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Autore: Gatto Magro    27/07/2014    1 recensioni
Capitano. Grotta. Cera.
E tutto quello che avrò la malaugurata idea di scrivere, finché alla TV non fanno qualcosa di bello.
1. Ossequi, Capitano.
2. Ave Icarus.
3. All I wanna do is (bang-bang).
4. Sunday mo(u)rning.
5. Le Porte Spettrali.
6. Caro Bellamy,
7. I tuoi 23 anni, I miei 26 anni.
8. duemilasette – duemilatredici
9. Scritto sul muro con l'eyeliner.
10. "It's like being at Disneyland. On acid."
11. We go where we know. (RIPUBBLICATA "Ma le fragole hanno fatto la muffa.")
12. Come le patatine fritte (è sempre un buon momento per una torta al cioccolato).
13. Prima che fossimo come le patatine fritte: insanguinati sul pavimento. (A raccontarci bugie.)
14. Then the night fell on us.
15. The Queen is dead.
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Nonsense, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le vicende Ciglia Finte e altre cose di Superficie. '
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You’ll be heard.
 
From dawn;
 
Dioniso si svegliava presto per andare a dire agli uccelli di cantare per me. Era bello, in mezzo alle ombre bluastre che gli alberi gettavano sul prato; ma lui sarebbe stato bello ovunque, mi correggevo mentalmente, e con un solo occhio aperto lo spiavo mentre sorrideva alle foglie e alle stelle che lasciavano il cielo, prima dell’alba.
(Non gli diceva nessuno che il sole era già sorto, nel suo occhio destro. Il sinistro, l’occupava la luna piena con le sue crepe e la sua luce sottile, accurata nel fendere il buio. Così il mio amore aveva l’oro e l’argento negli occhi, custoditi dalle ciglia scure su cui soffiavo dolcemente, le notti d’estate. Anche le cicale si rassegnarono presto al fatto che lui non avrebbe mai creduto di essere un miracolo.)
 
Intanto il nuovo giorno si addensava dietro il sipario di nubi e bruma mattutina, scesa a sciacquare di fresco il volto dei boschi. I fianchi delle montagne parevano fremere all’unisono, delicati, come a scrollarsi di dosso il sonno più profondo.
Lui entrava dalla finestra e tornava ad abbracciarmi, già profumato di sole: era l’anticipo della meraviglia, quel calore rubato al sole che stava per sorgere. Non stava troppo attento a nasconderlo, così riaffiorava sulla pelle delle sue mani, sul rilievo delle nocche e sulle guance. A volte le nuvole tuonavano sommessamente un rimprovero, e gli spruzzavano le ginocchia di pioggia fredda mentre correva da me.
 
 
In memoria degli indirizzi andati a male,
delle antiche cicatrici maledette,
dei desideri che intrecciavamo ai rami degli alberi e ai cavi telefonici.
 
 
Dioniso dai due cuori.
Il primo, di porcellana finissima e traslucida, cosparsa di vene rosa pallido e scheggiature dalla forma di mandorle – gli era caduto più volte di mano, mi raccontava di malavoglia, rigirandoselo fra i palmi rovinati soltanto per il tempo di donare un po’ di calore alla sagoma consumata. Io sospettavo che se lo fosse fatto scivolare di proposito, come un gioco o una sorda pulsione rabbiosa.
Un cuore di porcellana non è affare da poco, dopotutto.
Lo teneva rinchiuso a Castletown, dietro un pannello di legno del salotto da lettura – una stanza identica a tutte le altre sedici che occupavano quel piano: un vasto caminetto di pietra circondato da una manciata di poltrone scorticate disposte a semicerchio, come un anfiteatro stretto attorno allo spettacolo del fuoco scoppiettante, bassi mobiletti dove sonnecchiavano libri impilati senza un qualsiasi criterio, dipinti privi di firma appoggiati al battiscopa, perché dopo certi fatti i chiodi erano diventati illegali, tende di seta verde chiaro ad incorniciare ampie finestre dalla vernice scrostata, come quelle di una casa in riva al mare. Castletown era in riva al niente, circondata dai boschi e occupata unicamente da anime di passaggio, scoiattoli e gatti sempre più grassi, oltre al colto Spirito Fiacco e al fantasma della Dama d’Ottone, con la quale Dioniso andava d’accordo soltanto quando si trattava di fare nuovi acquisti per la cantina. E per quanto riguarda il resto sarebbe un’altra storia, ma visto che si avvicina la mezzanotte potrei andare avanti ancora un pochino.
Lo Spirito Fiacco era stato evocato dal proprietario di Castletown come maggiordomo e guardiacaccia ai tempi in cui lo si poteva ancora convincere ad indossare la livrea e a chiedere cortesemente “Allora, desidera per colazione?”. Tempi i quali, a dirla tutta, erano durati ben poco; il proprietario aveva presto perso la pazienza e finito col stracciare il contratto firmato dallo Spirito con tre gocce di Stige e un spolverata di salzucchero.
Lo Spirito Fiacco venne messo alla porta, insieme a una o due misere valigette e una cappelliera d’ebano, ma non andò poi molto lontano.
Mentre attraversava il bosco per raggiungere qualche altra cittadina confinante con Castletown – “Verso sud, se vai abbastanza spedito, raggiungi Stonegrace in due giorni e quattro balzi”, mi assicurò un giorno – ebbe un diverbio con un’orrida Strega Brancolante che, per vendicarsi di chissà quale sgarbo, gli appioppò un incantesimo del sonno che lo lasciò addormentato ai piedi di una betulla per quasi tre secoli.
Fu il rumore dei nostri passi a svegliarlo, e insistette per accompagnarci a Castletown come guida, dato che la conosceva meglio delle proprie tasche bucate. La verità è che lo Spirito Fiacco aveva appreso dai suoi sogni eterni la nostalgia.
 
 
Ora non ho tempo, davvero, di raccontarvi. Sento il mio amore avvicinarsi con la marea più fredda della notte, con il sorriso sporco di dentifricio e gli occhi lucidi di incubi maestosi.
 
(Dioniso aveva i denti d’avorio, come i coltelli degli dei. Come le carezze del peccato dalle mani brunite di sangue, quello che mi assaliva di notte, quando mi convincevo di essere terribilmente sola, sola in tutto l’universo.)
 
Del suo secondo cuore, Dioniso mi ha soltanto raccontato di come l’abbia sentito iniziare la propria melodia, lento e bollente, il primo giorno della sua esistenza.
Era carne e sangue, come il mio.
Provavo oscure angosce, circa quel suo cuore morbido e votato alla morte; le macchine organiche finiscono presto per maturare complicanze, e gli ingranaggi sfiatano e i tessuti cedono, gonfi di anni e di una stanchezza fatale. Mi chiedevo come non avessero potuto prevederlo, Semele e tutti gli altri. Se almeno uno di loro non avesse saputo evitarlo, quel cuore di carne.
Dopotutto, usavano gettare dal cielo oggetti più sacri.
Dissero che si vide l’accondiscendenza brillare fioca negli occhi viola di sua madre, e il calice catturare un riflesso, quando lo sollevò in un gesto che sembrava un po’ un omaggio, un po’ una giustificazione. L’altra mano teneva la veste accostata al ventre gonfio, e non so perché ogni dettaglio mi suggerisce che Semele avesse già voglia di morire per lui.
Venne esaudita troppo presto, durante una tempesta di fulmini.
 
 
 
Oh baby, baby it’s a wild world.

 
Era proprio come l’avevo sempre aspettato: alto, malizioso e selvatico.
In piedi dentro una pozzanghera – aveva piovuto per giorni e le sue scarpe scomparivano per metà in quell’acqua torbida e fangosa, ma lui era perfettamente a suo agio – studiava i buchetti sparsi per la mia maglietta bianca, i jeans di mio padre tagliati sulle cosce, i miei piedi scalzi appoggiati sul palo della staccionata, tiepido per il calore assorbito durante mattinata. Avevo delle margherite negli spazi fra le dita e fiordalisi dietro le orecchie.
- Ariadne Blake? – mi chiamò, sorridendo a mezza bocca. – Sei in ritardo. Adesso offrimi una sigaretta.
- In ritardo per che cosa? – ribattei, senza muovere un muscolo. Potevo sentire distintamente lo sguardo di mio padre incollarmisi alla nuca, e nella mia mente vedevo la sua ombra chinarsi verso una fessura fra le tende della cucina per catturare la figura del ragazzo che mi stava di fronte, e che aveva fatto un passo in avanti. Le sue labbra tremavano, come se facesse uno sforzo per impedire al sorriso di completarsi.
- Per me.
 
Remember when you lost your shit
and drove your car into the garden
and you got out and say “I’m sorry”
to the vines, and no one saw it.
I need my girl,
I need my girl.
 
Le prime volte, quando mi veniva voglia di baciarlo, diventavo scontrosa.
- Ho un fidanzato – si difendeva la mia bocca.
Dioniso si avvicinava ancora di più. Sudore lungo la schiena, vertebre infuocate e senza riparo, la campagna bruciava.
- L’ho ucciso, Ariadne. E quando è tornato, l’ho fatto diventare pazzo. Adesso crede di essere un castello incantato, ma tu devi stargli lontana.
- Mio padre non vuole che io ti veda.
- Allora ti porto via con me.
Bugie, inganni, corse e scorciatoie, inviti di cartapesta e promesse da marinaio: Dioniso sopportava la compagnia, o anche la semplice, ingenua presenza umana, entro limiti in cui io non risultavo catalogata. Succedeva spesso che mi prendesse la mano e la tirasse con impazienza, implorandomi di lasciare subito una festa, la casa di amici o soltanto un mercato affollato; i suoi occhi di sole e di luna vagavano persi, setacciando l’ambiente alla ricerca della via di fuga più rapida. Scuri e dalle pupille dilatate, come quelle degli animali in trappola.
Dioniso era troppo vivo per stare tra i vivi, e la sua insofferenza divenne anche la mia: nascondeva le lettere di mia madre e delle mie sorelle, e stavo attenta a cercarle solo quando lui non c’era.
Diventammo solitari, due presenze fuse in una che spuntavano come fuochi fatui in un luogo, per poi svanire e ricomparire in un altro, più remoto, prima che il tempo facesse dimenticare di noi.
Il corteo di uomini dalle facce dipinte con il gesso che lo seguiva ovunque sparì senza lasciare traccia, nemmeno una scia di polvere bianca sul pavimento, o il segno di quei coltelli ricurvi sul suo corpo. Qualcuno deve avermi detto che partirono per New York e lì giurarono fedeltà ad un’organizzazione mafiosa di cui non ricordo il nome.
Le Menadi cambiarono gusti musicali, alcune misero su famiglia e organizzarono feste riservate e alla moda, dove il vino bianco veniva servito su calici di vetro e nessuno faceva l’amore sul pavimento.
Il mio amore indossava una maschera per rovinare i loro cieli tersi, commissionati in anticipo per le vacanze al mare con i mariti sovrappeso e uno o due bambini apatici bianchi come la panna. Mi lasciava nascosta tra le conchiglie e andava a soffiare fiammelle gelide sulle acconciature fissate dalla lacca.
E le alte urla che lanciavano, dimenando le braccia come pazze, ci facevano ridere con la tristezza nel cuore.
 
 
 
Till dusk.
 
I asked Saint Christopher to find your sister
And she ran out in the woods
And we where tryin’ to stop the winter
Killing all it could
 
Dioniso, chi ce l’ha fatto fare di ammucchiare parole per sopravvivere?
Passare il Natale sui marciapiedi di Mosca, Inverness, Orleans, con una coperta e pacchetti di cibo fumante e sigarette lunghe, la sua chitarra acustica e le mie mani a inseguire i racconti fatati che Dioniso sapeva a memoria; amava ripeterli per sentirli lui stesso, come un bambino chiede milioni di volte le stesse fiabe alla madre.
Le guance morse dal freddo, ancora più rosse sotto la luce morbida dei lampioni, che prendeva il posto del sole al tramonto. La tua voce scaldava fin dentro il sangue, amore mio. Rubava aria al mondo per costruirsi un corpo, e si faceva respirare da tutte quelle persone ingobbite dai cappotti pesanti, spingendosi fino ai muscoli e al midollo.
Se nasceva un sorriso o una risata immotivata, pioveva ai nostri piedi qualche centesimo.
Salire sul tram con la felicità nel petto, era gratis.
 
I visionari confonderanno il mio umido dio con i cieli azzurri, i fiori di campo, il profumo del legno e le emozioni inzuppate di rosso, ma lui era anche la marea e la furia omicida, il serpente che mi chiamava veleno, il lato oscuro del paradiso, il rancore dei santi incoronati di spine, la luce dietro gli occhi gialli degli angeli, il fango sulla riva dei fiumi, il sangue degli alberi e il portale verso i mondi immaginari. E nei mesi freddi s’inventava di fare il cantastorie, ritrovando la vita nell’adorazione di cui si trovava circondato – perché ogni cosa lo ascoltava, ogni cosa tremava svegliandosi dalla fitta rete della materia e danzava nel grandioso cerchio di fuoco proiettato dal suo canto in ogni mente, luce pura stagliata contro la notte.
E io, né più né meno di loro, in eterno, lo amavo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le canzoni: Wild World – Cat Stevens; I need my girl – The National; The Woods – Daughter.
P.S. Gatto Magro approda su Facebook, perché le battaglie su Spotify con l’amico di cui sfruttava l’account erano diventate frustranti. Se volete, la trovate lì.
   
 
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