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Autore: Patrice Walsh    29/07/2014    13 recensioni
Lui, Evan Murray, vent'anni, un malinconico ed insofferente ragazzo cresciuto nella Dublino degli anni duemila. Ha perso qualcuno di importante e, nonostante lo scorrere incessante del tempo, ancora non riesce a farsene una ragione.
Lei, Norah Powell, diciannovenne, frequenta il primo anno di università a Londra. Vive in una famiglia che si aspetta qualcosa per le sue capacità. La pressione cresce al ritmo dei desideri e della voglia di evadere da una vita che non riconosce come propria.
Una richiesta d'amicizia servirà a farli conoscere, confrontare e credere in qualcosa che non ha ragione di esistere.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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CHAPTER I


 


Dublino, 17 novembre 2013
SERA
 
Zero notifiche, zero richieste d’amicizia, cento persone online.
 
“I can't believe the news today… I can't close my eyes and make it go away…”
Indietreggiò con la sedia girevole, facendo forza sulle braccia per slanciarsi verso lo stereo, ed alzò così tanto il volume della radio da far risuonare quella canzone all’interno delle quattro mura della propria stanza.
Era stato grazie agli U2 che Evan aveva desiderato di imparare a suonare il basso, qualche anno prima.
Suo padre, Shay Murray, gliel’aveva regalato in occasione del suo sedicesimo compleanno.
«A cosa ti servirà mai una chitarra?», gli aveva domandato l’uomo qualche settimana addietro, alzando le sopracciglia a tono quasi per incitarlo a rispondere.
«E’ un basso», aveva schiuso le labbra di qualche millimetro, mormorando quelle parole.
Non avevano mai avuto un bel rapporto; non da quando avevano cambiato città, causa trasferimento lavoro del padre, motivo per cui avevano continuato a rivolgersi la parola per necessità, evitando rigorosamente conversazioni di qualsiasi tipo.
Ma, nonostante la freddezza con cui era mutato quel rapporto, sentiva costantemente la sua mancanza: al mattino, al pomeriggio, alla sera.
Spesso amava stare in silenzio proprio per questo; credeva di poter udire ancora il respiro del padre contro la propria fronte, come quando era piccolo e, prima di rimboccargli le coperte, gli dava un bacio sul capo. Ed Evan rideva per quel contatto così intimo, così naturale, di cui non riusciva a far a meno. Era in momenti come questi, quando i pensieri riecheggiavano in mente e non vi era alcun modo di scacciarli, che ci pensava la musica.
Troppo alta per poter udire qualsiasi suono che provenisse dall’esterno della sua camera.
Troppo alta per poter anche solo formulare un pensiero coerente con lo stato d’animo in cui versava.
Prese nuovamente posto sulla sedia girevole, indossando gli occhiali da vista riposti nel comodino a sinistra della scrivania e guardando lo schermo luminoso dinanzi a sé.
Qualcuno, probabilmente inconsciamente, aveva avuto la strana idea di mandargli una richiesta d’amicizia che su un social è quanto di più falso possa esserci, pensava.
«Norah… Powell…», ripeté il nome della ragazza più volte, ma scosse il capo qualche attimo più tardi, non riconoscendolo. Poggiò la mano destra sul mouse e cliccò “conferma”, senza pensarci due volte.
Non ebbe modo di poter spulciare tra le foto della ragazza che sentì chiamare il proprio nome.
Capì che doveva essere sua madre, così si alzò e si diresse verso la porta, girando la chiave nel senso opposto e sporgendo il capo verso l’esterno.
«Evan, maledizione! E’ pronta la cena», esclamò la donna con le braccia conserte in fondo alle scale, scuotendo il capo e farfugliando chissà quali parole tra sé.
Il ragazzo scese qualche minuto dopo, sospirando ed apparecchiando la tavola come faceva di consuetudine ogni sera, da quando suo padre era venuto a mancare.
Fu difficile anche solo mangiare, o pensare di farlo, all’inizio, ma capirono, col tempo, che le loro vite dovevano andare avanti o più semplicemente essere vissute.
La signora Murray lo fece, per se stessa e per il bene del figlio che invece continuava a crogiolarsi nella solitudine e nell’odio verso se stesso ricordando, da allora, ancora il giorno dell’incidente.
«Hai compilato i moduli per l’università?», chiese lei, afferrando la mano sinistra del ragazzo, adagiata a lato del piatto.
Alzò il capo, Evan, ma non rispose. Si costrinse a scuotere il capo negativamente, piuttosto, volendo in quel modo darle una risposta.
«Hai vent’anni… devi provvedere a te stesso, Evan!», Sospirò, pronunciando quelle parole, eppure non l’accusò di nulla.
Rimasero in silenzio, lasciando che l’unico rumore presente nella stanza fosse provocato dal ticchettio delle forchette nei piatti, o dai bicchieri riposti sul tavolo dopo aver bevuto un sorso.
Era la routine, quella, ed Evan vi era abituato; era sempre stato così, da tre anni a questa parte. Loro mangiavano, si guardavano, commentavano persino le loro giornate, quando succedeva qualcosa di bello e, poi, tutto finiva. Ognuno per sé; Evan sparecchiava e molte delle volte intimava alla madre di salire in camera a riposarsi.
Era paziente con lei e lei lo era con lui.
Ellen, questo era il suo nome, sapeva di avere un figlio disturbato della società e dal corso degli eventi della vita che, qualche volta, non vanno come dovrebbero.
Qualche minuto più tardi, Evan richiuse anche la sua, di porta e, stanco, si spogliò dei vestiti, infilandosi a petto nudo sotto le coperte e respirandone il profumo.
Poi si lasciò cullare per qualche breve attimo dal silenzio che, dopo tanto tempo, non gli faceva più paura.





 
Londra, 17 novembre 2013
MATTINA

Norah Powell non era nessuno nella grande ed immensa Londra degli anni duemila; ma era qualcuno nel distretto in cui abitava.
L’East Ham era uno dei trentacinque maggiori centri della Grande Londra e lei, lei lì era qualcuno.
La prima delle tre figlie di un noto bancario londinese, conduceva una bella vita, forse fin troppo bella.
Non le mancava mai nulla, di materiale, eppure sentiva di esser destinata a qualcosa di più grande, di più vero.
Non riconosceva come propria quell’esistenza, e fu principalmente questo a spingerla ad iscriversi al King’s College per studiare medicina.
Lei voleva salvare gli altri, prendersi cura di loro, prima che di se stessa.
Quella mattina, più cupa e uggiosa del solito, decise di lasciarsi cullare dalle gocce che, incessanti, accarezzavano i vetri opachi della finestra, in camera sua.
La domenica mattina era il giorno che preferiva: i suoi genitori uscivano per far compere, portando con sé le sorelle minori di Norah e, in questo modo lei aveva tutto il tempo per godersi le attenzioni di cui necessitava.
Respirava a pieni polmoni l’aria salmastra proveniente dalla finestra, appena socchiusa, aprendo e chiudendo gli occhi con lentezza, come per prendere un primo contatto con la luce mattutina.
Si alzò poco dopo, indossando una vestaglia che goffamente stringeva sulla vita e, con i capelli ancora scompigliati, scese a fare colazione.
La domenica le piaceva anche per un altro motivo: non c’era la cameriera, per cui poteva preparare da sola la colazione che più desiderava, a base di latte e cereali.
Una volta terminato quel rito, risalì in camera, spogliandosi della biancheria ed infilandosi sotto la doccia.
Anche quello, come la colazione, era un lusso che poteva permettersi una volta a settimana perché a differenza degli altri giorni, in cui era costretta a sbrigarsi, la domenica poteva prendersi del tempo, anche solo per rischiarare i pensieri; e così fece.
Passò a rassegna l’intera settimana: la litigata con suo padre, l’incidente ai fornelli della domestica, il brutto voto in biologia della sorella Kate e il trenta all’esame di chimica che aveva preso quel lunedì, all’università.
E, se prima le si era formata una smorfia, al ricordo di quel successo scolastico sorrise compiaciuta di se stessa.
Era sempre stata caparbia, attiva, in qualsiasi cosa facesse.
Aveva sempre creduto che, migliorandosi, avrebbe migliorato gli altri.
Voleva diventare medico con l’unico scopo di curare e prendersi cura di chi realmente ne aveva bisogno, perché, della sua famiglia, se n’era già occupata abbastanza.
Quando uscì dal tepore della vasca da bagno, si strinse nelle spalle dall’impatto con la freddezza della propria stanza.
Zampettò fino alla finestra, forzando il pomello per richiuderla.
Sorrise con spontaneità nel notare alcuni bambini giocare nel cortile di una casa vicina; un attimo dopo, si rivestì dinanzi allo specchio.
Aveva lunghi capelli castani, Norah, e grandi occhi verdi, che cambiavano colore a seconda della luce riflessa che li colpiva.
Un corpo snello, asciutto, ma non privo di forme; il seno appena accennato e la pelle chiara come la luna, più bianca del bianco.
Le piaceva osservarsi, toccarsi; le piaceva cercare errori ed imprecisioni sul corpo, però non era capace di trovarne nessuno.
L’ego e l’orgoglio, almeno in parte, le erano stati utili per superare gli anni del liceo senza alcun intoppo. Si piaceva così com’era e piaceva agli altri per questo.
Una volta, su un libro di letteratura, ebbe modo di leggere una citazione di Leopardi, di cui fece tesoro.
“L'impressione di piacere”, recitava l’autore, “può rimanere tale fino a quando non si è certi di piacere soprattutto a se stessi.”
Una filosofia di vita che adottò come propria. Era questo, essenzialmente, il motivo per cui amava la letteratura tanto quanto la medicina. Perché, sebbene l’ultima salvasse gli altri, la prima salvava sempre e comunque se stessi.
Un altro momento della domenica che preferiva era la sera.
Nonostante i suoi facessero ritorno nel pomeriggio, riusciva in ogni caso a ritagliarsi qualche ora dopo la cena.
Indossò con nonchalance gli occhiali da vista, tanto grandi da coprirle due quinti del volto, ed iniziò a leggere un libro dopo l’altro, tenendo le gambe ferme in posizione orizzontale per non far traballare il computer adagiato su di esse.
Digitò qualche citazione al computer, per poterle rileggere nel tempo, e, nel mentre, contattò qualche compagno di corso per organizzare una serata prevista per il venerdì sera della settimana entrante.
«Andrò al concerto di mio cugino Mitch. Suona in un locale appena fuori Londra. Ti va di venire?», le chiese Collin.
Norah digitò velocemente la risposta, sbadigliando apertamente.
«Certo… Mitch… Mitch… Lo conosco?», domandò.
«Non credo. Vive a Dublino e viene con la sua band per il fine settimana», rispose. «Lui e Evan, il suo migliore amico, si fermeranno in città qualche altro giorno. Puoi aggiungerli se vuoi», aggiunse il ragazzo.
Cliccò sui link esterni che Collin le passò ed aggiunse dapprima Mitch, distrattamente, non facendo molto caso al ragazzo in sé.
Fu poi la volta di Evan. Sorrise ingenuamente, per un motivo ancora poco chiaro, persino a se stessa.
«E’ carino!», constatò, ridacchiando.
«Se lo dici tu… Ma stai attenta. E’ un tipo… particolare», ribatté l’amico.
«Particolarità è sinonimo di unicità», mugugnò tra sé, sibilando nel mentre quelle parole.
«Ora stacco, Col! A domani.» Mise in stand-by il computer, sporgendosi stancamente verso il comodino, sul quale l’adagiò.
Sfilò gli occhiali, infine, e si rannicchiò contro il cuscino, stringendolo convulsivamente. Aprì e chiuse gli occhi più volte, stavolta, per abituarsi al buio presente in camera, schiudendo le labbra per respirare.
«Particolare…», sibilò, abbozzando un sorriso sbilenco.
Si rigirò tra le lenzuola fresche di bucato, abbandonandosi al sonno solo dopo qualche minuto.











Note d'Autore: Salve a tutti! Finalmente, dopo quasi due settimane, ho aggiornato con un nuovo capitolo, il primo per l'esattezza. Come sempre è stato betato e corretto da Hanna Lewis che, per chi non lo sapesse, è mia sorella.
Vi ringrazio infinitamente per il sostegno che mi avete dato in ognuna delle vostre recensioni al Prologo. Voleva essere una sfida verso me stessa, per capire fino a che punto sarei riuscita a spingermi con l'introspezione.
Ad ogni modo, spero restiate soddisfatti del risultato. Il percorso è lungo ma sono sicura che con la dedizione e con il vostro supporto, potrò fare tanto e scrivere tanto.
A presto, cari lettori.


Patrice Walsh
   
 
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