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Autore: Word_shaker    29/07/2014    0 recensioni
La Terra non è più al sicuro: Magneto, nella sua lotta dittatoriale per lo sterminio degli Homo Sapiens e il predominio della razza Superior, sta reclutando diversi scienziati umani che sfrutterà per delle ricerche sul gene X. Fra questi c'è Jane Foster, che, ignara di Genosha e dei motivi dell'assenza di Thor, viene imprigionata a vita da Erik Lensherr.
Genere: Science-fiction, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Erick Lensherr/Magneto
Note: Cross-over, Otherverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Era stata una notte particolare, quella che ho passato. Era una notte come tante, di quelle che trascorrevo a lavorare, appuntare e calcolare i risultati che una determinata stella dava, e nemmeno il lavoro era stato più lo stesso, da quando avevo aperto gli occhi del mondo con la mia teoria, la teoria Foster, che parlava dell'esistenza dei nove mondi e di Yiggdrasill. 
Thor non era più tornato: la porta di casa era rimasta aperta per lui, e tutto ciò che avevo ottenuto era stato il vento. Vento gelido e noncurante. 
Stavo tornando a casa, il mio ricettore astronomico emetteva il suo regolare ronzio, segno che tutto ciò che stavo controllando andava nel verso giusto, era in una tasca che faceva difetto sul pantalone, visto che è un attrezzo voluminoso; il cellulare era nell'altra ed aspettavo da dodici ore una chiamata di Erik, dato che non sapevo quale fine avesse fatto. 
Avevo una sistemazione stabile, finalmente, ed era stata la serata libera di Darcy. Quella mattina, insomma, ero sola: anche le stelle avevano deciso di restare mute mentre la mia vita passava, con una folata di mistero, dalla ricerca costante di raggiungere dei puntini bianchi luminescenti sul nero della notte al guardare costantemente una scala di grigi immutati. 
Avevo le chiavi in mano, pronta ad aprire la porta di casa, quando due brutti ceffi muscolosi, affiancati ai lati della porta, mi presero di peso, uno da un braccio ed uno dall'altro, e mi caricarono su una macchina; uno guidava, l'altro cercava di tenere testa al mio continuo dimenare e alla mia ricerca di spiegazioni mentre mi metteva un sacco traforato in testa. 
«Jim, corri, dannazione! La nave salpa alle otto e siamo in un ritardo pazzesco! Magneto si incazzerà, e lo sai!», esclamò con tensione l'omone che mi sedeva accanto.
«Cristo santo, Josh! Mica è colpa nostra se questa è tornata adesso a casa!», rispose l'altro con la stessa educazione del compagno, mentre sterzava in maniera abbastanza rude.
«Tu sei Jane Foster, vero? L'astrofisica? Perché ci manca solo che abbiamo preso un granchio, porca...»
«Sì! Sì! Sono Jane Foster, l'astrofisica! Cosa volete fare di me? Dove mi state portando?»
chiesi di rimando a Josh. La rabbia si stava impadronendo di me, non stavo capendo niente e sapevo che le cose sarebbero andate di male in peggio. Volevo, però, almeno conoscere ciò a cui andavo incontro, e così provai a dimenarmi maggiormente: non mi servì. Josh mi tirò forte le mani verso il sedile dopo averle giunte dietro la mia schiena, e per poco non mi slogai i polsi.
Non avevo lacrime, non avevo sudore, non avevo niente: solo rabbia e voglia di spiegazioni. Li guardai, per quel poco che riuscivo a vedere da quel misero sacco, e domandai ancora: 
«E chi è Magneto?».
A quella domanda, i due si guardarono con un'aria d'intesa, mista fra rispetto e timore, come se fosse impossibile non averne sentito parlare.
Jim bofonchiò qualcosa come: «Josh, apri quella cazzo di bocca.», e così l'altro cominciò:
«E' da un po' che ti stiamo osservando. Magneto ha visto che sei un'umana, quindi una persona di razza inferiore, una persona che merita che la sua vita venga tolta o abbreviata finché gli è possibile. Ma tu, tu sei speciale: tu hai tante risorse che la tua razza non immagina, e forse neanche tu sai a pieno quanta forza hai dentro di te. Quindi lui ti salverà se lo servirai e sarai privilegiata rispetto agli altri schifosi umani, che saranno macellati poco a poco. Dovrai studiare il gene X e dovrai farci delle ricerche: lui ti darà tutto il necessario affinché tu ci riesca.
Ma ricordati: sbaglia e morirai. Tradiscilo e morirai. Prova a scappare e morirai. Capito?»
; la sua voce era ferma, e mi stupì come il suo linguaggio fosse diventato tutto a un tratto quasi forbito, posato. 
La calma mi stava abbandonando e il sangue a quelle parole mi si gelò: sarei finita in un vero e proprio campo di sterminio, sarei stata completamente sul filo di un rasoio, abbandonata ai miei rischi e a ciò che avrei visto. 
Avrei dovuto essere forte, conservare i bei ricordi e cercare di essere felice come mi sarei ricordata, e avrei dovuto farlo per tutto il resto della mia vita, fu questo che mi disse il mio timore. Non potevo più permettermi il lusso di essere avventata, come spesso facevo con le ricerche o le situazioni, altrimenti sarei morta. Avrei dovuto solo aspettare di morire o sarei stata ancora felice? 
Ma forse, non tutto era perduto. Mio padre mi diceva sempre che spesso sono le stelle più piccole ad avere l'energia più forte quando diventano buchi neri, e forse avrei seguito il suo esempio. Avrei voluto abbracciare la sua tomba per l'ultima volta, dare un bacio a mia madre, vedere Erik, fare un regalo a Darcy... Ma evidentemente la mia vita non aveva tempo per queste cose, o meglio, la vita dei mutanti non ce l'aveva.
«C... Capito.» dissi con voce assente mentre pensavo a tutte quelle cose.
Poi Jim parlò, la sua voce rauca, somigliante ad un latrato, e nel frattempo così alta che avrebbero potuto sentirla anche fuori da quella macchina: «E scordati le stelle, amorino. A Genosha non si vedono.».
Lì mi alzai di scatto, quasi per protesta. Era impossibile. Quello sarebbe stato davvero l'inferno, allora. Come avrei fatto? Non avevo più niente. Avevo solo i ricordi... E la forza. E le potenzialità che loro affermavano che avessi.
Josh mi riportò a sedere bruscamente, ma non mi lamentai. Stetti a testa bassa, ormai rassegnata, e loro poco dopo mi fecero uscire dalla macchina. Mi caricarono su una nave, e, quando la nave partì, mi tolsero il sacco dalla testa. 
Era una giornata calda, il profumo del mare si insidiava anche nel più remoto angolo delle narici, ed io guardavo il cielo, quel cielo che sembrava così vuoto alla luce del sole, così pieno di solitudine... Poi il telefono mi squillò: lo riconobbi da quella suoneria schifosa che mi aveva impostato Darcy. Uno di loro mi prese il telefono dalla tasca, non riuscivo a capire chi fosse chi, visto che in macchina li avevo visti soltanto attraverso il sacco.
«"Erik".» lesse sul display «come il nostro re. Anche lui si chiama Erik. E resterà il tuo unico Erik per tanto tempo.», concluse, e mi buttò il cellulare in acqua.
«No!» gridai con le lacrime agli occhi, alzandomi di scatto per l'ennesima volta e venendo messa a sedere. Ma non avrei pianto: non avrei mai dato loro questa soddisfazione.
Avrei tanto voluto salutarlo, dirgli di non aspettarmi, di continuare le ricerche senza di me... Ma niente. Avrebbe dovuto capirlo da solo, magari anche odiandomi.
L'altro, poi, vide il rilievo nell'altra tasca e prese il ricettore, che segnava l'equilibrio stellare al solito volume basso e costante, e anche quello finì in acqua.
Mi morsi il labbro così forte che temetti che si sarebbe spaccato. Ma in fondo, importava?
Il viaggio durò a lungo e in silenzio, non seppi dire per quanto. Ad un certo punto, però, la nave si avvicinò ad una terra grigia e desolata, circondata da rovine piene di gente ed un castello lugubre, nero ed imponente troneggiava al centro di quella landa.
Quando la barca si accostò alla terraferma, i due ripresero a prendermi di peso.
All'ingresso dell'Inferno, il diavolo dagli occhi blu, con un sorriso perfido, agghiacciante e penetrante, mi stava aspettando.
«Benvenuta a Genosha, Jane.» furono le uniche parole che disse.
   
 
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