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Autore: Melian    28/07/2014    9 recensioni
"La clematide è di buon auspicio. Si dice che vederla fiorire nelle stagioni più fredde e nei luoghi più impensabili riempia la vita di bellezza e di felicità inaspettate.
Ed era lì, quella clematide, anche adesso: cresceva al margine della radura eletta a campo di battaglia e, ancora una volta, muta spettatrice, osservava il dipanarsi degli eventi; era lì per Kimimaro."
[Seconda classificata al contest "Petali di lacrime" indetto da Lerryx/DarkElf sul forum di EFP]
[Vincintrice del premio "Sorriso" per la miglior storia e del premio "Lacrima" per la storia più commovente, al "Flash contest: solo un sogno" di Eireen_23 sul forum di EFP]
Storia partecipante al Contest "Il Linguaggio Segreto dei Fiori" indetto da _Ayaka_ sul forum di EFP
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Juugo, Kabuto Yakushi, Kimimaro Kaguya, Orochimaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto prima serie
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LA CLEMATIDE


 

La cella era immersa in un'insidiosa penombra e solo la luna riusciva a far filtrare, attraverso le sbarre, un filo di luce polverosa. La finestra, minuscola, era troppo in alto per poter essere raggiunta, ma il chiarore si affacciava lo stesso, danzando sul pavimento e sulle pareti in una processione di impalpabili veli argentati.
Un volto femminile e spigoloso era stato sbozzato nella parete, l'espressione indefinita e gli occhi ciechi: era chiaro che la mano dell'artista che l'aveva creato era ancora immatura, incerta, non conscia del talento che avrebbe potuto sbocciare, se solo fosse stato coltivato.
Purtroppo Kimimaro non era stato così fortunato da nascere in un Villaggio che sapesse apprezzare gli artisti e aveva dubbi sulla bontà e l'utilità del suo passatempo. Non sapeva nemmeno chi stesse ritraendo: nel suo immaginifico credeva fosse la madre che non aveva mai conosciuto. Intagliare la pietra era il suo unico gioco; probabilmente quel passatempo lo aiutava a non impazzire, a non arrendersi alla solitudine o, almeno, a vendersi ad essa a caro prezzo.
Per essere solo un bambino, sapeva maneggiare con fin troppa scioltezza – quella di chi era abituato ad uccidere – la lama d'osso che si sfilava con disinvoltura dalla spalla e usava per scolpire: il piccolo omero emerge dalla carne, affilandosi all'istante e divenendo un pugnale resistente quanto il diamante.
All'inizio, quando Kimimaro aveva scoperto di avere questa capacità – e nessuno gli aveva mai detto che i ninja la chiamavano Abilità Innata –, estrarre e forgiare le proprie ossa a guisa d'armi gli procurava dolori lancinanti, lo spaventava da morire e lo faceva sentire un mostro.
Forse era per questo che lo tenevano chiuso in questa cella? Era per quella capacità che lo tenevano in vita, invece di sopprimerlo? In fondo, era quello che gli diceva sempre suo padre.
Da quel che ricordava, Kimimaro aveva sempre vissuto in quella prigione. Conosceva lo spazio angusto e la pietra umida da sempre; il sentore di stantio di quel sotterraneo gli si era appiccicato addosso e, forse, non sarebbe andato mai più via.
Il solito rumore di una serratura che scattava, di cardini arrugginiti che sferragliavano, di passi che si avvicinano e poi si allontanavano, scandivano la sua routine: la porta si chiudeva co un tonfo dopo che vassoio era stato lasciato per terra con del cibo sempre uguale, che lui ingurgitava per fame, senza nemmeno assaporarlo. Quel meticoloso rituale dei pasti scandiva il passare delle ore, dei giorni... degli anni, eppure gli dava la certezza di esistere e di non essere diventato un vuoto fantasma, dimenticato da tutti.
I guardiani lasciavano la porta del sotterraneo socchiusa anche quando si allontanavano, senza timore che Kimimaro potesse fuggire, perché le sbarre della cella erano state assicurate da potenti sigilli. Quella notte il bagliore intenso di una torcia era colato di colpo lungo il pavimento, delle ombre si erano mosse al di là della porta e Kimimaro, atterrito, si era premuto contro la parete.
«È necessario tenerlo chiuso lì dentro ancora per molto? Sono stanco di doverlo sorvegliare» aveva chiese un uomo, impaziente.
La risposta era stata una roca risata, volgare e selvaggia: «Non capisci? È come con i cani. Più lo tieni alla catena, meglio sarà quando sarà sguinzagliato: morderà più a fondo e più ferocemente».
Quella dichiarazione aveva lasciato il bambino atterrito.
Cos'erano i sapori? E i colori? Cos'era il vento sul viso? Cos'era la libertà? Che profumo aveva la felicità?
Kimimaro non conosceva risposte a nessuna di queste domande. Tutto quello che sapeva era che doveva combattere: lottare per sopravvivere quando lo gettavano nella mischia come se fosse un'arma, un semplice oggetto da brandire per far tremare i nemici dei Kaguya e ottenere la vittoria. Lottare, lottare, lottare: ecco il significato dell'esistenza. Battersi senza conoscerne la causa, ma solo perché aveva paura e voleva vivere, trovare un senso alla sua vita.
Era così taciturno, così schivo, che con quella pelle e i capelli bianchi, pareva davvero uno spettro, il terrore dei campi di battaglia. Silenzioso, letale, scivolava tra le file nemiche e faceva strage, dilaniava carni e stroncava vite con la meticolosità fredda di un assassino.
Uccidere gli conferiva la misura della propria esistenza. Non gli procura nessun piacere e, tuttavia, nemmeno dolore: era solo un modo per affermarsi in un mondo che non si accorgeva di lui e per ricordare a sé stesso che era fatto di carne e sangue. Di quegli uomini, che mieteva come affilata e mortale falce, aveva pietà; si sentiva costretto a fare ciò che non desiderava e che non aveva per lui né un senso, né uno scopo.
La sua gente gli aveva riservato davvero il trattamento di un cane: bastonato ogni giorno in modo da tramutare la paura in furia, il dolore in istinto di sopravvivenza, l'umiliazione in desiderio di vendetta, di prevaricazione, di uccidere. E desiderio cocente di umanità: poiché Kimimaro voleva solo essere trattato come un umano, non trasformarsi nel mostro che tutti pretendevano fosse.


 

 

***


 

Era immerso nell'oscurità, intrappolato in un drappo di stoffa scura e pesante da cui non riusciva a liberarsi, intorpidito. Galleggiava in un mare tetro e senza suoni, marosi che lo sollevavano e lo rendevano privo di peso, portandolo alla deriva. Quello che aveva appena vissuto era solo un sogno, ne era sicuro.
Il buio non mi fa paura: io ci sono cresciuto, nelle tenebre più oscure”.i
La coscienza riemerse dalle nebbie, eppure Kimimaro, per una manciata di secondi, lottò per continuare quel sogno e sapere come sarebbe andato a finire, se almeno quella volta ci fossero state variazioni sul tema. Eppure tutto sfumava e gli sfuggiva dalle dita, mentre il suo ovattato e ritmico di un bip si faceva strada nella sua testa, rimbombando alla stregua di un sinistro orologio che aveva il compito di ricordargli quanto gli rimanesse ancora da vivere. Il bip apparteneva all'elettrocardiogramma a cui era collegato; l'orologio che batteva il tempo che inesorabilmente sfuggiva era null'altro che il suo cuore tenace, eppure stanco.
«Allora, come sta?» domandò una voce bassa.
«Le sue condizioni sono stazionarie. Quel che è certo è che non migliora».
La seconda voce era ugualmente bassa, ma il tono molto più freddo, quello di un medico abituato a dare cattive notizie senza eccessivo coinvolgimento.
«Mi stai davvero dicendo che non hai trovato nessuna soluzione, Kabuto?». Orochimaru non nascose il lampo di irritazione e la sua voce divenne un sibilo.
«La sua malattia non è curabile, lo sapete». Kabuto fece una pausa, la calibrò a pennello e poi ammise con un briciolo di intima frustrazione: «Mi dispiace, Maestro».
Kimimaro navigava in un mare di semi coscienza, cullato da quelle voci così familiari.
Come poteva non riconoscere quella di lui? Bassa, suadente e delicatamente imperativa, la voce di una serpe che sussurrava all'orecchio, facendo colare il suo piacevole veleno e instillandolo nella mente della sua preda con facilità: quella di Orochimaru possedeva uno strano miscuglio che la rendeva magnetica.
Disteso sul suo letto nel laboratorio di Kabuto, Kimimaro teneva gli occhi serrati: una forza superiore gli impediva di aprirli, ma richiamò ogni briciolo della propria volontà per contrastarla e scrollarsi di dosso i brandelli di quel sogno ricorrente, che si ripresentava con la cadenza di un'ossessione, o un messaggio alla ricerca della giusta chiave interpretativa.
Kimimaro, in realtà, ricordava la propria infanzia prima dell'incontro fatidico con il Maestro, con un'angoscia bruciante. Da bambino provava quel sentimento nella sua essenza più pura e selvaggia, perché per lui estremamente insensato. Sentiva addosso gli sguardi di disprezzo e paura dei suoi carcerieri, uomini che non comprendevano il potere che Kimimaro possedeva e, temendolo, lo odiavano.
Gli tornavano alla mente anche le visite sporadiche di suo padre, un uomo brutale e crudele che lo afferrava di peso, lo trascinava lungo il sotterraneo e lo costringeva ad affrontarlo: lo allenava alla guerra a modo suo, annullandolo, schiacciandolo, picchiandolo. Gli urlava che Kimimaro non era nessuno, solo un fantasma dai capelli bianchi, che l'unico motivo per cui era tenuto in vita era perché potesse guadagnarsi il privilegio di vedere un'altra alba in battaglia, per la gloria del clan. Kimimaro ricordava perfettamente che quell'uomo, mentre lo malmenava, gli ingiungeva di dovergli essere fedele come un cane, di essere grato per non averlo strangolato appena nato e che quella sua mostruosa abilità di estrarsi le ossa era la sua unica utilità. Suo padre non lo amava affatto, voleva semplicemente fare di lui il suo strumento di conquista e di potere. Così, pesto e lacero Kimimaro veniva ributtato in cella, a contare il trascorrere delle ore, senza risposta ai suoi assilli e con l'unica consapevolezza di essere considerato un reietto persino da chi lo aveva messo al mondo.
Da sedato, costretto a letto, riviveva flash della propria infanzia: avvertiva l'odore del sangue schizzato sul proprio viso, il fremito dei corpi in cui affondava la lama e riviveva l'ultimo sguardo che gli rivolgevano i suoi nemici, prima che i loro occhi divenissero vacui, lattiginosi, spenti. Gli sembrava ancora di avvertire il rumore bislacco delle carni friabili sotto la pressione del proprio osso affilato che le squarciava: un suono che si innalzava al di sopra di tutti gli altri nel mezzo del campo di battaglia, anche se per pochi, fugaci attimi. Il suono della morte.
Quando riviveva quei ricordi era come se stesse osservando uno spettacolo in terza persona e non fosse lui l'autore di quelle mattanze: un bimbetto dagli occhi freddi e distanti, che sarebbero stati meglio sul volto di un adulto spietato.
Il Kimimaro bambino certi sentimenti come la pietà non li aveva compresi, in quanto non li aveva conosciuti: non gli erano stati insegnati o mostrati e dunque non aveva potuto amministrarli. Tuttavia li possedeva eccome: solo un embrione, un piccolo seme nascosto sotto una coltre gelida. C'era una delicatezza, in lui, che pareva impossibile sbocciasse dentro le quattro mura buie e umide di una prigione, come assurdo sembra che possa nascere un fiore d'inverno a sfidare il rigore di una stagione inclemente.
Ma, se c'era una verità, era che nei bambini non esisteva il senso della crudeltà nella sua accezione assoluta e perversa e Kimimaro non faceva eccezione: lui non era crudele, non godeva della morte altrui, ma agiva semplicemente secondo i ritmi della causa e dell'effetto: era intrappolato in una dimensione dove la propria vita si afferma spegnendo quella altrui, per necessità.
La profonda umanità che aveva riscoperto, però, urlava l'angoscia di chi non voleva più sporcarsi le mani e che non desiderava il dolore altrui, poiché quello che gli era stato inflitto era una ferita che non si sarebbe mai cancellata.
In quel mondo di farmaci e vita sospesa, attaccato ai macchinari per curare una malattia sconosciuta, Kimimaro riusciva tuttavia ancora a muovere la mano, nient'altro che un lieve spasmo delle dita quando Kabuto gli iniettò l'ennesima medicina che non gli avrebbe fatto alcun effetto, se non quello di tenerlo in vita ancora un po' e, magari, anestetizzargli il dolore, consentendogli per lo meno di alzarsi. Kimimaro soffriva atrocemente, ma in silenzio: possedeva un attaccamento alla vita straordinario, figlio della volontà di compiacere ancora una volta il suo vero, unico Maestro.
Sapeva perfettamente che sarebbe morto, ma non riusciva capacitarsene solo perché ciò sarebbe stato un epilogo infelice per Orochimaru che, alto e longilineo, dai modi propri di un seduttore, un conquistatore o un attore consumato, era al suo capezzale.
Kimimaro avvertiva su di sé lo sguardo impossibile da sostenere di un uomo a cui doveva tutto.
Orochimaru, gli occhi dorati di un furbissimo, eppure fascinoso e indolente rettile, allungò la mano dalle dita eleganti e la posò sulla fronte del suo giovane pupillo, il suo prezioso investimento. E gli sussurrò: «Ragazzo mio, devi lottare».
La risposta di Kimimaro a quell'imperativo, fu di scrollarsi di dosso tutti i fili, di allontanare ogni macchinario e rimettersi in piedi: non sarebbe morto inchiodato a un letto come una cavia.
«Dimmi solo cosa vuoi che faccia per te, Maestro» mormorò il ragazzo.
Il Serpente sorrise, come aveva fatto quando lo aveva incontrato per la prima volta, molti anni prima.

 

 

***



Orochimaru aveva atteso nell'ombra per un giorno intero: aveva saputo dalle proprie spie che quella notte sarebbe accaduto qualcosa di estremamente importante e desiderava assistervi.
Il Clan Kaguya, infatti, aveva sempre desiderato mettere le mani sul Villaggio della Nebbia; nonostante la lunga attesa prima di fare il grande passo, ormai l'ora era scoccata.
Peccato, però, che Orochimaru avesse già immaginato come sarebbe andata a finire: con un massacro.
I Kaguya si erano sempre fatti largo con la violenza, avevano amato i soprusi e non disdegnato la tortura, l'omicidio gratuito, gli stupri e i saccheggi. Erano stati, insomma, la prova lampante del marcio nel mondo degli shinobi.
Non che Orochimaru avesse mai provato particolare interesse nel giudicare i limiti e le possibilità di una condotta tanto deplorevole, più che mai lontana dai suoi gusti raffinati, ma riteneva i Kaguya grezzi e ben poco furbi. Maestro nell'arte della dissimulazione, della fascinazione e dello spionaggio, Orochimaru articolava con meticolosa attenzione ogni suo piano dove tutte le pedine trovavano il posto giusto all'interno della scacchiera. Ai suoi occhi, dunque, le azioni di quel manipolo di uomini rappresentavano null'altro che tentativi maldestri di ottenere il successo, degni di bambini capricciosi e ottusi.
Voleva vederla con i propri occhi, la fine di quel clan: un pugno di vanagloriosi rissaioli perversi. Ma non era lì solo per assistere alla carneficina, dopotutto.
Da tempo conosceva il segreto dei Kaguya, che li aveva galvanizzati così tanto e spinti a lanciarsi in quella folle impresa, rendendoli sicuri di una vittoria su un Villaggio ben più potente e organizzato. Voci sussurravano della loro arma segreta e letale, uno strumento perfettamente accordato per essere una macchina di morte. E Orochimaru voleva impadronirsene, naturalmente.
L'idea gli si era insinuata a poco a poco nella mente e lo aveva lusingato, fino a spingerlo a scomodarsi e verificare di persona quello che gli avevano riferito: un virgulto dei Kaguya possedeva un'Abilità Innata talmente sconvolgente e potente da essere il terrore dei suoi nemici.
Per uno come Orochimaru, che si faceva blandire da ogni promessa di conoscenza e potere, quest'opportunità non poteva che generare una fascino assoluto. Se avesse trovato davvero ciò che cercava, avrebbe colto quel seme raro e lo avrebbe trapiantato nella sua fertile terra, fino a farne un virgulto da modellare a piacimento, da cogliere al momento opportuno. Gli piaceva il pensiero di agguantare tra le mani quel germe di potere e farlo danzare al ritmo della propria musica, sul proprio palmo.
Non dovette aspettare parecchio, per fortuna.
Il Villaggio della Nebbia era avvolto nelle spire perenni di una bruma alitate dal mare e, su un'altura che Orochimaru aveva scelto per osservare la battaglia, la sua giovane promessa quasi gli si gettò tra le braccia, un fausto scherzo del destino.
Tutto istinto e azione, nessun tentennamento o calcolo ragionato, il ragazzino si era praticamente precipitato su di lui, brandendo il coltello d'osso nel pugno con l'agilità di un gatto randagio che attacca per difendersi, più per paura che per spavalderia. Aveva occhi verdi sparuti e colmi di una malinconia letale, un sentimento di tale portata che non si addiceva certo ad un bambino, e di una determinazione vuota, cieca, come quella di chi accettava un destino alieno, ma che faceva di tutto per svolgere la sua parte al meglio, un burattino sul palcoscenico del mondo.
Ad Orochimaru quello sguardo, la sfida enigmatica che rappresentava e il portamento assolutamente incoerente di quel ragazzino – una mescolanza di infantile ingenuità e di risolutezza da assassino a sangue freddo – piaceva, gli provocò un fremito intimo e vibrante. Gli piaceva anche leggere il turbamento e la curiosità sul volto di Kimimaro, la lotta tenace tra il voler resistere al suo sguardo e quello di distoglierlo, l'interrogativo sul cosa Orochimaru aveva intuito in quel fugace contatto.
Il Serpente aveva mandato Kimimaro alla lotta con un gesto di una sprezzante noncuranza, senza far alcunché per fermarne l'avanzata. Doveva guardarlo battersi, capire fin dove poteva spingersi, in quali abissi nuotava e, dunque, trovare la giusta chiave per trarlo a sé. Aveva sempre trovato la chiave giusta con chicchessia. Gli bastava un nulla per toccare la fibra nascosta nelle persone, le dominava e le piegava, votandole a sé come avrebbe potuto fare un condottiero ispirato dagli dèi, a cui nessuna volontà avrebbe potuto opporsi.
Kimimaro altro non era che un bambino, un'anima gentile e acerba nata sotto un segno sfortunato e che cercava il senso della propria esistenza nel solo modo che gli era stato insegnato. Era un fiore d'inverno e ad Orochimaru piaceva nella sua timida lotta per resistere al gelo.
 

 

***

 

Kimimaro era rimasto immediatamente soggiogato. Fin dalla prima volta che lo aveva incontrato ai limiti del Villaggio della Nebbia, dove i boschi si riempivano di foschia e tutto era immerso in un inverno spettrale, lo aveva seguito come un'ombra, diligentemente un passo indietro, e lo aveva osservato in un silenzio misto di reverenza e dubbio.
Era stata una clematide spuntata tra la roccia la muta e unica testimone di quell'incontro e, in un certo senso, anche il suo segno distintivo.
Si era domandato chi fosse realmente quell'uomo che lo aveva atteso e chiamato a sé, alto ed elegante, fiero e potente, colmo di austero mistero e di un carisma che espandeva attorno a lui un'aura quasi palpabile. Lo aveva osservato avanzava come se al mondo nulla potesse scalfirlo, ma che avesse dovuto invece piegarsi al suo passaggio.
Lui, arruffato ragazzino, sembrava uno di quei randagi a cui bastava rifilare qualche carezza e un boccone di cibo in modo che, riconoscenti, prendessero a scodinzolare e a seguire chi era stato con loro tanto generoso, nella speranza di averne ancora. Era bastata una carezza e catene invisibili e indistruttibili lo avevano avvinto: gli si era donato senza remore, inesorabilmente conquistato. Si era lasciato comprare.
Orochimaru era il tipo di uomo che conquistava la scena con pochi ed efficaci gesti e si imponeva nelle vite di quanti incrociava.
Kimimaro non aveva mai conosciuto il tocco di una mano gentile prima di quella di Orochimaro e quella carezza lo aveva rapito per sempre, vincolandolo a quell'uomo che sapeva renderlo il prigioniero più felice in una gabbia fatta di contraddizioni e giochi di potere inimmaginabili, di domande che sembravano pronunciate con una semplicità apparente, ma che instillavano veleno e dubbi, macerando ogni certezza e cercando l'essenza stessa delle cose per demolirla e poi ricostruirla su promesse e pretese di grandiosità mostruosa, transumana.
Andare oltre i limiti imposti dalla gerarchia degli shinobi, oltre l'etica e la morale comune, oltre la mera definizione di bene e male, giusto e ingiusto: era questo che faceva Orochimaru, andare oltre.
Nel ripensarci, Kimimaro tornava a provare una sensazione indefinita, sospesa tra l'innocenza dell'infanzia, che in fondo ignora come dietro ad ogni azione potesse esserci una raffinata strategia, e il primo spasimo di un amore senza nome, viscerale e totalizzante, per il suo Maestro.
Quel sentimento infine si era trasformato in venerazione. Non sapeva esattamente quando era accaduto, ma non lo disdegnava affatto: Orochimaru era il suo salvatore, la sua speranza; in un certo senso, con quei suoi gesti intrisi di un paternalismo indulgente, gli aveva fatto anche da genitore. Ma, soprattutto, non lo aveva mai chiamato mostro.
Orochimaru lo aveva condotto con sé nel Villaggio del Suono e lì Kimimaro aveva imparato a conoscere il significato del sacrificio, dell'abnegazione, della gratitudine e del duro lavoro. Ogni tanto gli era parso di scorgere - e anzi lo sperava - anche una sorta di vago affetto da parte del suo mentore sotto forma di cenni misurati, sottili sorrisi e occhiate attente e compiaciute.
Orochimaru intuiva la sua ambizione, il suo anelito alla grandezza, il suo dibattersi per sfuggire alla mediocrità e cullava quel desiderio costantemente: nulla di ciò che modellava tra le proprie dita doveva essere infimo, ma votato al successo.
«Hai un grande dono, ragazzo mio. Il tuo potere fiorisce nelle avversità e ingigantisce giorno dopo giorno, ma non è abbastanza. Padroneggi ogni tecnica che ti ho insegnato e non ne sei sazio», gli aveva detto una volta Orochimaru, mentre era rimasto ad osservarlo con lo sguardo magnetico di una serpe che pregusta il pasto. Aveva allungato la mano e gli aveva rifilato una breve carezza blandente, sussurrandogli languido: «Il tuo dono si chiama Shikotsumyaku, Manipolazione delle Ossa, ed è un'Abilità Innata. Tu sei speciale, Kimimaro. Se lo vorrai, ti darò il potere che ti spetta, lasceremo che sbocci come la clematide che hai imparato ad amare. Ti ricompenserò, lo sai: sarai mio, per sempre. Ti fidi di me?».
La domanda era retorica, la risposta scontata. E in cambio di quella promessa, Kimimaro non gli doveva altro che la propria lealtà, indiscutibilmente e totalmente. Non gli doveva che la sua fede. Non gli doveva altro che se stesso, interamente. Essere il suo contenitore: lo voleva più di ogni altra cosa al mondo.
Se era vero che lo aveva seguito sempre come un cane, allora nessun cane aveva tanto amato la mano che lo aveva legato e gli aveva donato una nuova esistenza, uno scopo, un'identità, un significato: era sbocciato come una clematide d'inverno, contro ogni avversità.
Da allora aveva sfidato se stesso e il proprio corpo, ricercando ossessivamente la perfezione della sua Abilità, senza remore e senza arrendersi mai. La Manipolazione delle Ossa, che lo aveva reso un mostro inquietante agli occhi della sua stessa gente, era divenuta la più immediata e semplice manifestazione del suo io, il proprio dono speciale al Maestro che lo aveva incoraggiato ad affinarla.
Orochimaru asseriva che Kimimaro non combatteva, ma danzasse come una creatura leggera e pura sulle piccolezze umane, ergendosi sull'inettitudine degli shinobi. Fu per questo che Kimimaro improntò ogni sua tecnica perché fosse insieme elegante, veloce, precisa e letale: la Danza del Salice, della Camelia, del Larice, delle Felci e la sua preferita, la Danza della Clematide, furono le tecniche che elaborò giorno per giorno, senza risparmiarsi.
Tutto pur di ricevere anche solo un cenno di approvazione, tutto pur di sentirsi degno d'essere stato scelto.
Imparò a sorridere e gli apparve di vedere uno spiraglio di felicità nel buio della sua breve esistenza. Gli dava gioia osservare quell'uomo dai modi risoluti muoversi nel suo laboratorio, accompagnarlo nei boschi, o tra le vie del Villaggio del Suono, oppure mentre si allenavano fin quando il tramonto incendiava il cielo di pennellate rosse e aranciate.
Per lui, Orochimaru aveva assunto le sembianze sacrali di una divinità, un uomo giusto, il cui volere era legge e che non poteva che perseguire il bene e la verità, i cui desideri di grandezza, le tecniche sempre più raffinate e ardite, nonché quelle più spaventose e proibite, dovevano essere protetti.
Tutti i suoi nemici non riuscivano a capirne la grandezza e il genio, il profondo senso delle sue azioni, ma Kimimaro li intuiva, vedeva il suo disegno con una sconcertate chiarezza, scorgeva anche il posto che aveva in esso e ciò lo onorava profondamente.
Nessun dubbio, nessuna incertezza, nessuna esitazione, ma totale accettazione, il comprendersi con un semplice sguardo: era questo che faceva di Kimimaro il prezioso pupillo del Serpente.

Quando aveva scoperto la sua malattia, però, tutto il suo mondo si era ritrovato appeso ad un filo.
In quel momento, Kimimaro sembrava danzare al ritmo di un ballo che non si era scelto, come una marionetta che la vita si divertiva a far girare senza soluzione di continuità.
Gli era stata affidata una missione di capitale importanza ed era deciso a portarla a termine, ad ogni costo. Avrebbero dovuto raccogliere importanti informazioni, un lavoro delicato su cui Orochimaru contava in particolar modo, anche se non aveva voluto svelare troppi particolari, quel che era certo era che aveva a che fare con Konoha.
Eppure Kimimaro non fece domande, non era nel suo stile, né aveva alcun motivo per dubitare delle intenzioni del suo Maestro. Era metodico quando si trattava di condurre una missione e non mollava l'osso. Era riuscito, alla fine, a trovare un contatto sicuro, ma qualcosa era andato storto e un'imboscata aveva colto il Quintetto del Suono di sorpresa.
Nel bel mezzo della battaglia – gli ordini erano stati che non dovevano esserci sopravvissuti che potessero tradire i segreti del Suono – mentre Kimimaro lottava, avvertì un dolore lancinante che si diffuse nelle sue membra, ogni muscolo si contrasse dolorosamente.
Le sue ossa, senza che potesse controllarlo, sporsero dal suo corpo come se fossero sul punto di trapassarlo e lacerargli ogni scampolo di carne mortalmente, ritraendosi di colpo come nulla fosse accaduto solo qualche attimo dopo. Eppure fu un segno inequivocabile: l'orologio della vita batteva un'ora mortale, per lui. Kimimaro cadde nella polvere, senza che nessun nemico avesse potuto sfiorarlo; non riusciva a muoversi, il suo corpo sembrava del tutto inerte e le sue ossa parevano essersi polverizzate. Ebbe l'orribile sensazione che ogni fibra del suo essere si fosse consumata dall'interno, divorate da un male che non poteva spiegarsi.
I suoi compagni avevano dovuto portarlo in spalla al Villaggio del Suono e Kimimaro era rimasto privo di sensi per tre giorni, mentre Kabuto si affannava per cercare di capire cosa fosse successo e che cure somministrargli.
Il pensiero che dannava Orochimaru era uno solo e, in realtà, biecamente pratico: il corpo che avrebbe dovuto ospitarlo non gli sarebbe più potuto tornare utile. Neppure le tecniche proibite di cui era a conoscenza offrivano una soluzione e anche Kabuto si era dovuto arrendere all'evidenza: si poteva allungare la vita di Kimimaro, ma non guarirlo.
La Manipolazione delle Ossa esigeva la sua contropartita: la tecnica micidiale aveva donato una incredibile potenza al suo ultimo portatore, ma anche la precoce consunzione di un corpo altrimenti giovane e forte.
Kimimaro apprese quella notizia in silenzio, lo sguardo triste e ferito, mentre si ripeteva che avrebbe continuato a combattere e a rendersi utile e degno della fiducia del suo Maestro fino all'ultimo istante. Era nato per questo e niente avrebbe potuto fermarlo, la sua volontà era più grande e solida della sua malattia.

Un giorno, Kimimaro ebbe l'impressione che ci fosse qualcosa di diverso nell'aria, una tensione che gli stringeva lo stomaco in una morsa, mentre si affrettava a raggiungere il suo mentore.
Quando entrò nella stanza, seppe che il momento in cui Orochimaru avrebbe mantenuto la sua promessa era arrivato. Il Maestro aveva continuato a dargli le spalle e ad osservare un punto indistinto fuori dalla finestra, infine si era voltato con una lentezza estenuante e gli aveva fatto un semplice cenno con le dita. Kimimaro si era avvicinato senza alcuna riluttanza.
Orochimaru lo aveva guardato dritto negli occhi, pronto a scovare anche il più minuscolo seme di dubbio, ma vi trovò soltanto una cieca fede e il pressante bisogno di accettazione, di determinazione e desiderio. Quel ragazzo gli si proponeva senza porsi domande, con slancio unico e raro e se ne compiacque: era malleabile tra le sue mani, persino troppo modesto per uno shinobi della sua portata.
Kimimaro ne aveva sostenuto lo sguardo e si era lasciato posare la mano sul capo, che poi era scivolata tra i suoi capelli fino alla nuca, afferrandolo saldamente, come se Orochimaru volesse prevenire un qualsiasi moto di ribellione. Era rimasto a guardare interrogativo il suo venerato Maestro che adesso gli sorrideva e si piegava su di lui; aveva avvertito la carezza dei capelli neri di Orochimaru sulla spalla e il suo respiro tiepido sulla pelle, increspata da un brivido istintivo e un po' morboso.
Il suo cuore aveva preso a correre all'impazzata e che tutto attorno a lui pareva essersi fermato, mentre il Maestro posava le labbra sulla sua pelle, all'altezza dello sterno e... affondava i denti.
Ricordava anche la sensazione sconvolgente di dolore che si irradiava da quel punto, miriade di sottilissime scintille che si insinuavano in ogni anfratto del suo corpo, portando con sé lo spasmo orribile di un potere impuro che si condensava in un Sigillo.
Per un attimo, mentre barcollava e cadeva con un rantolo, lottando per non essere sopraffatto dalla sofferenza, Kimimaro si sentì abbandonato e tradito, pensò di aver commesso qualche irrimediabile errore per cui veniva punito. Tuttavia Orochimaru era lì, lo osservava con insolita indifferenza, senza mostrare particolare trasporto o pietà, se non un interesse meramente analitico, scientifico, per il processo che si stava compiendo. Quando il Maestro si chinò a posargli una mano sulla fronte madida di sudore, Kimimaro fu sicuro che quella non era una punizione, ma un nuovo inizio e che ora davvero apparteneva totalmente a quell'uomo che governava la sua vita già da moltissimo tempo.
Poi era venuto il deliquio. Si era risvegliato solo molto tempo dopo, al suono di una risata squillante, a tratti isterica e crudele. Capì di essere sopravvissuto al Segno Maledetto e tutto il suo corpo sembrava forgiato a nuovo.
Nei corridoi, la risata riecheggiò più forte e una figura immensa e mostruosa – metà umana e metà bestia – si stagliava tra le pareti distrutte, mentre diverse guardie tentavano di fermarne l'avanzata, senza riuscirci. Aveva il volto deformato dal riso sguaiato e selvaggio, un riso folle che cantava di una personalità perversa, e occhi iniettati di sangue.
Kimimaro non perse la calma, era un ninja freddo e lucido, e valutò piuttosto in fretta il da farsi.
Evocò il potere che sentiva ormai traboccare e il Sigillo Maledetto si attivò sotto forma di una rete di linee nere e geometriche che si arrampicavano sulla sua pelle, un’energia oscura e densa che lo pervase fin nel midollo. Con un gesto veloce ed elegante, inarcò la schiena: con uno scricchiolio e un seducente suono di carne che si schiudeva, sfilò la spina dorsale dalla sua sede naturale, brandendola come una frusta.
La creatura, appena lo vide, gli si gettò addosso con una furia esplosiva: voleva chiaramente ucciderlo. Probabilmente, però, non si aspettò che l'impatto col corpo di Kimimaro si tramutasse in una gabbia fatta di ossa: le coste del suo avversario si ergevano come spuntoni e lo tenevano bloccato, mentre la colonna vertebrale lo avvolgeva, bloccandogli le braccia in morsa portentosa.
Si guardarono negli occhi e, di colpo, l'essere si quietò e smise di divincolarsi, come se avesse trovato in Kimimaro una forza inconsulta pari alla propria e non volesse osteggiarla, ma conoscerla. A mano a mano, i suoi occhi divennero limpidi, il suo corpo rimpicciolì e tornò alle fattezze umane: aveva i capelli rossi e gli occhi chiari, un'espressione gentile e mesta, un sorriso un po' incerto, spaesato, come se non ricordasse cosa fosse accaduto un minuto prima. In quello sguardo chiese a Kimimaro se avesse davvero temuto per la sua vita.
«Io non ho mai paura, Juugo. Se starai al mio fianco, avrai la mia protezioneii» gli sussurrò Kimimaro. Erano le esatte parole che gli aveva dedicato quando era andato a tirarlo fuori dal suo nascondiglio sui monti mesi dopo quel primo incontro rocambolesco.
Lui e Juugo erano divenuti amici. Kimimaro era la potenza di cui Juugo aveva bisogno per sedare i suoi scatti d'ira; erano entrambe anime semplici e simili, tutto ciò di cui avevano bisogno era alleviare la solitudine, completandosi a vicenda. Mai nessuno era stato più leale di Juugo, con Kimimaro. Inseparabili, se era Kimimaro a domandarglielo, Juugo eseguiva qualsiasi richiesta di buon grado e lasciava che Orochimaru indagasse nella sua Abilità Innata, sopportando con cuore molto più bendisposto gli esperimenti a cui veniva sottoposto.
Kimimaro si rifiutava di tenere Juugo chiuso in una gabbia nel Nascondiglio Nord, voleva che il suo spirito fosse libero e così lo portava con sé a godere la libertà del vento sulla pelle, dell'erba sotto i piedi, del canto degli uccelli che Juugo amava tanto, sensibile come mai lo avrebbero detto durante i suoi eccessi. Sapeva come ci si sentiva a essere rinchiusi in uno spazio angusto per anni e non desiderava che l'amico patisse una simile angoscia.

Fu per Kimimaro una seconda età dell'oro, pregna di felicità. Aveva trovato una serenità assoluta e si sentiva realizzato, pieno di tutto ciò che la vita potesse regalargli: era a capo del Quintetto del Suono, come personalissimo regalo del suo Maestro; era il prediletto di Orochimaru e il ninja più potente dopo di lui nel Villaggio del Suono, aveva accanto il suo migliore amico e il suo chakra era splendente, simile alla clematide che aveva lasciato l'inverno alle spalle per accogliere la primavera.
Eppure... quanto aveva sofferto Juugo quando Kimimaro gli aveva confidato la terribile scoperta del male che lo divorava? La sua malattia non poteva essere curata, neppure il Segno Maledetto poteva davvero rallentarla od estinguerla. Era stato, forse, tutto inutile.
Juugo era quasi impazzito e aveva ucciso mezza dozzina di guardie, prima che Kimimaro stesso lo fermasse. Il suo amico lo aveva guardato con angoscia cocente, rannicchiato nella sua prigione e incatenato cosicché non facesse del male a nessun altro. Kimimaro stava morendo e Juugo non poteva farci niente.
Kimimaro, dal canto suo, era ancor più devastato dell'altro, anche se non aveva mai accennato a nessuna reazione inconsulta e, anzi, consolava Juugo, trattava la questione con leggerezza apparente e un vago sorriso affettato e malinconico.
Dentro di sé, tuttavia, provava un infinito risentimento che gli impediva di perdonarsi: aveva deluso in un sol colpo se stesso, il suo migliore amico e Orochimaru. Aveva perso tutto, di nuovo. Non sarebbe più stato il contenitore di Orochimaru, era definitivo. Questo gli aveva fatto così male che non da non aveva potuto descriverlo.
Smise di sorridere e scivolò in un silenzio tormentato e inquieto di cui tutti si accorsero immediatamente. Lasciò la sua squadra, poiché non era più in grado di andare in missione e doveva restare sotto controllo medico: non aveva mai passato tanto tempo con Kabuto come in quel periodo. Cominciò a vagare da solo poco fuori il Villaggio del Suono, circondandosi della solitudine di cui la sua anima era intrisa.
L'uomo per cui avrebbe dato qualsiasi cosa e a cui aveva scelto di votarsi come lo avrebbe guardato? Forse sarebbe stato disgustato e lo avrebbe man mano allontanato, gettandolo in preda al cupo oblio da cui lo aveva tratto fuori da bambino? Non poteva sopportarlo! Avrebbe fatto qualsiasi cosa gli avesse chiesto Orochimaru, implorando implicitamente il suo perdono.

Ma Orochimaru lo guardava da lontano, indovinando i suoi pensieri, leggendo i suoi sentimenti con una semplicità sconvolgente, ne fece una disanima completa senza bisogno di impegnarsi troppo.
Quando Kabuto aveva diagnosticato quella malattia al suo pupillo, ad onor del vero, Orochimaru era montato su tutte le furie: una rabbia infida e silenziosa che avrebbe potuto esplodere da un momento all'altro, una serpe arrotolata sulle proprie spire di colpo poteva scattare e mordere. Vedeva sfumare i suoi piani, i suoi sogni di gloria e la sua smania di potere.
Ma d'altronde era stata solo sfortuna e avrebbe trovato una soluzione adeguata. Sapeva come rigirare anche quella situazione a suo vantaggio. Aveva un piano, un'idea che gli avrebbe assicurato un contenitore degno quanto, e forse più, di quanto poteva esserlo Kimimaro.
Orochimaru voleva Sasuke Uchiha.
Il rampollo degli Uchiha, infatti, poteva assicurargli un'Abilità Innata senza dubbio molto più straordinaria della Manipolazione delle Ossa, oltre che nettamente più interessante e intrigante nelle sue implicazioni. Inoltre, Sasuke poteva diventare uno strumento fondamentale da sfoggiare contro la Foglia.
Fu per questo che Orochimaru confidò il suo desiderio a Kimimaro, e vide nel ragazzo accendersi una luce improvvisa, il fuoco di una passione fosca, come l'ultima fiammata di un incendio che stava per estinguersi e lottava per regalare al mondo la sua ultima e più rovente luce.
Kimimaro lo avrebbe accontentato: gli avrebbe portato l'Uchiha a qualsiasi costo. Avvertiva che quella sarebbe stata la sua ultima missione, la più importante, in quanto lasciava l'ipoteca sulla sua intera esistenza e su tutto ciò che aveva compiuto in nome del suo Maestro, unica ragione della propria vita. L'aveva confidato a Juugo prima di lasciare il Nascondiglio Nord, conscio che l'amico avrebbe potuto comprendere profondamente il senso delle sue azioni e ricordarlo come colui che avrebbe offerto ad Orochimaru il coronamento dei suoi desideri, lottando fino alla fine.
Sasuke sarebbe stata la sua eredità, il suo dono per il Maestro e anche per Juugo. Pur non conoscendolo, Kimimaro era fermamente convinto che, poiché scelto da Orochimaru, Sasuke sarebbe stato all'altezza del suo compito, che avrebbe compreso cosa ci si aspettasse da lui e portasse a compimento ciò che Kimimaro non poteva più terminare.
Ed ecco perchè Kimimaro, nonostante l'aggravarsi improvviso delle sue condizioni di salute, aveva lasciato il laboratorio di Kabuto, i numerosi apparecchi che servivano a monitorare le sue funzioni vitali e i farmaci che avrebbero allungato forse la sua esistenza, ma lo avrebbero lasciato in balia dei suoi incubi ricorrenti. Non desiderava certo questo per sé. Lui non sarebbe rimasto a languire, lasciando che Kabuto sperimentasse le sue arti mediche senza poter muovere più un dito.
No, Kimimaro si sarebbe fatto portatore della volontà di Orochimaru un'ultima volta e suo implacabile esecutore.


 

***


Se cerchi una clematide, ti porterà fortuna.”
Una clematide colta tra la nebbia, a metà tra l'innocenza e il dolore: questo era stato Kimimaro quando Orochimaru l'aveva incontrato.
Era andato oltre, come desiderava il suo maestro: Kimimaro aveva trasceso ogni altro uomo, perché a spingerlo a battersi contro i suoi nemici, uno dopo l'altro – Naruto, RockLee e Gaara –, era la sua volontà, la volontà di chi ha fede nel suo dovere e nel suo amore.
Orochimaru, al di là di qualsiasi pretesa di grandezza, gli aveva insegnato a trovare la bellezza e la semplicità in un fiore che, annusato per la prima volta alle soglie del Villaggio della Nebbia anni prima, era rimasto muto al suo appello di bambino e aveva suscitato la sua frustrazione, rivelandosi poi un tesoro inestimabile, la parabola della sua stessa esistenza.
La clematide era di buon auspicio. Si diceva che vederla fiorire nelle stagioni più fredde e nei luoghi più impensabili, riempisse la vita di bellezza e di felicità inaspettate.
Era lì, quella clematide, anche adesso: cresceva al margine della radura eletta a campo di battaglia e, ancora una volta, muta spettatrice, osservava il dipanarsi degli eventi; era lì per Kimimaro.
Così, mentre si lanciava contro Gaara della Sabbia con l'eleganza letale delle sue arti e la potenza sovrumana donatagli dal Sigillo Maledetto, Kimimaro ripercorreva tutti gli anni vissuti all'ombra di un uomo che lo aveva irretito e, unico tra tutti, compreso davvero, conquistandosi il suo cuore e la sua anima in un'unica, abile mossa.
Alla fine anche la clematide stava appassendo: aveva vissuto una timida primavera, ma i suoi delicati petali si erano infine sfibrati.
Magari, se Kimimaro fosse nato in un'epoca diversa, in un popolo pacifico e dotto, se fosse stato cresciuto come un bambino normale, avrebbe conosciuto la gioia di creare opere belle, colme di una sensibilità degna di un'anima generosa. Sarebbe potuto diventare davvero un'artista, dopotutto.
Ma Kimimaro era nato nella guerra e forgiato da essa. E, davanti alla sabbia di Gaara, finiva i suoi giorni così come gli era stato inculcato: combattendo con onore per farsi latore della volontà di Orochimaru.
Malgrado Gaara scatenasse contro di lui tutta la sua potenza, Kimimaro era più veloce, più agile e più forte. Senza volersi arrendere alla sua malattia, si ergeva leggero, torreggiando sugli altri, il Segno Maledetto che gli conferiva una potenza che mai aveva raggiunto prima. Ad ogni attacco, schivava e ricambiava con un assalto nuovo, più ricco di foga.
Il suo tempo era agli sgoccioli, l'orologio stava esaurendo i suoi giri, eppure stranamente Kimimaro non aveva più paura: un ultimo ballo, per chi aveva danzato forsennatamente, rincorrendo la verità, il senso della vita e solo per una frazione di secondo l'aveva afferrata e aveva provato gioia.
Non gli importava di quanto Gaara fosse in gamba e gli desse filo da torcere. Non gli interessava quanto la sua sabbia fosse insidiosa, nemmeno delle tecniche che gli venivano scagliate contro.
Kimimaro si stava spegnendo, ma l'ultimo bagliore della sua candela era più lucente che mai.
La Danza dei Germogli di Felce aveva riempito la valle della sua struggente e contorta bellezza e una selva di ossa affilate si ergeva come una sconfinata distesa di fusti, eleganti e durissimi: l'ultima creazione di Kimimaro, degna proprio di un vero artista.
Alle sue orecchie, le parole di Gaara rivolte ad Orochimaru giungevano come stolte bestemmie e facevano insorgere una rabbia sconfinata: non avrebbe permesso a dei mocciosi di offendere e infangare il suo Maestro.
Uno shinobi che muore in guerra conquista ogni onore. Kimimaro era caduto nell'ultima battaglia che aveva reclamato a gran voce, che aveva preteso come testamento di una vita giovane bruciata in un'ultima, ruggente fiammata. Serbava la convinzione che non sarebbe mai davvero morto, di non essere l'ultimo Kaguya: sarebbe sopravvissuto nell'anima stessa di Orochimaru, radicato profondamente in essa come una pianta tenace. La sua dedizione era tutto ciò che aveva potuto offrigli, in fondo, il suo viatico per il cuore del Serpente. Orochimaru gli aveva offerto una ragione di vita e Kimimaro era felice di potergli donare la propria: forse la scelta di morire non dipendeva da lui, ma poteva almeno decidere come andarsene.
La clematide che si ergeva tra le rocce venne innaffiata dal sangue di Kimimaro, estremo tributo. Era la morte a cogliere i suoi ultimi, splendidi petali, rapendoli nel vento: un ultimo pegno per il suo Maestro, innalzato al di sopra di ogni bene e di ogni ragione.
L'ultimo respiro fu per Orochimaru e fu la voce del suo Maestro ad accompagnarlo per l'ultima volta, prima che chiudesse gli occhi e potesse, infine, riposarsi:“Riusciremo ad avere tutto quello che vogliamo, Kimimaro. Noi due insieme saremo in grado di scoprire ogni verità nascosta.”iii
Nessun nemico aveva potuto piegarlo o sfiorarlo davvero, per quanto Gaara fosse stato tenace: Kimimaro apparteneva a quella stirpe di guerrieri destinati alla gloria immortale del mito.

Nella penombra del suo nascondiglio, mentre fissava la candela che si consumava senza requie e la fiammella estinguersi in un filo di fumo sottile e acre, Orochimaru seppe.
Kimimaro aveva lottato per lui e non era mai stato sconfitto da nessun avversario, tranne che da se stesso.








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Note dell'autrice:

questa è la prima storia sul fandom di Naruto, la prima oneshot che si addentra con dovizia nella psicologia di uno dei personaggi più belli, struggenti e controversi della saga. In un mondo dove spesso i “cattivi” non sono veri cattivi, ma agiscono spinti da profonde motivazioni, Kimimaro è l'esempio più squisito e, assieme a tanti altri personaggi simili, risalta.
Ho cercato di fare un lungo excursus nella sua vita, sopratutto nei suoi pensieri e sentimenti, una panoramica introspettiva che non ha la pretesa di verità assoluta, ma mira, magari, ad avvicinarsi quanto più possibile al personaggio stesso e a quanto apprendiamo di lui in certi episodi dell'anime (i lettori del manga abbiano pietà di me, purtroppo non ho avuto occasione di seguire la versione cartacea, quindi mi attengo all'anime). Insomma, ho cercato di rimettere insieme quei pezzi, tentando di dargli corpo e coerenza nel racconto.
Questa storia è un piccolo tributo a Kimimaro, che mi ha sempre colpita e affascinata.
Inoltre, ho utilizzato delle citazioni tratte da alcuni episodi dell'anime e troverete i riferimenti a piÈ pagina.
Spero gradirete.

Questa storia è stata scritta per il concorso: “Petali di lacrime”, indetto da Larryx/DarkElf13 sul forum di EFP. C'è l'Angst che la giudicessa preferiva leggere nelle storie in gara, oltretutto.

Pacchetto scelto:

“Orchidea

Petali (diritti): la storia non ha un lieto fine (in questo caso, la storia termina con la morte di Kimimaro), uno dei personaggi viene descritto mentre ride (sia il padre di Kimimaro che Juugo vengono descritti mentre ridono)

Stelo (obbligo): è presente un antagonista (nell'ultima parte si parla della battaglia contro Naruto, RockLee e Gaara, ma anche il padre di Kimimaro può essere considerato un antagonista.)

Spina (divieti): il protagonista è il personaggio principale dell'opera di cui fa parte (fanfiction), (e Kimimaro infatti non lo è).”



Melian

 

iCitazione tratta dall'episodio 126 dell'anime “Naruto”.

iiCitazione tratta dall'episodio 118 di “Naruto Shippuden”

iiiCitazione tratta dall'episodio 127 di “Naruto”

   
 
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