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Autore: Amens Ophelia    25/07/2014    4 recensioni
[IsshiMasa]
Quando nemmeno due mondi sono stati in grado di dividerci, cosa potrebbe mai fare, la pioggia?
Posso cominciare ad amare ogni singolo ago che fende le nubi e scivola lungo il mio viso, baciando cicatrici tanto profonde da non comparire sulla pelle, se questo è un modo per ritrovarti.
(Spoiler per chi non è arrivato al capitolo 530 - Everything but the rain op. 3 e seguenti)
***
[Prima classificata al B(l)each contest: operazione riabilita fandom indetto da Ayumu7 sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kurosaki Isshin, Kurosaki Masaki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sinfonia per archi e pioggia
 


 
 
Ricordo ancora la prima volta che ti vidi; poteva essere l’ultima e ciò già mi spaventava.
Eri corsa in strada, sotto la pioggia battente, con un arco proteso verso l’Hollow bianco che mi aveva steso, ed eri incantevole persino con quell’espressione intimidatoria dipinta in viso.
I capelli danzavano scomposti, attorno al tuo volto, e gli occhi… oh, quegli occhi! Avrebbero addirittura abbattuto i più irriducibili combattenti dell’Undicesima Divisione, se li avessero visti.
Non sembravi provare paura, mentre il mio cuore già cominciava a venir mangiato da quel tarlo cui uno Shinigami dovrebbe essere immune. Se non fossi stato sdraiato, le ginocchia avrebbero ceduto, perché ero impaurito, Masaki; lo ero oltre ogni dire, davanti alla smisurata forza bruta di quell’essere che mi aveva ferito e alla prospettiva che ti attendeva.
Odio ammetterlo, ma non ebbi fiducia nelle tue capacità, in quel frangente. Eri così piccola, delicata, innocente, di fronte al mostro, ed io, impotente – la vergogna del Seireitei –, non sarei stato in grado di proteggerti.
Ti gridai di fermarti, di non compiere azioni avventate, ma tu non mi sentisti. Con il senno di poi, compresi che, semplicemente, avevi deciso d’ignorare le mie inutili preoccupazioni. 
Non eri un’umana qualsiasi, avrei dovuto capirlo dal modo in cui la freccia splendeva nell’oscurità, al pari delle tue pupille. Non eri nemmeno un’intelligenza celeste, perché nessuna mente superiore avrebbe mai abbassato la propria arma per invitare il nemico ad avvicinarsi.
La tua mano tesa brillava come di luce propria, quella tarda sera del quattro giugno, a Karakura; un lampo di luce che nessuna saetta avrebbe potuto eguagliare né per potenza, né per lucentezza. Avrei voluto afferrarla, allontanarti da lì, proteggerti come tu, in quel momento, stavi facendo con me, ma il Bianco fu più rapido dei miei stessi pensieri.
Calò minaccioso e mortifero in tua direzione, fendendo l’aria con la stessa intensità con cui io avrei desiderato penetrargli il petto. Improvvisamente, compresi di odiarlo non tanto per avermi messo fuori gioco, quanto perché pronto a sfregiare te, a carbonizzare il tuo corpo, con quell’autodistruzione, a farti approdare al Rukongai prima del tempo e, magari, proprio grazie alla mia intercessione.
Non potevo permetterlo. Capii che sarebbe stato veramente facile riuscire a vederti, nella Soul Society, ma che non era ciò che sognavo; saperti morta per il resto del mondo, mentre io avrei potuto – con un po’ di fortuna – guardarti e parlarti di nuovo, in una dimensione sovrannaturale, mi pareva un atto di egoismo aberrante. Chi ero per privare la Terra di un cuore impavido? Ma, soprattutto, come sarei stato in grado di fregiarmi ancora del titolo di capitano, senza neppure tentare un’azione di salvataggio?
 
In un batter di ciglia, prima che il peggio potesse divenir realtà, volai in picchiata in tua direzione, frapponendomi alla forza d’urto che il suicidio dell’Hollow avrebbe immediatamente provocato.
Durò solo qualche secondo, ma il bruciore sulla pelle sembrava testimoniare un periodo di tempo molto più lungo.
Avrebbero potuto infliggermi una sofferenza mille volte maggiore, ma niente sarebbe stato in grado di oscurare la gioia avvertita nell’udire i tuoi passi raggiungermi.
«Tutto bene?!», chiedesti in un grido allarmato. Me lo ripetesti un’altra volta, prima che io rispondessi.
Provavo vergogna, sì, perché una semplice ragazza era riuscita ad affrontare un possente Hollow e a indurlo alla distruzione, ma non potevo comunque non essere lieto del mio incespicare, della mia improvvisa debolezza, quando tu, per medicarmi, mi adagiasti le mani sul viso, le braccia, la schiena e il torso.
Per un istante, quasi mi venne il dubbio che stessi ancora impugnando l’arco e fossi pronta a lanciarmi qualche dardo al torace. Dovetti controllare più volte le tue dita delicate per accertarmi che non intendessi uccidermi, e rendermi conto che quella che mi pungeva il petto era una freccia di ben altra entità.
Non conoscevo il tuo nome, chi fossi in realtà, né cosa diavolo ci facessi lì, ma qualcosa, dentro di me, già reputava la domanda che ti posi di scarsa rilevanza. Eri colei che mi aveva salvato e che io avrei protetto con tutte le mie forze, da lì in avanti.
«Ma chi sei, signorinella?».
Il tormento di un segreto pesante e antico quanto il mio; il conflitto di un cuore buono e sincero, crudelmente vincolato al voto del silenzio; l’avversione per la figura che incarnavo… Leggerti era così facile! Forse non avrei dovuto chiederti qualcosa di tanto diretto, ma desideravo davvero apprendere il tuo nome.
Ancora oggi, non posso che sorridere e ringraziarti per non avermi negato tale privilegio. Tu eri Masaki Kurosaki, prima che una Quincy, e lo sottolineasti subito con fierezza.
 
Appartenevamo a due fazioni contrapposte da secoli, pronte a darsi guerra da un momento all’altro. Quando un dio della morte decedeva, gli Echt e i Gemischt brindavano al suo sangue versato, ma tu, esponente del ramo più puro, eri stata pronta a sacrificare il tuo, per me. Poteva un gesto d’amore così gratuito, irrazionale e ammirevole cancellare un rancore millenario?
Perché quelli della tua stirpe non potevano essere tutti come te?
Gli stessi interrogativi serpeggiavano sul tuo volto, ma non oscurarono il sorriso con cui mi congedasti.
 
***
 
Brancolavo nel buio più pesto, incapace di capire se ancora fossi viva o meno. Ero in caduta libera, in un silenzio di tomba, e avvertivo il mio corpo nudo tagliare l’aria. Non avevo paura di schiantarmi rovinosamente al suolo, prima o poi, o di continuare a precipitare in eterno, perché qualcosa, dentro di me, mi ripeteva che presto sarei stata trovata.
Non sapevo se per merito di Ryuu-chan o di quel misterioso Shinigami cui, dal giorno dello scontro, non avevo più smesso di pensare, ma possedevo la certezza che sarei stata salvata.
Non percepivo lo scorrere del tempo, né il dolore che mi aveva fatto perdere i sensi a villa Ishida. Il mio petto sembrava intatto, sotto i polpastrelli: nessun buco, nessuna Blut Vene solcante la pelle, nessuna acuta sofferenza. Che stessi solo sognando, magari, in quell’oblio che mi aveva colta davanti a Ryuu-chan e sua madre?
Nel caso, avrei fatto bene a svegliarmi al più presto, perché dal nulla si palesò l’abbagliante bianco dell’Hollow affrontato il quattro giugno. La sua sagoma si stagliava prepotentemente, occupando buona parte della mia visuale; compresi che, paradossalmente, le tenebre di prima erano molto più confortanti.
Avvertivo il senso di paura scorrermi sottopelle, mescolandosi efficacemente al sangue. Se fosse davvero stata una fantasia notturna, a quel punto mi sarei sicuramente destata di soprassalto, proprio come da bambina, ma per quanto affondassi le unghie nel palmo della mano, non percepivo nulla.
In quel momento era come se fossi stata pura materia spirituale e, non disponendo del mio corpo, capii che non sarei più riuscita ad oppormi al mostro che ancora mi tormentava.
Lo vidi aprire le fauci, spostandosi velocemente verso di me, e tutto ciò che potei fare fu stringermi le mani sulle braccia, nel tentativo di chiudermi a guscio e difendermi.
Sarebbe stata quella, la mia fine? Sarei svanita nel nulla, senza scusarmi con le uniche persone care che mi rimanevano? Senza poter rivedere lo Shinigami di cui desideravo ancora conoscere il nome? Oh, l’avrei gridato con tutte le mie forze, e forse lui sarebbe giunto!
Prima di morire, non dovrebbe passarci davanti agli occhi un rapido filmato della nostra vita? Come mai, nel mio caso, tale retrospezione si era ridotta a una semplice diapositiva di quel ragazzo dalla shihakusho nera?
 
Perché, tutt’a un tratto, non riuscivo più a distinguere tra immaginazione e realtà?
 
Una presa salda e al contempo gentile mi cinse i fianchi, sottraendomi all’inflessibile forza di gravità. Era un tocco caldo, vivo, molto diverso da quello che avevo sperimentato io stessa, prima.
Se fossi stata più perspicace, sarebbe bastato quel dettaglio a confermare il mio dubbio su quanto lui fosse speciale.
Improvvisamente smisi di precipitare, grazie a quel fulcro comparso dal nulla. Intorno a noi, il nero e il bianco cessarono di vorticare, fissandosi in una sfumatura indistinta e totalmente irrilevante, se comparata all’intenso color carbone dei suoi capelli, al caldo castano delle iridi.
«Yo», mi disse, ampliando il suo sorriso. «Sono venuto a proteggerti».
Non sapevo se gli Shinigami fossero telepatici, ma non poteva essere altrimenti, perché pronunciò le esatte parole che desideravo udire.
Ricambiò la mia espressione di sorpresa e gratitudine con uno sguardo rincuorante, per poi rivolgerne uno feroce e senza diritto di replica alla mostruosa maschera bianca che ancora ci fissava.
Il cuore cominciò a palpitare forsennatamente, fra le costole, seppur fossi certa di non averlo percepito durante la lunga discesa in quel baratro. Non avevo idea di cosa fossi o stessi diventando, né ero del tutto certa di poter essere ancora definita una Quincy, ma niente mi diede più pensiero, da quel momento. Ryuu-chan e sua madre, forse, non mi avrebbero accolta con lo stesso animo benevolo di prima, ma ammirando la vigorosa figura del mio salvatore, avvertendo ancora un suo braccio sotto l’addome e osservando la forza che imprimeva tanto alle parole quanto ai suoi gesti, riuscii a sentirmi come a casa – per la prima volta in vita mia. Il mondo sarebbe pure potuto crollare in rovina, o io rimanere in quell’incubo per l’eternità, ma non mi sarei sottratta al destino, se esso avesse previsto la sua presenza al mio fianco. Fintanto che lui mi avesse cinta, guardata e sorriso, io sarei stata al sicuro.
Quasi non udii le minacce che la sua gola sbraitava in direzione del Bianco, presa com’ero a esaminare la sua mano – che stringeva l’impugnatura intrecciata di una splendida katana. Mi chiedevo se avrebbe aspettato un attacco del nemico, prima di colpirlo, ma l’attesa non nutrì alcun dubbio, in me: ero certa che avrebbe allontanato quell’ombra.
«Getsuga Tenshō!», ruggì, assestandogli un fendente in pieno volto. Bastò un solo colpo, preciso e potentissimo, per mandare in frantumi la maschera.
 
Tutto fu di nuovo silenzio e buio. La notte prima del giorno, l’oblio antecedente la conoscenza; a stringerci, un abbraccio di tenebra, ma io potevo avvertire unicamente la morsa del tuo, Isshin Shiba.
Da quel giorno non ti sottraesti a un solo gesto d’esuberanza, alla mia irruenza, alla vivace – e, certe volte, irritante – maniera di mostrare amore che mi apparteneva.
Ti dovevo la vita e mi sentivo in colpa per averti privato della tua natura ultraterrena, ma mai mi facesti pesare la cosa; sorridevi e mi piazzavi un affettuoso buffetto sulla guancia, costringendo alla fuga i miei rimorsi e preoccupazioni con spiegazioni poco convincenti riguardo la tua sbadataggine e il rigore del Gotei 13. Eri senza dubbio il buontempone più irriverente che si potesse incontrare – sia sulla Terra, sia nella Soul Society –, ma non ti avrebbero di sicuro dimesso bruscamente dal ruolo di capitano per qualche leggerezza. La causa della tua perdita di poteri ero io: una Quincy.
Avevi rinunciato a ogni cosa, per me, ecco la verità.
Inutile che ti ostinassi a inventare scuse e adducessi nuove ragioni che spiegassero il tuo non essere più uno Shinigami, perché non sapevi mentire, Isshin. Per quanto fossi arguto e intelligente, possedevi molto più cuore che cervello.
Il modo in cui chiudevi ogni dibattito, poi, mi faceva sorridere: Basta un solo fenomeno da baraccone, in famiglia, non trovi?. Come se non avessi capito che – fin dalla prima volta che lo dicesti –, piuttosto che alludere alla mia reale identità, tu ti fossi riferito sempre e comunque a te stesso.
 
Quasi senza che ce ne accorgessimo, diventammo molto più che una coppia. Osservando le mie amiche e i loro compagni, notavo che quel qualcosa che ci legava era diverso da ciò che loro vivevano. Ad unirli erano l’amore e la passione, sì, ma negli occhi dei giovani che stringevano le mani di Shiho e Kanan non c’era la stessa devozione che brillava nei tuoi, così come sulle labbra delle ragazze mancavano quel muto riconoscimento e desiderio di protezione che spero tu abbia potuto cogliere nei miei baci.
Non eravamo un duo, né una cosa sola; piuttosto, forse, un vasto insieme di variabili e giustapposizioni di elementi simili e diversi. Un infinito – molto limitato, certo, ma non per questo privo di sterminatezza.
 
Ad allietare i nostri giorni arrivarono prima Ichigo, poi Karin e Yuzu.
In ognuno di loro c’è una parte di te e di me, Isshin; una natura razionale, umana e spirituale, ma anche divina e, per questo, esposta a tanti percoli quanti quelli che può debellare.
 
Non ricordo di aver mai odiato l’essere una Quincy nella misura in cui lo detestai quel giorno. Nemmeno quando me lo chiedesti, anni prima, mi vergognai nel confessartelo, o provai un senso di rabbia e frustrazione nell’ammetterlo, quanto invece successe nel momento in cui Grand Fisher comparve davanti a me e Ichigo; avrei voluto essere una donna qualunque, fragile, indifesa e, di conseguenza, lontana dalle minacciose mire di entità superiori.
Pioveva, quel diciassette giugno, e tale dettaglio non fu irrilevante; un contatto tra terra e cielo, proprio come nel nostro primo incontro.
 
Tutto finì in fretta, senza quasi permettere a un solo tuono di far tremare l’aria. L’acqua continuava a scorrermi addosso, a infiltrarsi nella stoffa degli indumenti, a incollarmi i capelli al viso, ma non la sentivo più, ormai.
Era quello, il morire? Era così che ci si sentiva? Un nulla, una corporeità improvvisamente spezzata, una carcassa senza più battito?
La piccola mano d’Ichigo si fece spazio fra le mie dita irrigidite, riuscendo a raggiungere il palmo. Mi chiamava, ma non ero in grado di abbracciarlo, né potevo più rispondergli, a quel punto.
Ricorrendo alle estreme forze rimastemi, gli dedicai un ultimo sguardo, sorridendo. Era salvo, nonostante le lacrime; quelle salate ferite che gli irroravano il viso sarebbero subito guarite, con il primo, convincente raggio di sole.
Il mio bambino era al sicuro: perire non poteva essere più piacevole, significativo e onorevole di così.
 
Con la certezza che non vi avrei mai abbandonati, presi la mia strada, opposta al vostro naturale senso di marcia.
I passi mi conducevano lontano, ma il cuore era un motore fermo, in panne, su quella carreggiata che chiamavo “vita”.
I miei piedi, ancora oggi, sono altrove, mentre il pensiero è costantemente con voi.
 
Se ti dicessi che qui non piove mai, nemmeno quando il cielo è cupo e tutti si rifugiano sotto una tettoia, bagnati fino al midollo, mi crederesti?
Cammino incessantemente sotto il diluvio, a testa alta, con un sorriso. Che si scateni pure la tempesta del secolo: io non la temo! Le tue forti braccia sanno ancora difendermi dagli acquazzoni, ragazzo dalla shihakusho nera.
 
Un lampo, poi un tuono. Tutto tace, ma riesco a sentirti tremare persino da quassù.
Vorrei poterti salvare di nuovo, Isshin.
 
***
 
Un rombo, ed ecco che ciò che stavo compiendo perde subito importanza.
Cosa sono quelle scartoffie che tento ancora di leggere? Le analisi del sangue del signor Hubarashi possono attendere, quando sento la tua voce chiamarmi.
 
Sono un uomo maturo, con pesanti responsabilità sulle spalle, ma ancora dannatamente stupido e perso, senza di te. Certo, ho la tua eredità, amore mio: Ichigo, Yuzu e Karin; tuttavia, nei giorni di pioggia, non riesco a sorridere.
Ti chiedo di perdonarmi, Masaki, se anche oggi, davanti a questa tazza di tè, nel buio della cucina, mi prendo la testa fra le mani e non trattengo le lacrime.
Scusa per quelle che ho versato quando avrei dovuto essere forte e per quelle che ancora mi pizzicheranno le palpebre. Le spazzo prontamente via, accusandomi di essere diventato un vecchio piagnucolone; Ichigo non ha sempre tutti i torti, evidentemente.
«Mi hai voluto lasciare da solo a “godermi” la pubertà e gli sbalzi d’umore dei nostri tre marmocchi, eh?», bofonchio, osservando la sedia vuota che un tempo occupavi. Lo schermo nero della tv, alla prima illuminazione improvvisa di un lampo, mostra solo il mio sogghigno sghembo.
Alla fine scopro che non so davvero piangere, se penso al modo in cui mi sorridevi.
 
Dove sei, Masaki? Esiste un modo per tornare indietro? Oppure uno per andare avanti?
 
L’uomo che conoscevi se n’è andato con te; quello che sussiste è solo la sua caricatura forzata.
Ho paura delle perdite, della mia incapacità di salvare ogni vita umana che chiede aiuto, alla clinica. Temo le leggi dei mondi che ci governano, poiché lo fanno senza curarsi degli irrazionali odî che provocano fra fazioni che combattono contro lo stesso nemico. Pavento i rovesci, perché danno e tolgono con la stessa facilità con cui le gocce toccano terra.
È in un giorno di pioggia che mi hai salvato ed è in un giorno di pioggia che io non ho salvato te.
Eppure, nella mia ottusità, una cosa l’ho capita: non possiamo vincere le nostre angosce, se non tentiamo nemmeno di affrontarle.
Perciò, prendimi pure per pazzo, Masaki, e ridi di me, lassù, se ora esco e cammino sotto questo diluvio imperversante senza ombrello e impermeabile.
Posso cominciare ad amare ogni singolo ago che fende le nubi e scivola lungo il mio viso, baciando cicatrici tanto profonde da non comparire sulla pelle, se questo è un modo per ritrovarti.
 
 
 
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Note dell’autrice

 
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Il titolo richiama il genere delle sinfonie per archi, delle composizioni musicali che oscillano tra l’allegro e il grave con un andamento non sempre prevedibile; un po’ come l’amore tra Isshin e Masaki, forse, perché vivace come pochi, ma incredibilmente tragico, nonostante la gioia di vivere che caratterizza, nel manga, i due protagonisti.
 
I dialoghi relativi ai salvataggi dello Shinigami e della Quincy – sia a Karakura, sia nella dimensione “extra-corporea” – sono tratti dal volume 60, “Everything but the rain”, edito in Italia da Planet Manga della Panini Comics.
 
I nomi delle due amiche di Masaki, Shiho e Kanan, sono anch’essi ripresi da quel tankōbon, in cui si trova un bozzetto di Kubo che presenta le ragazze con tali appellativi.
   
 
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