L’erba è bagnata e la notte è nera.
Silenzio, accenni di tempesta.
Eren resta steso a pancia in su, puntando il dito contro quegli astri che non può vedere.
Metafora della condizione umana, che brama ciò che non riesce ad afferrare.
Salvezza.
Tum tum.
Il vento soffia e porta con sé desideri che sanno di libertà, anacronistiche utopie flebili come ramoscelli in inverno.
Sarà esso stesso a spezzarli, perché nessuno ci crede davvero.
«Pensi che alla gente piaccia restare in questa gabbia?».
Levi non risponde, non lo fa mai.
No, vorrebbe dire. Però la gente è anche troppo codarda per rischiare il tutto per tutto. Tu non puoi capirli, moccioso. Il coraggio non ti manca.
Eren si volta, lo fissa, lo bacia.
La sua bocca è calda a dispetto del resto.
Sa di casa, sa di ciò che lo fa sentire vivo.
Aria, fuoco, speranza e tutto insieme.
Levi ricambia quel bacio impacciato, accartocciando i sensi di colpa nel più recondito angolo della sua mente.
Quel ragazzo è ciò che serve all’umanità e ciò che serve a lui per tornare a sentirsi umano: ingenua innocenza nelle mani di chi innocente non lo è mai stato.
Rivaille si scosta, perché in quell’incontro di labbra potrebbe lasciarci più se stesso di quanto desideri.
Giorni vuoti e notti troppo brevi, da quando la campagna silenziosa fa loro da giaciglio.
Troppe parole sulla lingua di Eren, che moriranno lì non per mancanza di coraggio, bensì per paura di rompere l’idillio. Sa bene che è tutto un precario gioco di equilibri in cui il primo passo falso costa non la morte ma il cuore.
Anime tormentate e bisognose di certezze in un mondo che si sfascia sotto i loro piedi.
Levi sospira, guardando lontano.
Rassicurare e fare promesse non gli è consentito: potrebbero morire il giorno dopo e lui è stufo di sentirsi un bugiardo.
Poi la vede, la luce fioca di una stella che sfida le nubi e si lascia ammirare.
Eren gli stringe la mano.
Tum tum, tum tum.
Speranza.