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Autore: Bess Black    27/07/2014    9 recensioni
Nathalie, alla sola età di diciassette anni, si trova in un carcere minorile ad alta sicurezza e da più di un anno ormai.
Insieme ad alcune compagne di cella ed alcuni amici tenterà un evasione, ma è impossibile superare FBI, Militari, CIA e Servizi Segreti.
Ed è qui che iniziano i sospetti: telecamere di sorveglianza ad orario continuato, pasti selettivi, controlli rigidi, divieto di ogni comunicazione con l'esterno.
Dal testo:
«Non ci pensare nemmeno.» Mi minaccia il Militare Black secco, alle mie spalle.
Non mi volto, ma non torno nemmeno indietro.
«D'accordo.» Soffia irritato, esattamente dietro di me. «Mettiamola così, bellezza.»
Odo qualche colpo duro, rigido e metallico, fino a quando non sento la canna fredda di una pistola tra le scapole.
Trattengo il respiro e inarco la schiena, involontariamente.
«Tu scappi, io sparo.»
Genere: Azione, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Capitolo III
 
 
 
   È Lily a svegliarmi, la mattina dopo.
Canticchia.
  In un certo senso è come se stessi aspettando che lo facesse, come se quel motivetto mimato fosse uno stimolo che innesca una serie di reazioni a cascata – dalle orbite che si muovono sotto le palpebre fino alla percezione di freddo ai piedi – che mi portano alla piena coscienza; o probabilmente sono solo la scusa definitiva per svegliarmi. Quando apro gli occhi, riesco ad adattare lo sguardo alla luce più prontamente del solito, riesco ad avere subito una visione panoramica della stanza e di possibili movimenti all'interno di essa, ma non intenzionalmente.
Lily è inginocchiata vicino al mio letto e sta fischiettando ora – mi soffia sul collo – e aspetta che il Rilevatore Omeostatico azzeri la gravità e mi permetta di alzarmi.
   Nella testiera di ogni letto c'è uno schermo che rileva frequenza cardio-polmonare, temperatura corporea, concentrazione idro-salina, secrezione ghiandolare, peso e massa: se questi fattori non sono nella media ed equilibrati tra loro, viene attivata una forza di gravità reattiva che non ci permette di alzarci.
Ed io non riesco ad alzarmi.
   Lily deve averlo capito, credo. Canta sempre quando è nervosa, o quando lo è qualcun'altro. È il suo unico modo di esprimersi perché non è in grado di parlare. All'inizio pensavo fosse timida, poi ho creduto che non conoscesse la lingua, ma non appena mi sono resa conto dei suoi impedimenti anche solo a comprendere i segni, ho capito che aveva difficoltà a livello della comunicazione in tutti i suoi aspetti. In realtà nemmeno le sue canzoncine mimate hanno senso un preciso, ma riescono a concretizzare concetti semplici che partono da un bisogno ed arrivano ad un preciso obiettivo primario, a volte secondario; me l'ha detto Dalton. In questo momento fischietta: il suo obiettivo è aiutarmi ad alzarmi e nasce dal bisogno di mangiare poiché più tempo impiego per avere il Consenso Omeostatico, più ritarderà il trasporto verso il Refettorio e, quindi, la colazione.
   La divisa che indosso è pulita, lo sento dall'odore di sapone e neutralizzante; un odore fastidioso, ma abbastanza affievolito. Per calmarmi cerco di ricordare quando l'ho indossata perché l’intensità degli odori che traspira non è fresca, ma non riesco a spingermi al di là dei ricordi che vanno oltre l'inizio del sonno o prima del risveglio. Dalton mi ha consigliato di tornare sui miei passi quando sono agitata, non ricordo quando l'ha detto, ma mi ha confidato che ripetersi perché è qui e come ci è arrivato lo aiuta, lo rende cosciente; vivere divisi dalla realtà esterna è asfissiante in verità, a volte sembra di non fare nemmeno parte di questo mondo, di essere capitati casualmente in un posto estraneo, dove tutto è estraneo, le persone sono estranee e non si è semplicemente soli, ma naufraghi nel proprio io. Ci sono momenti - momenti come questo, in cui tremo, non riesco a pensare a quello a cui ho bisogno veramente di pensare e posso solo chiedermi perché non ci riesco - in cui mi sembrano tutti estranei, qua dentro, tutti sconosciuti, tutti anonimi, tutti separati, da me e tra loro; tutti soli, tutti vittime, tutti criminali.
   Una volta, Hugo mi ha detto che non riesce a stare al passo dei ritmi imposti qua dentro, che gli sembra di correre continuamente per acchiappare qualcosa e nello stesso tempo per scappare da qualcosa, mi ha detto che, come me, fatica persino a pensare - come se fosse distratto -, che a volte gli sembra che non sia una semplice reclusione, ma una punizione; lo ha sussurrato e non ha aggiunto altro. È stata l'unica volta che ho pianto da quando sono qui.
   «Puoi alzarti, ora.»
Black ha tolto il Campo di Forza e ora sigla i Codici d'Apertura; le sbarre iniziano a scorrere ed a retrocedere all'interno della parete.
   La gravità si è azzerata in seguito al Consenso Omeostatico e nemmeno me ne sono accorta. Scatto in piedi e non riesco ad impedirmi di saltare sul posto perché mi sento insolitamente leggera ed energica, come se avessi un accumulo d’adrenalina in eccesso.
Lily ride nascondendosi la bocca larga tra le mani; la divisa bianca, dalla quale sporgono le sue gambe scarne e gracili, le sta stretta sulla pancia gonfia e crea un contrasto discorde con la sua pelle nera. Rido un po' anche io per non lasciare trasparire troppo il disagio che ha creato l'insensatezza delle sue risa.
   Mentre la Guardia codifica il Riconoscimento dai Bracciali di Distinzione di Alicia e Lily, io ne approfitto per lavarmi.
Non c’è alcuna porta a dividere il bagno perciò mi illudo di avere un minimo di privacy, mettendomi di spalle davanti allo specchio. Mi sciacquo il viso più e più volte; mi ci vuole un po’ di tempo per riappropriarmi dei ricordi e ancor di più per collegarli: ultimamente devo concentrarmi per pensare, mi devo sforzare all’interno di ciò che è mio, mi sembra di dover abbattere delle mura per poter accedere alla memoria e doverne abbattere altre cento per poter agire su di essa, come se fossi violata da altri pensieri – futili, informi, insensati – che tentano di allontanarmi dai pensieri che cerco – indispensabili, definiti, coerenti. Sento che sto lottando per controllarmi, sto lottando dentro di me: sto combattendo nel mio stesso territorio.
 
 
   «Nath, posso avere il tuo latte? Non mi va il succo.»
   No che non può, diamine. È mio, lo voglio io. «Certo, prendilo pure.» Sbotto col tono più disinteressato che mi riesce.
   L’assegnazione dei posti al Refettorio continua a seguire una logica tutta sua: sono in tavola con Emma e Noah, un ragazzo della Seconda Cella Maschile; avrò rivolto loro la parola due o tre volte, non di più.
   «Quindi, ve ne state occupando voi?» Mi chiede Emma, mentre sorseggia il mio latte.
   Tossicchio prima di risponderle, mi schiarisco la voce. «Hugo e Dalton se ne stanno occupando, sì.» Sussurro nella speranza che abbassi la voce anche lei.
   «E tu sei con loro? Voglio dire, ti fidi?» Domanda esitante, guardandomi.
Forse è un pregiudizio ingenuo da parte mia, ma mi sembra che Emma abbia una prospettiva piuttosto fiabesca della realtà; non che sia stupida o sventata – ne è una prova la sua esitazione nei confronti del piano di fuga – però il fatto che lo chieda a me, che si aspetti una conferma, presupponendo che io abbia le idee chiare e che sia pronta a condividerle con lei, quando in realtà a malapena ci conosciamo, francamente mi mette a disagio. Vorrei essere sincera e condividere con lei ciò che solitamente due ragazze confidano tra loro, quando vogliono fare amicizia; vorrei essere onesta nei suoi confronti e confessarle tutto il disagio, i dubbi, i sospetti che mi vorticano dentro, ma Emma, seppur meriti sincerità, non è ciò che vuole: cerca sicurezza e qualcuno a cui appoggiarsi. Io però non voglio che si fidi di me, non sono in grado di reggere il peso della sua fiducia.
   Deglutisco e sostengo il suo sguardo. «Dalton sa il fatto suo.» Non sono né schietta né disonesta, essere generica mi permette di non mentire.
   Emma annuisce, rinfrancata. «Sì, hai ragione.» Mi sorride. «Dalton è un bravo ragazzo.» Mi ruba un biscotto dal vassoio e riprende a mangiare come se nulla fosse.
Incrocio lo sguardo di Noah che ci ascoltava, astenendosi dall’intervenire: si è limitato ad osservare. Lo capisco dalle sue occhiaie e dal suo pallore – innaturale sulla sua pelle mulatta – che non sono l’unica ad avere dei tormenti.
   «Mmh… Noah, i tuoi biscotti sono diversi dai nostri… È marmellata quella?» Emma si sporge sul tavolo, mordicchiandosi le labbra. «Dici che li posso assaggiare?»
Lui inarca le sopracciglia e mi getta un’altra occhiata: scoppiamo a ridere nello stesso tempo. È strano avere una così immediata intesa con qualcuno che non si conosce bene.
   Emma ci guarda offesa. «Hey!» Le scappa un sorriso. «Non è colpa mia se nei vostri vassoi il cibo è più buono.»
   «Certo.» Noah sghignazza e annuisce, poi le passa il piattino coi biscotti. «Tutto tuo, signorina.»
  In realtà è severamente proibito lo scambio di cibo, ma è Matt a vigilare sul nostro tavolo e quando si tratta della sua Emma sa essere tollerante, come mai è stato prima. Ogni tanto la invidio: vorrei essere anche io in un qualche modo protetta da qualcuno che, seppur nei limiti, è in grado di farlo; quando però devo impegnarmi per far finta di non aver notato le occhiate nostalgiche che si scambiano lei e Matt, mi ripeto che non c’è assolutamente nulla da invidiarle.
   «Pss, Aaron!» Approfitto della tolleranza del militare che ridacchia distratto guardando Emma mangiare.
   «Nath!» Si volta e sorride dal tavolo adiacente, e per un momento capisco cosa intende Hugo quando gli dice che ha una faccia da schiaffi.
   «Mi chiami Dalton?» Gli mimo cercando di non attirare l’attenzione delle Guardie.
   «Come?» Domanda lui, piegando il capo di lato. «Mai coccolare una lampada al neon?»
   Mi tiro uno schiaffo in fronte da sola, lo schiaffo che avrei voluto dare ad Aaron. «No! Ti ho chiesto di chiamare Dalton, è nel tavolo in fondo!» Mimo il più lentamente possibile, in modo che possa capirmi.
   «Ci sono i custodi del mondo? E hanno un problema coi miei nei?»  Mi guarda oltraggiato.
Sento Noah soffocare nel peggiore dei modi una risata che altrimenti avrebbe attirato l’attenzione di tutti i tavoli e reso vani i miei sussurri e le mie – a quanto pare, disastrose – abilità mimiche.
Hugo è nello stesso tavolo di Dalton e sono entrambi dall’altra parte del Refettorio. Sospiro, ignorando Aaron e il fatto che stia aspettando che gli dia delle ulteriori spiegazioni; gli do le spalle e torno a guardare Emma mangiare.
   Inaspettatamente, mi rendo conto che Matt si è avvicinato e che sta aspettando il Consenso dell’Identificatore per sigillare i vassoi e permetterci così di alzarci. Mi assicuro di aver mangiato più o meno tutte le porzioni selezionate nel mio vassoio – o almeno quelle che mi ha lasciato Emma –, prima di accorgermi che Matt in realtà non sta per niente controllando l’Identificatore. Mi sposto un poco con la sedia e noto la sua mano sinistra concatenata tra quelle della rossa, sotto il tavolo: la pelle scura di lui che si fonde in quella chiara di lei.
Incrocio le braccia sopra il tavolo e mi ci appoggio, guardandolo chinarsi su di lei, mentre finge di digitare qualcosa sullo schermo tattile del tavolo e di controllare la calibrazione dei vassoi prima e dopo la consumazione dei pasti. Le sussurra qualcosa all’orecchio: lo vedo assumere un’espressione buffa, prima che Emma ridacchi sotto di lui con una vivacità sentita e voluta; Matt dissimula un sorriso soddisfatto e si china su di lei ancor di più: credo che stia annusando i capelli. Lei respira a fondo e non capisco se è il fervore del momento oppure un sospiro. Vorrei sentire che cosa le sta dicendo.
 
   «Spostati.»
Sobbalziamo tutti e tre: io – nel mio angolo del tavolo triangolare –, Matt ed Emma tra le sue braccia; Noah si guarda intorno, attento.
Rivolgo a Black lo stesso sguardo che rivolgerei ad un moccioso capriccioso che, giochicchiando coi cavi, ha tirato quello del televisore, spegnendolo e impedendomi di vedere la scena più bella di un film.
   «C’è Russell. È passato per l’ennesimo controllo.» Tuona, irritato. «Vai a siglare il terzo tavolo, la Chung ti sostituisce qui.»
Matt sospira tra i capelli di Emma, ma si allontana subito dopo con l’Identificatore in mano verso il tavolo vicino all’entrata.
  Christopher Russell è un agente della CIA, decisamente molto più rigido dell’agente FBI  Keira Chung: entrambi sono supervisori e responsabili, ma i loro interventi diretti sono occasionali. So che si rispettano a vicenda, ma so anche che la Chung è sempre stata un poco diffidente ed allerta quando c’è Russell in giro. Ed ultimamente Russell è sempre in giro.
   «C’è qualcosa che non va.» Sento Noah bisbigliare.
Lo guardo: è la stessa frase che mi sono ripetuta tutto ieri e che non smetto di ripetermi inconsciamente tutt’ora.
   Keira Chung, nella sua divisa blu notte dell’FBI, si avvicina un poco inquieta, ma decisamente volitiva e risoluta; ci mette pochissimo a sigillare il nostro tavolo e ad ammanettarci, tanto che siamo i primi ad uscire dal Refettorio.
   Quando sbocchiamo sul corridoio, mentre la Chung convalida l’apertura del vetro rinforzato, mi avvicino a Noah.
   «A cosa ti riferivi?» Domando, cercando di sembrare abbastanza vaga.
   Mi guarda, aspettando che mi spieghi.
   «C’è qualcosa che non va.» Ripeto le sue stesse parole, le mie stesse parole. «Lo hai detto tu prima.»
Emma si avvicina e alterna lo sguardo tra me e lui, interrogativa. La Chung sblocca i cancelli del corridoio: sento le serrature scattare.
   Sto al passo di Noah ed insisto. «Che cosa intendevi, di preciso?»
   Si ferma e lo vedo trattenere il respiro, irrisoluto. «Nathalie.» Non credevo sapesse il mio nome.
   «Sì?» Lo incito ansiosa, quando noto che la Chung ha finito la codificazione dei cancelli. «Dimmi.» Mi ostino a estorcergli quello che ha da dire.
La Chung ci richiama a gran voce, stizzita – quasi adirata, mentre s’incammina torva verso di noi.
   Si allontana un poco e lo sento sussurrare. «Niente. Hai le ciglia scure, però.»
   Rimango seria per un po’, giusto qualche secondo, prima di sentire la risata di Emma ed uscirmene con un irritato: «E questo che c’entra?»
Probabilmente è stata una copertura dell’ultimo momento, visto che l’agente FBI era a pochi passi da noi, ormai a portata d’orecchio; oppure, solo un modo raffinato – irritante ed irritato – per invitarmi a farmi gli affari miei.
   «Camminate in fretta.» La Chung ci spinge, quasi. «In fretta.» Ripete sbrigativa, aprendo l’ultimo cancello. «Voglio assoluta disciplina. Un’Ora della Tregua assolutamente pulita.» Ci toglie le manette, senza perdere il suo cipiglio minaccioso.
Noi entriamo in biblioteca. Lei rimane fuori ad aspettare gli altri.
 
   Abbiamo tre pause al giorno che prendono il nome di Ora della Tregua: il diritto di circolare liberamente – a distanza media dalla Sorveglianza e senza manette – in biblioteca oppure in palestra.
   Non faccio in tempo nemmeno a guardarmi intorno ed elaborare una strategia per far parlare Noah che Hugo compare all’improvviso alle mie spalle, mi prende per il braccio – facendo un sorrisino innocuo in direzione del cipiglio turbato di Emma – e ci allontaniamo.
   Sentiamo Aaron alle nostre spalle lamentarsi di non aver finito di mangiare. «… Al di là del fatto che ho ancora fame.» Distinguo la sua voce, tra quelle degli altri che stanno entrando ora in biblioteca. «… Così sprecano cibo! Io voglio solo il mio panino con formaggio e marmellata. Datemelo e nessuno si farà male.»
   Io e Hugo c’infiliamo nella sezione di romanzi in lingua originale, dietro lo scaffale della letteratura del Settecento. Aspettiamo guardinghi che Aaron ci raggiunga, ma quando – sentendo a distanza le sue lamentele – ci rendiamo conto che ne ha ancora per molto, Hugo decide d’intervenire.
   «Tu stai qui.» Mi dice, sospirando. «Lo vado a prendere.»
   Annuisco. «Chiama anche Dalton!» Lo raccomando.
Mi siedo per terra e incrocio le gambe, poggiando la schiena sullo scaffale adiacente. Dopo un po’, prendo in mano un libro a caso ed inizio a sfogliarlo; quando però mi rendo conto che è in giapponese, lo metto subito via onde evitare figuracce. Ne cerco un altro comprensibile tra gli scaffali in basso, finché non lo trovo: una raccolta di poesie di un certo Tredjakovskij.
   Mentre ne leggiucchio qualcuna, sento la voce di Aaron interrompersi bruscamente e – anche se non posso vederli, rintanata qui – riesco ad immaginarmi a distanza Hugo tirargli un ceffone e trascinarlo via, mentre si lamenta.
   «Nathalie.» Una voce alle mie spalle.
   Mi volto e sorrido. «Dalton.»
Gli faccio spazio accanto a me.
   «Ti dico che non puoi litigare con un’agente FBI per un panino al formaggio, idiota!» Hugo spunta da dietro il ripiano, col volto rosso.
   «Certo che no.» Concorda ragionevolmente l’altro. «C’era anche della marmellata.»
  Dalton li ignora, come ormai si è saggiamente assuefatto a fare, e mi prende dalle mani la raccolta di poesie; scorre le prime pagine corrucciato e poi mi guarda interrogativo.
   Scrollo le spalle. «Non riesco a concentrarmi, ultimamente.» Abbasso la voce. «Forse leggere mi aiuterà a riordinare i pensieri.»
   Mi guarda confuso e decisamente turbato. «Leggendo in una…»
   Hugo lo interrompe, sedendosi davanti a noi. «Comunque abbiamo il piano!» Si lascia sfuggire un piccolo ghigno, mentre lo annuncia.
   Aaron si siede vicino a lui e lo spintona; Hugo risponde con una gomitata ben assestata, superficialmente. «Dalton ha detto che possiamo controllare se la piantina corrisponde all’edificio.» Riprende tranquillamente, parando la gomitata che Aaron tenta di tirargli facendo finta di stiracchiarsi. «Infermeria, Refettorio e…»
   «Cella di Detenzione.» Completa Dalton, al mio fianco. Si rigira ancora tra le mani il libro che avevo, credevo non stesse ascoltando. «A grandi linee pare che il Refettorio vada bene, ma sono decisamente molto più affidabili gli angoli, in questo caso.» Esplica, guardando il numero di pagine della raccolta di poesie di Tredjakovskij.
   Hugo annuisce. «L’idea è questa: io ed Aaron facciamo a botte, io gli spacco la faccia, lui finisce in infermeria, io nella Cella di Detenzione; tu e Dalton-»
   Aaron lo interrompe, guardandolo con le sopracciglia corrucciate. «Perché non posso spaccartela io, la faccia?»
   Hugo digrigna i denti: odia essere interrotto. «Perché non sarebbe credibile.» Gli sorride, lezioso.
  «No.» Interviene Dalton, prima che possano approfondire ulteriormente la discussione. «Devo esserci io, nella Cella di Detenzione. Devo controllare personalmente.» Alza finalmente lo sguardo dal libro. «In infermeria voglio Nathalie.»
   Chino il capo di lato. «Cosa dovrei fare io?»
   «Ti dirò perfettamente che cosa devi controllare.» Promette, guardandomi. «Ma non si tratta solo di controllare il perimetro…»
   «Oh, già.» Salta su Hugo, un poco a disagio.  «Ci servono un altro paio di cosette.»
   «Perché state creando suspense?» Sbotta Aaron, irritato. Lo ringrazio con un sguardo complice.
  «D’accordo. Io e Dalton ci occupiamo della Cella di Detenzione.» Riassume Hugo, fermo. «Tu e Nathalie dell’infermeria: tu crei un diversivo che basti ad attirare l’attenzione delle telecamere e dell’infermiera; Nathalie controlla gli angoli, ruba la morfina e tutto il disinfettante che riesce a…»
   «Aspetta, aspetta, aspetta…» Lo fermo. Mi volto col busto e lo guardo. «Che cosa?»
   Hugo scrolla le spalle ed alza le mani in segno di resa. «Indicazioni di Dalton, chiedi a lui.» Gli fa un cenno.
Mi giro verso Dalton e lo guardo con gli occhi sgranati.
   «Sono precauzioni necessarie.» Spiega paziente. «Devi innanzitutto chiedere all’infermiera un sonnifero, dille che hai problemi d’insonnia genetici e che la melatonina non ha mai funzionato.»
   «Melatonina?» Domando, indecisa.
  «Una sostanza naturale che riequilibra i ritmi sonno-veglia.» Chiarisce subito, senza smettere di guardarmi. «Se vogliamo addormentare quattro Guardie, non bastano soporiferi o stimolanti naturali.» Esita, ma è una pausa voluta. «Se non ti dà un sonnifero abbastanza forte – il che è molto probabile –, dobbiamo ricorrere ai narcotici.»
   Aaron s’intromette, sorridendo esaltato sul posto. «Vuoi drogarli?»
   «Voglio tenerli buoni finché non saremo abbastanza lontani. Con loro svegli non facciamo due metri.»
   Annuisco. «D’accordo, va bene.» In effetti ha senso: non mi ci vedo ad atterrare Black con un pugno, decisamente no. «E la morfina?»
   «Fondamentale previdenza: non sappiamo quanto ci metteremo, un antidolorifico farebbe comodo; così come il disinfettante.»
Tiene conto di eventuali difficoltà, giustamente; io non avevo preso in considerazione simili problematiche.
   Hugo tossicchia, grattandosi la nuca. «Senti un po’» Si rivolge a Dalton, guardandolo ad occhi bassi. «Sto qua ce lo mando in infermeria io.» Fa un cenno ad Aaron e al suo cipiglio contrariato. «Ma Nathalie?» Mi getta un’occhiata rapida. «Se vuoi che ti mandino in Detenzione…» Si chiarisce la voce. «Hai… Intenzione di… Picchiarla?»
   Aaron, di fianco a lui, fa una faccia pensierosa. «Puoi fare finta di stuprarla.» Propone scrollando le spalle. «È abbastanza credibile.»
   «Perché devi dire cazzate?» Hugo sospira, sconsolato. «Voglio solo capire perché
   Sbatto le palpebre, guardando prima l’uno poi l’altro; faccio per rispondere, ma Dalton termina il suo sbadiglio e mi precede. «Nathalie può inventarsi una scusa sul momento. Io devo passare per la lavanderia, prima. Smonterò l’impianto idrico e creerò abbastanza danni da raggiungerti nella Cella di Detenzione, stanne certo. Devo trovare il serbatoio della candeggina, non sono sicuro che i disinfettanti bastino per l’esplosione.»
   «Come sarebbe a dire esplosione?» Aaron è sorpreso quanto me. «Nessuno ha mai parlato di esplosioni.»
   Hugo sbuffa, spazientito. «Perché, tu come pensavi di superare i cancelli, senza Codici od Impronte d’Identificazione?»
   «Tirando a caso, no?»
  Dalton interviene, concreto e risoluto. «Cloro ed ossigeno.» Dichiara, abbassando un poco la voce. «Acido corrosivo dove basta, deflagrazioni più o meno potenti dove è necessario.»
   Mi sudano le mani, le asciugo sulla divisa. «C’è una cosa che…» Getto una piccola occhiata a Hugo, ad Aaron ed infine a Dalton. «Credo dovresti sapere.»
   «Ti ascolto.»
   Annuisco. «Ti ricordi quello che hai detto sull’amianto, ieri?» Domando giusto per aprire il discorso. «Hai detto che è ignifugo, giusto?»
   «Ignifugo?» Mi ferma Hugo.
   Dalton annuisce. «È altamente resistente al calore, in pratica non può prendere fuoco.» Mi guarda, invitandomi a continuare.
   «Se sulla piantina è indicata un’uscita antincendio…» Riprendo prima d’interrompermi da sola subito dopo: credo abbia già compreso dove voglio andare a parare.
   «Non capisco.» Mi guarda, Hugo. «Cosa c’entra l’amianto?»
   «Black ha detto qualcosa tipo…» Sospiro e mi mordo l’interno della guancia. «Sembrerebbe che l’edificio ne sia rivestito.»
   Dalton scatta, attento. «L’ha detto Black?»
   Scrollo le spalle, annuendo.
   «Non capisco dove diavolo è il problema.» Sbotta Aaron, aprendo teatralmente le braccia e sbuffando.
   Sospira. «L’uscita antincendio può essere un’indicazione generale di evasione d’emergenza: in caso di allagamento, fuga di gas o terremoto, ad esempio. È impossibile che un edificio – soprattutto uno così recente – non abbia un imbocco alternativo a quelli principali. A questo punto, però, l’incognita è un’altra.» Dalton si passa la mano tra i capelli. «A questo punto, il problema è decisamente un altro.»
   Inchioda gli occhi in un punto esattamente al centro del cerchio che abbiamo formato sedendoci; è buffo perché sembra che mi stia fissando i piedi. Da piccola rubavo gli smalti a mia mamma, mi nascondevo dentro l’armadio – ero davvero piccola, ci stavo comodamente dietro le ante – e mi paciugavo mani e piedi. Ridevo compiaciuta tra me e me quando non mi diceva nulla, mi nascondevo le mani dietro la schiena ed i piedini sotto le calze: credevo davvero non se ne accorgesse.
    Scuoto il capo e guardo Dalton. «Cosa non ti convince?»
   Ricambia lo sguardo, da un po’. «Black non è stupido, Nathalie. Il nostro problema è che Black non è per niente stupido, nemmeno quel poco che basta per essere cattivi.»
   «Hey!» Aaron alza una mano ad interromperci. «Forse Black non del tutto stupido, va bene.» Conviene, spazientito. «Ma è malvagio!» Hugo si copre il viso con le mani e gli bestemmia contro a bassa voce, ma Aaron non si ferma. «Avanti, Nathalie!» Mi incita. «Diglielo! Senti, Black è posseduto da uno spirito crudele, te lo posso giurare…»
   Hugo gli tappa la bocca con la forza. «Io lo porto via.» Dichiara, alzandosi e trascinandoselo dietro. «Perché non torni dalla Chung a litigare per il tuo panino al formaggio?» Lo spintona.
   Aaron gli fa la linguaccia, indispettito. «Ti ricordo ancora una volta che c’era anche la marmellata di fragole.»
Prima di scomparire dalla nostra visuale, riusciamo a scorgere Hugo prendere un libro a caso dallo scaffale dietro e sollevarlo. Credo glielo abbia tirato in testa.
   Mi lascio sfuggire un sorriso, prima di tornare a Dalton. Noto che si è alzato e lo faccio anche io.
  Lui si stiracchia e rimette il libro che stavo leggendo al suo posto, nell’ultimo ripiano. «Lo so che Black non ti piace.» Inizia, spostandosi verso un’altra sezione della libreria.
   Lo seguo. «Non è che non mi piace, è solo che…»
  Alza le sopracciglia scettico. «Nathalie, lo sai vero che non può essersi lasciato sfuggire la questione dell’amianto? Sai che è stato lui a mettere Hugo in punizione nella lavanderia, nell’esatta ripartizione in cui ha trovato la piantina?»
Ci fermiamo poco lontani dal tavolo centrale della biblioteca, attorno al quale sono riuniti tutti gli altri; lui si appoggia al muro di spalle ed io mi avvicino.
   «Se Black ha qualcosa da dire, ci conviene ascoltarlo.»
   Incrocio le braccia sotto il seno. «Pensi davvero che abbia qualcosa da dire?»
   «Scopriamolo.»
Tra un’anta di libri grechi e l’altra, scorgo Emma ridere. Continua a riportarsi le ciocche rosse dietro l’orecchio, anche se i capelli sono lisci e perfettamente in ordine. Scommetto che Matt è in Vigilanza all’entrata e la sta guardando.
   «A proposito di persone che hanno qualcosa da dire… Credo che dovresti ascoltare Noah.»
  Dalton sta fissando il pavimento, concentrato e con le sopracciglia aggrottate. «Noah Roberts? Seconda Cella?» Annuisce. «Solo se in cambio mi fai favore.» Sta ancora guardando il pavimento, con la stessa intensità.
   Sbuffo e mi allontano dal viso ciuffi bianchi sfuggiti alla treccia che mi ha fatto Lily, stamattina. «Mi sembra già uno scambio equo, no?»
  «Quando sarai in infermeria,» Riprende tranquillamente lui. «ruba una siringa di adrenalina.»
  Piego la testa di lato. «Quanto è lunga la tua lista di precauzioni?» Mi lamento. Spero che l’ansia non si sia fatta strada tra l’apparente fastidio.
   Rialza lo sguardo dal pavimento su di me. «Non è per la fuga.» Sussurra, stanco. «Ci sono conti che non tornano…»
   «Quali conti?» Sto bisbigliando anche io, involontariamente.
  «Ci svegliamo ed addormentiamo tutti nello stesso, preciso, rigoroso istante.» Spiega, impaziente. «È umanamente impossibile tanta coordinazione ed altamente sospettosa la mancanza di eterogeneità.» Si asciuga il sudore sulla fronte. «Ieri tu avevi il labbro gonfio, Nathalie, avevi un graffio nel piede sinistro ed ora non c’è più nessuna traccia di entrambi.»
Ricordo perfettamente come Black mi abbia tirata dai capelli, ricordo l’esatto momento in cui mi ha sbattuto la faccia contro il muro, ricordo il dolore quando mi ha pestato i piedi.
   Si porta una mano tra capelli e tira qualche ciocca. «Li vedi quei condotti?» Indica dei tubi sopra le nostre teste, nel lato tra il soffitto e il muro adiacente. «Non sono di regolazione termica, se li tocchi sono a temperatura ambiente.»
Faccio un poco fatica a respirare mentre cerco di capire cosa mi sta dicendo e perché ne è tanto atterrito. Forse terrorizzato, forse disgustato. Mi prendo un momento per rendermi conto che ha accuratamente aspettato che fossimo soli per dirmelo, che forse è più grave di quanto supponevo, ma senza dubbio coerente che il mio “C’è qualcosa che non va”.
   «Ci sono due possibili spiegazioni.» Le conta sul pollice e l’indice della mano sinistra. «O è un condotto di areazione ossigenante, e noi siamo sotto il livello del mare…»
   Deglutisco, senza smettere di guardarlo. «Dici che ci passa ossigeno, quindi?» Valuto la sua prima ipotesi, ma la sola idea di essere sotto terra mi soffoca. «Oppure?» Lo esorto a continuare, quando noto la sua esitazione.
   «Oppure ci passa qualcos’altro.»
 
 
   L’allarme suona non appena io e Dalton raggiungiamo gli altri e ci sediamo nel tavolo centrale. È basso, in realtà, ma riesce ad attirare in fretta l’attenzione di tutti i presenti.
   Qualcuno si alza, si allontana; qualcun altro si limita a stare in silenzio ed aspettare; io mi volto verso le Guardie: Matt Andersen e James Black, appoggiati di schiena contro la porta. Si guardano, complici, ma distolgono immediatamente lo sguardo, un poco più arresi. Black respira profondamente, ma è abbastanza controllato; Matt cerca con gli occhi Emma.
   «Che diavolo è?» Sean, un altro ragazzo della Seconda Cella, indica il tavolo.
Questo s’illumina: è uno schermo.
Compare uno studio, dietro alla scrivania è seduta una giovane donna. Ha una bella pettinatura, curata e precisa: mi fermo ad osservarla perché mi ricorda l’acconciatura classica di mia mamma.
   «Telegiornale?» Chiede qualcuno.
Sembrerebbe proprio di sì, ma nessuno risponde.
  «Ci scusiamo per l’improvvisa interruzione dei programmi d’intrattenimento quotidiani in vista dell’aggiornamento degli accordi del Congresso di Amsterdam, tenutosi questa mattina. Il ministro degli esteri russo non si è presentato all’evento prefissato ed il portavoce delle Nazioni Unite è in ritiro per ragioni di sicurezza.» Cambia foglio, rialzando lo sguardo verso la telecamera per una frazione di secondo. «Un telegramma alla Casa Bianca ha giustificato l’assenza della Repubblica Federale Russa con una dichiarazione di mobilitazione dell’esercito, confermato dallo sbarco della flotta a Cuba.» Mentre lo annuncia, vengono proiettate alle sue spalle una serie d’immagini scattate con il satellite. «Tutti i cittadini maggiorenni statunitensi sono invitati a prestare servizio militare od infermieristico, esclusi gli invalidi ed i diversamente abili. Le trasmissioni radio-visive serali saranno sostituite da programmi che metteranno al corrente tutti i civili della situazione in caso di variazioni od aggiornamenti; oppure si procederà all’istruzione delle modalità di difesa e l’indicazione dei punti di riparo atomico più vicini. Raccomandiamo il minimo utilizzo delle linee telefoniche al fine di non intasare il sistema di comunicazioni d’emergenza.» Mette da parte i fogli e fissa la telecamera. «Il presidente avverte l’intero paese dello stato d’allerta: è guerra.»
 


 
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Ok, ok, ok
Sono cosciente del fatto che è tutto troppo intricato, nonostante questo capitolo sia ricchissimo di indizi – probabilmente molto più di quanto lo saranno i prossimi. Ho deciso che al temine di ogni capitolo indicherò una serie di parti/espressioni/descrizioni/battute sulla quale bisogna porre particolare attenzione.
Ergo, prendete appunti:
•    Per sapere la verità, o la verità più probabile: se volete fidarvi di una delle Guardie, Black e la Chang “hanno da dire”; se volete porre la vostra fiducia in un detenuto, allora nessuno e meglio di Dalton, ma nemmeno Noah scherza.
•    Attenzione ad Emma ed alla sua golosità improvvisa.
•    Aaron: credetemi se vi dico che non è stupido, per niente. 
•    Attenzione alla reazione dei due militari, quando hanno saputo che la Russia ha dichiarato guerra agli USA. Non so, non sembravano sorpresi, no?
Ora voglio ringraziare le persone che non se ne sono andate solo perché si sono rese conto che la storia è seria e complicata. Lo so che sono ripetitiva, ma seguire una storia intrecciata e starci dietro non è proprio comodissimo. Spero che ci sia ancora qualche anima disposta a lasciarmi un parere, sia qui su EFP che altrove: insomma, se siete timidi, mi potete aggiungere su Facebook, mi potete mandare un telegramma, una raccomandata, messaggi alle due di notte, un gufo, mi potete anche recensire telepaticamente, se volete.
Sul profilo efp di Facebook sembro un po’ terrorista, ma in realtà sono carina e coccolosa :3
D’accordo, me ne vado.
A prestissimo ♥
Bess





 
   
 
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