Diamine, era adulto e vaccinato, avrebbe potuto cavarsela anche da solo e trovare la strada verso Ealdor.

Ma poi il suo telefono era misteriosamente morto all'improvviso, un moccioso gli aveva fatto la linguaccia cinque secondi dopo la grave perdita e quindi lui non aveva potuto fare altro che rispondere con un'insipida boccaccia dello stesso livello. Non si era accorto della madre del bambino accanto a loro, che l'aveva guardato come fosse stato un poco di buono. Arthur, rosso come un peperone, aveva raccolto il bagaglio a mano e la valigia e aveva chiamato un taxi per togliersi definitivamente il pensiero.

Dopo, a metà strada verso Ealdor, mentre i rilevi smeraldini delle Highlands scorrevano oltre il finestrino, Arthur aveva litigato col tassista.

La gente del nord della Scozia, in fondo, non nutriva particolare simpatia nei confronti degli inglesi, mentre Arthur... be', al momento Arthur non nutriva particolare simpatia nei confronti di nessuno.

Così si era ritrovato a piedi in un pezzo di Scozia dimenticato da dio, l'umidità che gli penetrava sempre più nelle ossa.

Durante la prima mezz'ora della scarpinata, aveva nutrito l'ingenua speranza di poter avvistare qualcuno e chiedere un passaggio fino al villaggio. Tutto ciò che aveva trovato, però, era stato qualche rudere antico, residuo di chissà quale epoca lontana, un paio di specchi d'acqua, due case coloniali abbandonate e... oh, già, loro. I tori simili a yak. Ogni tanto uno alzava pigramente il muso e, ruminando fissava Arthur – be', lui poteva solo supporre che lo fissassero, dato che avevano gli occhi nascosti da quella bizzarra peluria chiara.

Da qualche minuto si era anche alzato un forte vento. Lì non c'era nulla che potesse ostacolarne il corso, dunque fischiava tra l'erba e i picchi dei rilievi; sarebbe stato quasi rilassante, se solo Arthur non avesse avuto la più pallida idea di dove si fosse trovato.

Era tutta colpa di quel Malone, che non si era degnato di presentarsi all'appuntamento a Inverness. Arthur non avrebbe potuto aspettarsi niente di meno da un socio di Morgana. In fondo, lei gestiva un'agenzia di investigatori psichici; non si poteva fare affidamento su pagliacci del genere.

Morgana aveva sempre odiato Arthur per i commentini che non si risparmiava di fare a tal proposito. In realtà, lui l'aveva sempre presa in giro per la sua passione per l'occultismo, e forse gran parte della tensione tra loro era nata anche per questo. Ma diamine, Morgana diceva di essere in grado di fare sogni profetici! Uther non si era mai espresso in proposito, e da ragazzino Arthur aveva interpretato i suoi silenzi come un appoggio non tanto velato al mettere in ridicolo le credenze di Morgana.

C'era stato un periodo, però, nell'adolescenza, durante il quale Arthur si era sentito un po' un bastardo per i suoi comportamenti. Non aveva mai voluto fare nulla di male e non credeva davvero che Morgana raccontasse balle, perché non sarebbe stato in linea col suo carattere da paladina della giustizia. Solo che le cose che lei professava di “vedere” erano proprio assurde, così Arthur si era ritrovato spesso a riderle in faccia quando lei gli parlava delle sue visioni.

A quattordici anni non si immaginava che la sorellastra fosse convinta delle sue stramberie a tal punto da farne il perno della sua carriera futura; né aveva mai pensato che lei potesse risentirsi tanto per i suoi atteggiamenti. O, almeno, non l'aveva capito prima di quella volta in cui Morgana scoppiò in lacrime di frustrazione, la tempesta fuori e i piatti rotti dentro casa.

Arthur ricordava vagamente cosa avesse fatto scattare la scintilla per quella litigata furibonda – era stato a proposito di un sogno su di lui, qualcosa che in futuro l'avrebbe messo in pericolo.

Ricordava, però, come l'agitazione avesse trasformato il volto giovane di Morgana, rendendola ancora più pallida. Lei prima gli era corsa incontro, prendendolo per le braccia; poi, quando lui aveva scacciato le sue paure infondate con una risata, era diventata livida, si era trasformata in un'adulta nel giro di pochi secondi, aveva pianto – e Arthur si era sentito un verme.

“Sei uno stupido, stupido ottuso! Ti fidi solo di ciò che riesci a toccare ed escludi anche solo la possibilità di tutto il resto – per ogni cosa, Arthur,” aveva detto Morgana, asciugandosi gli occhi con un gesto sprezzante. Mascherando con il veleno le sue parole, dietro ogni lettera aveva sepolto un mare di delusione. “Ma in realtà non sai niente di niente. Non conosciamo abbastanza la vita e il mondo che ci circonda... come possiamo conoscere il mondo che non vediamo?”

Da quel momento era andato tutto in discesa.

In poco tempo Arthur aveva persino smesso di incolparsi per il varco che si apriva sempre più tra loro, andando a dividerli a mano a mano che crescevano. Quando era entrato al primo anno di liceo, Morgana aveva frequentato il quarto; allora Arthur aveva potuto appurare non solo come lei fosse affine alle pratiche occulte, ma anche come avesse un ottimo senso degli affari e una predisposizione naturale a intercettare i creduloni. Glielo avevano suggerito gli incontri clandestini sul tetto del liceo che Morgana allestiva nelle ore di pausa, durante i quali leggeva le carte alle compagne e si faceva pagare profumatamente per il responso.

Ripensandoci ora che stava arrancando per un sentierino scozzese, ad Arthur venne da ridere per l'assurdità della situazione e della sua vita in generale. Ma il sorriso si smorzò quando il pensiero seguente fu che lui e la sorellastra non si parlavano da quasi dieci mesi. Del resto, non si vedevano più di quelle due volte all'anno espressamente richieste da Uther e classificate come riunioni improrogabili di famiglia.

Se era questo il ritmo di cui entrambi avevano bisogno per ottenere una relativa serenità nel loro rapporto, però, andava bene. Sì, andava bene.

Una goccia d'acqua lo colpì dritto in fronte. No, non andava affatto bene.

Arthur alzò il naso: i nuvoloni che fino a poco prima si erano mantenuti piuttosto amichevoli si stavano ora ammassando, e il vento lo spingeva da dietro con sempre maggiore forza. Imprecò ancora e frugò nelle tasche dell'impermeabile, sconfitto dal mondo che aveva intenzione di mandargliele tutte storte. “Qual era l'indirizzo di quella Helen?” borbottò tra sé, sperando di trovare come per magia una soluzione ai suoi problemi.

“Muuuu,” fece uno dei tori, rispondendogli.

“Zitto, tu,” berciò Arthur, un'altra goccia che gli finiva proprio sul naso. Quando alzò lo sguardo per strofinarla via, si accorse con orrore che la voce della bestia doveva aver fatto da richiamo per i suoi amici. Gli altri tre o quattro esemplari sparsi nel dintorni, infatti, si stavano radunando verso di lui, oscillando svogliatamente sulle zampe.

“Via, via,” disse Arthur, scacciando l'aria. “Non venitemi intorno, non mi servite a niente. Sciò!”

Proprio in quel momento, accerchiato dagli animali e giusto un filino nervoso, con un temporale sopra la testa che stava per scoppiare da un momento all'altro, Arthur lo sentì: il rumore di un motore che proveniva da in fondo alla strada.

Si aggiustò il bagaglio a mano contro il petto, quindi, rianimandosi. “Sciò, sciò,” continuò a blaterare, facendosi largo in punta di piedi tra gli animali. Una figura all'orizzonte iniziava ad assumere una forma distinta: era qualcosa con una persona sopra, probabilmente... qualcosa di azzurro e...

Il rombo stonato del motore si fece più chiaro e Arthur rimase a bocca aperta vedendo avvicinarsi un ragazzo a bordo di un motorino. Un motorino dall'andatura instabile, con le ruote mezze sgonfie. Un motorino azzurro.

“Non ci credo,” fece Arthur, trascinandosi dietro la valigia con determinazione. Meglio quello che niente, alla fine – ma la Scozia si era davvero messa contro di lui in tutti i sensi. “Si fermi, si fermi,” sbracciò, portandosi al lato della strada. Nel momento in cui sentì qualcosa di umido toccargli il gomito, si voltò, trovandosi difronte le narici curiose di uno dei tori. “Buon dio!” sobbalzò, scivolando all'indietro nel terreno viscido.

Qualcuno rise. La risata era profonda, ricca e un po' sciocca. Arthur si girò, interdetto. Fu allora che si accorse che il rumore del motore si era fermato e che, in effetti, lo sconosciuto in motorino l'aveva raggiunto. Era un uomo giovane; aveva addosso una giacca corta di pelle e portava un casco aperto. Sorrideva guardandolo, probabilmente per prenderlo in giro. Arthur lo trovò antipatico all'istante; chi si sognava di abbinare una sciarpa rossa con una giacca marrone?

“Serve una mano?” chiese il tipo del motorino, l'accento scozzese che gli coloriva la voce.

“Mi serve un passaggio, non una mano,” berciò Arthur.

L'altro arcuò un sopracciglio nell'espressione più da “guarda che bastardo” che Arthur avesse mai visto. Quando parlò di nuovo lo fece con la bocca tesa in una linea polemica. “Nessun problema, amico. Ti lascio qui e facciamo come se non ti avessi mai visto,” disse, muovendosi per scansare il cavalletto col piede.

Arthur si costrinse a ingoiare una buona dose di orgoglio e decise che, invece che sputargli un non sono amico tuo, fosse meglio dire: “No, aspetta – sì, ho bisogno d'aiuto.”

Il ragazzo gli sorrise di nuovo, allora, un vero sorriso a trentadue denti che gli ridusse gli occhi a due mezzelune. Si piegò in avanti, incrociando le braccia sul cruscotto. “Ti do un passaggio, dai. Dove devi andare?”

“Ealdor. A Castel Camelot, in realtà, ma da quello che ho capito non è molto lontano da-”

Le pupille del ragazzo si allargarono comicamente – Arthur notò che le sue iridi erano di un punto di blu molto acceso. “Oh, cazzo,” disse, la voce ridotta a un filo. “Arthur?”

Il diretto interessato sporse le labbra in fuori, chiedendosi come fosse possibile che l'altro conoscesse il suo nome e se per caso non l'avessero coinvolto nel più grande scherzo televisivo della storia.

“Sono Merlin?” continuò il ragazzo con crescente agitazione, indicandosi inutilmente il petto. Notando la confusione sempre maggiore di Arthur, aggiunse, “Ehm, Merlin Malone, aye? Il socio di Morgana?”

Arthur serrò la mascella con così tanta forza che la sentì scricchiolare. Si impose la calma, ma riuscì a prolungare la proposizione a malapena per quattro secondi. “Razza di... decerebrato,” sibilò oltraggiato, “quindi è per colpa tua se sono rimasto a piedi! E, data la faccia che stai facendo, devo presupporre che ti fossi semplicemente dimenticato di venirmi a prendere!”

Il viso del ragazzo – no, di Merlin, aveva assunto di colpo una sfumatura di rosso intenso che Arthur avrebbe trovato preoccupante, se non si fosse sentito furioso.

“Aye, be', ti chiedo scusa, ma ho avuto delle cose importanti da fare e mi è passato di mente,” ebbe il coraggio di ribattere, drizzando pure la schiena. “E poi ora sono qui, no? Cioè, l'importante alla fine non è arrivare a destinazione?” Sfoderava un'espressione guardinga ma altera, di uno che sapeva benissimo di aver sbagliato ma che non aveva intenzione di chiedere ulteriormente scusa. Le sue dita, però, avevano preso a tamburellare contro i freni del motorino.

“Tu sei pazzo,” soffiò con stanchezza Arthur, le braccia che ciondolavano lungo i fianchi. “Comunque devi esserlo per forza. Sei un collega di Morgana.”

Arthur squadrò Merlin Malone dalla testa ai piedi, lentamente, prendendo atto dei suoi pantaloni stretti, degli stivaletti neri e dei mezzi guanti di pelle. Chissà perché, quando aveva saputo di questo Malone se l'era immaginato come un signore di mezza età, grosso e con i baffi. Di certo non aveva pensato a un ragazzo dalla figura nervosa e definita, graziato dalla capacità di trasformare la collera di Arthur in sfinimento.

Il rombo di un tuono in lontananza lo riscosse dal suo scrutinio e, quando portò l'attenzione sul viso di Merlin, lo pescò che sbatteva le ciglia, come colto sul fatto.

“Ehm... stavo proprio andando da Morgana, in realtà,” disse Merlin, distogliendo brevemente lo sguardo. “A questo punto le diciamo di raggiungerci e andiamo direttamente a Castel Camelot? Aye?”

“Ti esprimi sempre a domande, tu,” rimbeccò Arthur. Accolse con soddisfazione la nuova ondata di rossore che si spanse lungo il ponte del naso dell'altro perché, se non gli riusciva di farlo sentire colpevole, almeno ci teneva a metterlo a disagio.

“Aveva ragione lei, sei proprio un cretino,” borbottò Merlin, tirando fuori il suo cellulare e trafficandoci in fretta per qualche secondo. “La avverto di venire lì. Tu intanto sali?” E poi si bloccò, si morse la lingua, si schiarì la voce e riprovò. “Voglio dire, tu intanto sali.

Arthur stava per sorridere, ma poi si ricordò di essere arrabbiato. E una nuova illuminazione arrivò insieme al lampo che balenò nel cielo dietro Merlin. “Aspetta un attimo. Io ho la valigia.”

Merlin strinse gli occhi, fallendo completamente nell'indovinare dove fosse il problema.

“Come porto la valigia in motorino?” sillabò Arthur, sempre più esausto per l'idiozia dell'altro.

La bocca di Merlin andò a formare una piccola “o”. “Be', puoi – puoi lasciarla qui e torniamo a prenderla dopo,” fu la sua proposta finale, fatta mentre si stringeva nelle spalle.

“Lasciarla qui in balia dei tori?”

Merlin rise, scuotendo la testa. “Non sono tori, sono vacche delle Highlander. Sono animali simpatici e al cento percento mansueti.”

Arthur fissò con diffidenza una delle bestie che aveva preso a brucare tranquillamente vicino a loro. “Ci credo poco. Comunque fino a qui ci ritorni tu da solo,” brontolò. Dopo che ebbe depositato la valigia su un angolino, si lisciò l'impermeabile e si sistemò la cinghia del bagaglio a mano su una spalla. Il cielo scurissimo non prometteva nulla di buono, ma il paesaggio sembrava un po' più piacevole, adesso che Arthur era sicuro di non essere rimasto a piedi. Il vento forte contro le montagne limpide, il silenzio bagnato dall'accenno di pioggia leggera... tutto era un po' più da togliere il fiato.

“Be', allora, andiamo?” se ne uscì, burbero.

Merlin sfoderò un altro sorriso (tutto quel sorridere lo faceva sembrare toccato), tirando però le labbra in una riga piatta. “Senti, mi dispiace molto di averti creato delle difficoltà,” disse a sorpresa, tendendo la mano. “Ti chiedo ancora scusa, davvero. Ricominciamo daccapo.”

Il suo viso era così onesto che Arthur si sentì per un momento interdetto. Non poté fare altro che annuire e stringergli la mano in segno di tregua momentanea. Chiuse il palmo nel suo e scoprì che le punte delle dita di Merlin erano fredde e ruvide.

Mentre stava per lasciare la presa, però, si rese conto che Merlin non glielo permetteva. Fece per dirgli che per oggi aveva già fatto una buona dose di figure miserabili con uno sconosciuto, ma lo trovò che arricciava vistosamente il naso, come se avesse appena sentito una strana puzza.

“Che diavolo stai facendo?” gli chiese piattamente Arthur.

“Io? Niente,” disse in fretta Merlin, facendogli segno di salire dietro di lui sul motorino.

Arthur emise l'ennesimo sospiro esasperato e montò in sella, afferrando le spalle di Merlin. Proprio quando lui girò la chiave nella toppa malandata e il motore li salutò col suo rombo simile a quello di una caffettiera, la pioggerella iniziò a cadere sulle loro teste con più insistenza.

“Perfetto, davvero,” commentò laconico Arthur.

“Be', poteva andare peggio,” disse Merlin. “Poteva piovere più forte.”

Il che fu esattamente ciò che successe qualche minuto dopo.

 

 

   
 
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