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Autore: Aelian    30/07/2014    3 recensioni
John faceva di tutto per evitare di pensare alle leggende che si sussurravano al villaggio, ma quelle continuavano a ronzargli in testa, insistenti; l’Albero aveva un guardiano unico nel suo genere, una creatura solitaria che aveva votato la sua esistenza immortale alla protezione di quell'albero, probabilmente antico quanto lui.
* * *
«Intendi dire che dovrò rimanere qui per sempre?» mormorò, la gola secca ed il cuore che perdeva un battito.
Fawnlock tirò su col naso, inclinando la testa da una parte.
«Oh no, certo che no, non per sempre;» rispose infine. «solo fino alla tua morte.»
Genere: Fantasy, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Furry
Capitoli:
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III.

Feral Scent

 

Don’t let me go
‘Cause I’m tired of feeling alone

 

Pioveva. Anzi, diluviava. La pioggia fine si schiantava sulle foglie, sui rami degli alberi, riempiendo la mente di John col suo incessante martellare; copriva tutto di una sottile patina liquida, ed ogni cosa pareva brillare di luce propria nella luce della prima mattina.

La pioggia aveva infradiciato anche Fawnlock, che non sembrava però curarsene troppo: John seguiva i suoi movimenti dall’angolo riparato dove si era seduto, le ginocchia strette al petto nel tentativo di conservare un minimo di calore corporeo. La pelliccia di Fawnlock si era scurita, tingendosi di oro scuro, e le macchie color ebano che gli adornavano il corpo snello erano diventate quasi nere; i capelli ricci erano fradici, appiccicati alla sua fronte dalla pioggia incessante, e le sfumature che a John erano sembrate così belle alla luce sanguinea del sole all’alba erano stinte in un uniforme colorito castano scuro.

John non poteva fare a meno di tenere i suoi occhi fissi su quella creatura che aveva creduto leggenda fino a poche ore prima, di seguire i movimenti aggraziati del corpo perfettamente modellato dalla pelliccia fradicia che aderiva ai muscoli sottili, in continuo movimento sotto la pelle mentre il guardiano raccoglieva enormi rami spezzati per accendere il fuoco.

Le nuvole correvano veloci sopra le loro teste, ed in breve sembrarono risucchiare tutti i colori della radura, lasciando John e Fawnlock in una penombra grigio-verdastra.

Gli occhi del ragazzo abbandonarono le movenze silenziose del guardiano per tornare sul grande tronco lattiginoso al centro esatto dello spiazzo erboso.

«È l’albero di cui parlano tutte le leggende, quello coi frutti magici?» La caviglia gli faceva ancora male, ma perlomeno Fawnlock l’aveva districato dalla trappola; e solo allora si era reso conto di cosa sorgeva nel bel mezzo della radura.

Illuminato dalla luce scarlatta dell’alba pareva un comune albero secolare, un platano forse, dalla corteccia molto chiara; ma appena il sole era stato abbastanza alto e le ombre della notte erano tornate ad acquattarsi nei loro angoli, a John era mancata l’aria nei polmoni.

Si era ritrovato a fissare un enorme tronco dalla corteccia color del latte, solcata da scanalature infinite, e da cui nascevano rami larghi ad occhio e croce come la sua vita, che si intrecciavano tra di loro al di sopra della radura e le cui ombre creavano disegni fantastici sul tappeto d’erba ai piedi di John.

Ma ad una seconda occhiata i rami apparivano secchi, e la maggioranza delle foglie blu notte che un tempo dovevano aver adornato quel legno maestoso formavano ora una corolla morta tra le sue radici, e dei leggendari pomi non vi era nemmeno l’ombra.

«Sì,» aveva risposto Fawnlock, il volto rivolto alla cupola cinerea punteggiata dal blu notte delle sparute foglie ancora attaccati ai rami sopra di loro, gli occhi fieri velati di una tristezza ancestrale e terribilmente profonda, talmente tanto da toccare l’animo di John e da farlo sentire come se stesse interrompendo un momento incredibilmente intimo. «ed ora sta morendo.»

John non aveva saputo cosa replicare; la voce della creatura leggendaria al suo fianco era così piena di tristezza che qualunque cosa fosse uscita dalla sua bocca di umano gli sarebbe sembrata fuori posto, troppo piccola per compensare anche in minima parte un dolore così grande.

Aveva tirato su col naso, fissandosi in silenzio le punte consunte delle scarpe finché non aveva avvertito due occhi scrutarlo, e si era voltato; Fawnlock lo osservava con espressione indecifrabile, la schiena curva per abbassarsi alla sua modesta altezza –il guardiano lo superava infatti di tutta la testa e le spalle, ed inaspettatamente un sorriso aveva curvato quelle labbra dalla forma così bizzarra.

«Sei una strana creatura, John Watson, e mi piaci per questo.»

John non si era chiesto come facesse a sapere il suo nome, aveva smesso di farsi domande da un po’. Si era rimproverato più volte per quell’attimo in cui aveva mostrato qualcosa di simile alla compassione nei confronti di quella creatura che lo aveva catturato ed ora si scaldava le mani al fuoco che aveva acceso tra le radici dell’albero mastodontico; esili scie di fumo si levavano dalla pelliccia umida, e John si limitò a stringersi le ginocchia al petto, affondandovi maggiormente il mento. Non si sarebbe avvicinato a quel fuoco per nulla al mondo, anche a costo di morire assiderato.

Fawnlock dal canto suo si limitava a lanciargli occhiate maliziose dal ceppo su cui era seduto, le lunghe gambe incrociate sotto di lui; lungo il suo addome scendeva una linea di scarmigliati peli neri, che si infittivano dove le gambe sottili si congiungevano al busto. John spostò in fretta lo sguardo, imbarazzato ed insieme furioso con sé stesso per aver mostrato tanta attenzione a quel corpo, maschile per di più.

Sentiva le guance ardergli per la rabbia, e la risatina beffarda che gli giunse alle orecchie –segno che il guardiano aveva notato dove l’attenzione del ragazzo si era concentrata- non fece altro che farlo infuriare ancora di più.

Serrò la mascella, guardando l’erba fradicia ed incolta alla sua destra nel tentativo di non pensare alla situazione in cui era finito; dopo averlo liberato dalla trappola Fawnlock non l’aveva legato o simili, e si era limitato a rispondere con un sorriso beffardo quando il ragazzo aveva osservato che sarebbe potuto scappare in ogni momento.

«Non lo farai» aveva affermato il guardiano sogghignando, le braccia incrociate sul petto cosparso da macchie scure, ed una luce ironica a brillargli negli occhi.

John aveva alzato il mento con aria di sfida, più per cercare di annullare la differenza d’altezza che per altro, e «Tu che ne sai?» aveva replicato tentando di non mangiarsi la parole.

La luce negli occhi di Fawnlock era improvvisamente diventata gelida, come se l’inverno fosse arrivato in anticipo per quella creatura senza tempo. «Lo so e basta, umano.»

Umano. John seppellì con rabbia le unghie nella carne del palmo, fissando con astio l’erba scossa dal vento al suo fianco come se cercasse di incenerirla.

Stava ancora rimuginando sulle parole del guardiano, su cosa intendesse dicendo che lui non sarebbe scappato e basta quando qualcosa gli picchiettò dolcemente su una spalla. Il ragazzo sentì il cuore accelerare i battiti, e tutto ciò che aveva provato nel corso della notte precedente –terrore, ansia, panico- si riversarono nuovamente su di lui, amplificate. Si voltò di scatto, respirando affannosamente, i nervi tesi; nessuno. Alle sue spalle c’era solo la Foresta a ricambiare il suo sguardo.

Colto da un pensiero improvviso, si voltò verso Fawnlock, appollaiato sul suo ceppo d’albero; i contorni della figura sottile erano resi incerti dalla pioggia sempre più fitta, e John dovette strizzare gli occhi per accertarsi che ci fosse davvero qualcuno su quel ceppo marcio, le ginocchia strette al petto e lo sguardo che pareva rapito dalle fiamme che divampavano sotto il mastodontico albero.

Di nuovo, mentre lui era distratto dal guardiano, qualcosa gli toccò la spalla, ma con maggiore insistenza.

Ma quando John tornò a voltarsi, non c’era nessuno.

Sbuffò sonoramente, corrugando le sopracciglia, e tornò a pensare come sarebbe potuto sfuggire alla sorveglianza del guardiano e tornare al villaggio possibilmente senza perdersi nella Foresta. Si sistemò meglio sul suolo duro, stringendosi le ginocchia al petto ed afferrandosi con forza i polsi; ma quando si voltò nuovamente in direzione dell’albero cinereo, trovò un paio d’occhi gelidi ad aspettarlo a pochi centimetri dal suo volto corrucciato.

Sussultò, e Fawnlock ridacchiò in risposta. Il guardiano era a quattro zampe sull’erba fradicia, il viso coperto di pelliccia umida talmente vicino al suo che John poteva osservare le narici dilatarsi ad ogni respiro, che puntualmente si infrangeva contro la sua pelle. Il corpo sottile di Fawnlock si tese lentamente verso di lui, ed il profumo ferale della creatura sovrastò tutto il resto.

John indietreggiò, ma Fawnlock era decisamente più rapido, ed in un attimo costrinse il ragazzo con la schiena contro il tronco dell’albero sotto il quale si era riparato, lanciandogli sguardi maliziosi mentre si mordeva il labbro inferiore.

«Stammi lontano» protestò John tra i denti, tendendo il collo nel tentativo di tenere il suo viso lontano dalla portata dell’altro. Fawnlock si fece più vicino, sfiorando l’incavo del collo del ragazzo con il naso umido, cosa che fece gemere disperato John.

«Perché ti ostini a rimanere sotto quest’albero, al freddo? Morire assiderato è la tua personale vendetta contro di me?» mormorò ignorando la domanda dell’altro e nel contempo cercando i suoi occhi con quelle gemme di ghiaccio che mettevano John tanto in soggezione.

Il ragazzo s’infuriò ancora di più, perché quella creatura sovrannaturale sembrava capirlo perfettamente nonostante si “conoscessero” solo da poche ore. Decise di rimanere in silenzio.

Dopo averlo spiato da sotto le ciglia per un po’, un sorriso appena accennato si fece strada sulle labbra piene di Fawnlock, che con un movimento rapido tuffò la testa scarmigliata e grondante di pioggia nell’incavo del collo di John. Uno dei due corti corni che nascevano da quell’ammasso disordinato di ricci sfiorò lo zigomo del ragazzo, che era rimasto senza fiato a quel gesto così strano.

Sentì un denso rossore farglisi strada sulle guance.

Fawnlock rimase immobile, gli occhi chiusi, perso in quell’abbraccio così freddo che sapeva di sapone da bucato, resina e qualcos’altro, qualcosa di buono. L’odore di John, si ritrovò a pensare, ed inspirò più a fondo mentre portava una mano sulla schiena del ragazzo, stringendo il maglione nel pugno per tenere quel corpo caldo il più vicino possibile. Quel ragazzo aveva un odore diverso da tutti gli altri umani che aveva incontrato, migliore, non voleva che se ne andasse e portasse con sé il suo profumo.

Era una creatura egoista, Fawnlock, infantile, che aveva sempre conosciuto una vita fatta di sola solitudine; ed ora quel ragazzo dall’odore così inebriante, diverso, e dagli occhi troppo blu sconfinava nel suo territorio in piena notte, e aveva fatto scattare qualcosa in lui, qualcosa diverso da una rabbia ancestrale ed ingiustificata, per una volta.

Non voleva che John Watson lasciasse la sua radura, non voleva più conoscere la solitudine.

Ma quell’abbraccio gelido si concluse troppo in fretta; John staccò rudemente quella strana e leggendaria creatura dal suo collo, affondando per la prima volta della corta pelliccia del costato di Fawnlock e spingendolo lontano dal suo corpo in subbuglio; il suo odore ferale e selvaggio gli aveva dato alla testa, ed il ragazzo si sentiva quasi ubriaco.

«Stammi lontano, per favore non toccarmi» si ritrovò a dire con tono quasi di supplica, le guance e le orecchie in fiamme.

Fawnlock fu rapido a nascondere il lampo di delusione che baluginò nei suoi occhi azzurri, ma John parve notarlo comunque, ed i suoi zigomi si colorarono ancora di più di un adorabile rosso scarlatto.

«Okay» esordì la creatura mettendosi in ginocchio. John si costrinse a tenere lo sguardo fisso sulle sue mani serrate, per non osservare il movimento dei muscoli nel corpo statuario a pochissima distanza da lui.

Fawnlock si era rizzato in piedi, e lo squadrava con sguardo glaciale dalla sua altezza impressionante. «Okay,» ripeté. «come se avessi acceso quel fuoco per te» concluse con freddezza mentre tornava ad immergersi sotto la pioggia, le ampie spalle chine come sotto un peso insopportabile, e le scapole tanto sporgenti che sembravano sul punto di bucare la pelliccia color caramello nuovamente fradicia.

Ma John si disse che si era probabilmente immaginato tutto, poiché la pioggia fitta confondeva la visuale del mondo al di fuori di quella piccola bolla creatasi sotto le fronde del suo albero ai confini della radura.

 

 

Don't let me go, Sam McCarthy & Harry Styles

  
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