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Autore: NoceAlVento    30/07/2014    4 recensioni
Cosa succede a Kalos? Forze oscure agiscono nell'ombra, perseguendo i loro ignoti obiettivi ai danni di innocenti; misteriosi frammenti di una gemma celeste sono apparsi nella regione dal nulla; una ragazza, anche se non ancora non lo sa, è stata tenuta sotto segreta osservazione per tutta la sua vita. E in tutto ciò c'è Bellocchio, appena precipitato da un'aeronave in fiamme e portato a scoprire che cela un passato lontano a Kalos, anche se non l'ha mai vista in vita sua. Nuovi capitoli ogni due settimane!
 
***
 
« Ehi, non mi hai detto come ti chiami! ».
« Bellocchio ».
« Bellocchio chi? ».
« Cos’ho appena detto riguardo le domande stupide? ».
« Ma ti chiami davvero così? ».
« Ma certo che no! Chi mai si chiamerebbe Bellocchio, è un nome ridicolo! ».
Genere: Avventura, Comico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: OOC, Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Untitled 1

Breve precisazione tecnica: questo episodio, pur essendo parte della continuity generale di LKNA, non appartiene al flow principale della storia. In termini profani, è un autoconclusivo incentrato su personaggi terziari e dai toni volutamente poco seri. Esiste perché luglio 2014 era lungo due settimane di troppo. Chiamatelo 1x16.5, se vi aiuta a sentirvi meglio.

 

Su consiglio del mio avvocato, dichiaro di non aver assunto sostanze psicotrope durante la stesura del capitolo che segue.

 

 

 

 

 

 

« Il pollo ama la polla, il passero la passera, ma tutti quanti amano Ned Flanders! ».

Katie si scostò un lungo ciuffo biondo dal volto e gettò uno sguardo oltre la fenditura parietale che fungeva d’accesso al soggiorno. La piccola Ivy era assoggettata alla televisione, seguendo con pupille rapide il susseguirsi di immagini che davano vita al cartone animato. L’ormai quasi terminata puntata di oggi era incentrata a sua volta sugli show all’interno dell’universo fittizio, in una sorta di gioco di metateatro dalle battute non sempre agevoli per una bambina così piccola, tanto che Katie si domandava come facesse a divertirsi. O forse non era più così piccola, e semplicemente aveva ancora stampato nella mente il suo corpicino al battesimo, in cui tra l’altro sua sorella Silvia era stata nominata madrina.

« … e così Anne-Marie ha dovuto divorziare! Capisci, per una roba del genere! Ma io mi chiedo, non poteva semplicemente chiudere un occhio anziché impuntarsi come suo solito? E invece… Ah, ma lo dico sempre io… Piuttosto lasci il lavoro. Cioè, quando si tratta di donne in carriera gli uomini hanno ragione poi a… Insomma, ne va anche della felicità del bambino! ».

Katie scosse leggermente la testa come destatasi da un breve torpore e tornò a osservare la donna di fronte a sé. Un anno in meno di lei, ma nata a dicembre e dunque in grado di frequentare la sua stessa classe alle elementari, i loro destini non avrebbero potuto essere più diversi: assistente personale dell’Intermediario Faubourg una, commessa a tempo indeterminato delle Galeries Ételfay l’altra.

« Ma perché una dovrebbe per forza scegliere tra carriera e famiglia? Voglio dire, gli uomini fanno entrambe le cose ».

« Eh, ma noi siamo donne… Cioè, è nel nostro DNA! » replicò Bryonia risoluta sorseggiando il caffè; a sua detta il quinto quella mattina, ed erano solo le dieci e mezza.

Katie non beveva caffè preferendo le spremute, e quindi attinse a sua volta da un bicchiere sul tavolino. « Ma scusa, non è quello che hai fatto tu con Mark? ». Mark era il suo precedente marito, precedente perché ormai separato per cause mai veramente chiarite. La stessa Bryonia cambiava versione ogni volta che ne parlava.

« Ah, ma con lui è diverso, cioè… Lui pensava che… sì, vedendo me e il signor Faubourg sempre insieme… Ah, ma i maschi pensano sempre a quello, lo dico sempre io. Comunque ho fatto la mia scelta coscienziosamente, mica come quella poco di buono di Anne-Marie… Eh! ». Il fiume di parole si interruppe quando il suo occhio cadde sulla radiosveglia posta sopra il davanzale della finestra: 10:46 di mercoledì 20 marzo. « Uh! » sobbalzò « Ma è tardissimo! Ivy, tesoro, dovremmo già essere fuori! Muoviti o faremo tardi per la piscina! ».

Con scatto felino Bryonia corse a recuperare la figlia, interrompendo sul nascere un nuovo programma televisivo, e Katie si alzò per anticiparle alla porta. Proprio mentre stava per aprire udì il proprio campanello suonare, cogliendola pienamente di sorpresa: chi poteva essere di prima mattina nel suo giorno libero? Titubante aprì la porta per trovare un uomo vestito con quelli che potevano essere gli abiti di suo nonno, dai corti capelli che iniziavano a ingrigirsi e un sorriso impacciato accompagnato da un cenno della mano.

« Lei… Mi scusi, ci… ».

I vaghi rantoli di Katie furono interrotti da Bryonia che, in tutta fretta, aveva preso in braccio Ivy per non perdere tempo. Alla vista della sagoma in piedi alla soglia fu insicura su come salutarla, pur avendola incontrata più di una volta, principalmente per il suo problema nel ricordare i nomi altrui. « Oh… Ciao, Isidore, come va? Oh, che gentile, hai lasciato qui l’ascensore! Scusa se non mi trattengo ma siamo in un ritardo mostruoso… Grazie per l’ospitalità, Katie! ».

Pur non avendo la donna atteso risposta quello la salutò approssimativamente, glissando come poteva sull’errore grossolano da lei commesso sull’identità « Sì… Ciao, Rosa… ».

Alla chiusura delle porte la coppia fu di nuovo sola sul pianerottolo e l’uomo provò uno sgraziato approccio di cameratismo « Allora, Katie, come va la vita? Io sono Craig, sai, collega di Silvia… Non so se ti ha detto ».

« Per te è Katrina » replicò glaciale prima ancora di qualsiasi altra cosa. Conosceva Craig solo di nome, e dalla descrizione fatta da sua sorella non sembrava essere stato investito della confidenza necessaria per bussare a case di famiglia a orari simili e senza preannunciarsi. Se d’improvviso avesse deciso di accordare a tutti i viventi il permesso di chiamarla Katie, lui sarebbe stato tra gli ultimi a saperlo. « Che ci fai qui? ».

« Ah, beh, ecco… È imbarazzante in effetti… Il fatto è che, uhm… avrei bisogno del tuo aiuto ».

 

 

 

Episodio 1x17

Women’s Day

 

 

 

Craig appariva anche più piccolo del solito quando era seduto, anche se il termine più corretto per la sua postura sarebbe accovacciato. Stava ricurvo sulla sua tazza di tè caldo, che era in effetti l’unica bevanda con cui si mostrava di solito. « Ah, poi non ho… Tutto bene dopo il coma? » inquisì timidamente tra gli sbuffi che soffiava per freddare il liquido ambrato.

« È come aver dormito » rispose brevemente Katie, un’accurata reiterazione che aveva affinato durante l’arco della giornata precedente, quando era stata tempestata di domande a riguardo. Doveva essere anche finita su un giornale, probabilmente, visto che un cronista si era presentato sotto casa. « Perché sei qui? ».

« Mi serve il tuo aiuto ».

« Questo l’hai già detto. Sii più specifico ».

« Sì, sì, ecco… Silvia ti ha detto di stasera? ».

« A dire il vero ci siamo parlate per poco. È stata diverso tempo al Frattale, i Flare volevano assicurarsi che stesse bene dopo essere entrata in contatto con una vittima del Dio » spiegò Katie « Che succede stasera? ».

« L’ho… Beh, invitata a cena. Tua sorella… è un po’ difficile da dire, però… ».

« Ti piace » completò la donna infastidita dalla lentezza di espressione di Craig e, in minima parte, gelosa del fatto che sua sorella ricevesse sempre tutte le attenzioni. Quando qualcuno viene a chiederti aiuto per simili materie, non sentirsi l’ultima ruota del carro è difficile. « E vuoi il mio aiuto per… conquistarla? ».

« Sì, diciamo così, non sarei tanto brusco, ma… ».

« Lo sai che non ho mai avuto un ragazzo in vita mia? Non sono esattamente ferrata in materia ».

« Sì, ma è tua sorella. Meno di me non puoi saperne, o no? ».

« Diciamo così. Cosa ti fa pensare che ti aiuterò? Non siamo amici, che mi risulti » proseguì Katie contrariata. Cos’è, siccome era sua sorella doveva automaticamente fare combutta con i suoi spasimanti? E per che cosa?

La voce di Craig si fece, se possibile, più mansueta dell’ordinario « Se non mi aiuti non ho speranze! Cioè, io le donne non le capisco… Al Liceo devo chiamarla tre volte solo per avere la sua attenzione, però poi accetta l’invito al ballo… e a cena stasera. Capisci? Se faccio la mossa sbagliata rischio di giocarmela! ».

Katie sospirò con rassegnazione. Il racconto di Craig non l’aveva impietosita più di tanto, ma se si fosse rifiutata di aiutarlo quello sarebbe caduto nello sconforto di sicuro, e allora sì che non avrebbe avuto alcuna speranza. E poi un soggetto psicolabile come lui chissà a cosa sarebbe potuto arrivare per la depressione… No, se proprio si doveva suicidare non l’avrebbe avuto sulla coscienza.

« Dove vuoi portarla? » chiese stancamente.

« Sua madre mi ha prenotato un tavolo al Sushi Sans Chichis, secondo lei è il ristorante più romantico di Luminopoli ».

Katie sbuffò. Non era “secondo lei”: il ristorante più romantico di Luminopoli era esattamente lo slogan del Sushi Sans Chichis. Se anche al posto di romantico fosse andato costoso, comunque, non sarebbe stato meno veritiero: una prenotazione di mesi prima costava un occhio della testa, e se aveva capito bene l’invito di Craig era arrivato ieri. Se mai avesse avuto dubbi su chi era la figlia prediletta, erano appena scomparsi.

« Come diamine l’hai convinta a farti fare una prenotazione lì? ».

« Ah… È stata una sua idea, io neanche so che ristorante sia ».

Già, Craig era di Novartopoli. Certo che non conoscere il Sushi Sans Chichis… Pazienza, anche Henry Molaison stesso avrebbe una speranza lì. Ciò, quantomeno, semplificava il lavoro. Forse non era un’impresa tanto disperata.

« Va bene, parti da una buona base. Ora stammi bene a sentire, ti dirò quello che so per certo che piace o non piace a mia sorella ».

« Spara » assentì lui sfilando taccuino e penna a sfera dal taschino della giacca.

« Punto numero uno: detesta il cacao. Non prendere nulla che lo contenga e fermala se sta per prenderne. Punto numero due: non fare lo stupido. A Silvia non piace chi la fa ridere, piace chi è intelligente. In questo dovresti essere avvantaggiato, visto che entrambi sapete abbastanza di fisica. Fai commenti di alto livello ogni volta che puoi ».

« … ogni volta che posso… » ripeté Craig segnando a velocità superluminale tutto ciò che usciva dalla bocca della donna « Ricevuto ».

« Punto numero tre: non provare mai a prendere qualcosa dal suo piatto, nemmeno per assaggiare. Non chiederglielo nemmeno. A Silvia piace mangiare. Questa dovrebbe essere facile da seguire. Oh, però ignora questa regola se si tratta di cacao » soggiunse Katie, soffermandosi poi perché il professore finisse di annotare « Punto numero quattro: non parlare troppo. Silvia ama raccontare di sé, lasciale la parola il più possibile ».

« Ma non avevi detto che dovevo fare commenti acculturati? Come faccio senza parlare? ».

« Ehi, questo è ciò che piace o no a mia sorella. Non ho mai detto che avrebbe avuto un senso » protestò Katie « Punto numero cinque: se vedi che non ha più voglia di ciò che sta mangiando, finiscilo al posto suo. Odia fare figuracce, e non vorrà lasciare cibo e offendere lo chef ».

Craig intervenne per la seconda volta « Ma scusa, e il punto tre? E il non toccare il suo piatto? ».

« Cos’ho appena detto sul senso? ».

« Ma come faccio a ricordarmi tutto questo senza un ordine logico? Non potrò mica consultare i miei appunti durante la cena! » esclamò esasperato l’uomo, curvando la schiena anche più di prima nell’avvilimento « Sono rovinato ».

Katie lo osservò pensierosa. No, ovviamente non poteva portarsi con sé i promemoria per esaminarli. O meglio, forse una volta in tutta la sera andando alla toilette, ma sarebbe ugualmente risultato sgarbato. C’era però un’alternativa.

« E se invece fossi io a suggerirti? ».

Craig alzò la testa esitante « Come? ».

« Il proprietario attuale del Sushi Sans Chichis è un mio vecchio conoscente. Potrei convincerlo ad assumermi come cameriera questa sera, in questo modo potrei aiutarti in diretta e dirti cosa stai sbagliando ».

L’innamorato balzò in piedi ancora prima di attendere ulteriori dettagli. Senza che la diretta interessata potesse opporsi si precipitò ad abbracciarla in un impeto di felicità stranamente fuori carattere per uno come lui: per la prima volta intravedeva la possibilità del successo, e ciò aveva inibito ogni freno dettato dall’insicurezza. « Grazie, Katie, è una grande idea! ».

« Per te è Katrina! ».

 

 

Il Sushi Sans Chichis si trovava al bivio terminale di Rue de Turbigo, via trafficata del primo arrondissement. L’edificio, per quanto sobrio nella decorazione frontale – campeggiava, sotto al nome del locale, solo il già citato motto promozionale –, era di dimensioni ragguardevoli, incutendo reverenza al solo sguardo. Non era ostruito da una lunga fila come si potrebbe pensare, principalmente per il suo costo: con una cena completa per due si poteva pagare almeno un terzo delle rette universitarie di un anno intero. In effetti, tra stipendio e mance, Katie avrebbe avuto più probabilità di autofinanziarsi gli studi come cameriera al Sans Chichis che non come precaria alle Galeries.

La prima stanza in cui ci si imbatteva una volta entrati era stranamente modesta; o meglio, stranamente per chi non conoscesse le politiche del ristorante. Per buffe decisioni manageriali non era consentito accedere al salone interno prima dell’ora di cena – unico momento in cui il locale era aperto –, per garantire il massimo della sorpresa ai novizi. Un solo, stretto bancone in marmo presieduto dal proprietario e un’elegante anticamera delle dimensioni di un piccolo soggiorno domestico: finché non ti impegni a pagare, questo è ciò che riceverai.

Katie avanzò fino al freddo ripiano lastricato e attirò l’attenzione del trentenne dietro di esso. Quello, con un finto sorriso di benvenuto, si limitò a salutare « Buongiorno. Desidera prenotare un tavolo? ».

« Ma come, Arthur, non mi riconosci? ».

L’uomo strinse gli occhi come se ciò lo aiutasse a ricordare; poi, d’un lampo, identificò il volto che aveva di fronte « Katie! ».

« Proprio io! » esclamò lei ilare, reprimendo con tutta la sua forza di volontà l’impulso di correggere l’abbreviazione del suo nome.

« Ma guardati, quanto tempo è passato… Cos’è, dieci anni? ».

« Anche di più! So che alla fine sei entrato alla Normale! ».

Arthur l’aveva incontrato allo stage che aveva tenuto presso l’École Normale Supérieure, l’unica sua possibilità, saltati i finanziamenti della madre, per frequentare un istituto di livello universitario. Non era passata per un soffio, ma questa era un’altra storia. Fatto sta che quell’Arthur l’aveva perseguitata lungo tutte le due settimane con insistenti inviti a cena al Sushi Sans Chichis, al tempo di proprietà del padre. Se anche non fosse entrato nella scuola – e alla fine invece ce l’aveva fatta, pur con qualche dubbio sulla meritocrazia di tale successo –, era matematicamente certo che sarebbe finito al ristorante di famiglia.

« … e così sono finito al ristorante di famiglia! Francamente non ci avrei puntato nulla » commentò il giovane dopo uno sproloquio autoreferenziale di cui Katie non aveva seguito una parola « Allora, perché sei qui? ».

« Volevo un tavolo per… Beh, domani sera se non ti spiace… Lo so che c’è una lista, anzi, se non c’è posto lo capisco ».

« Ah, domani sera? » ripeté quello aprendo il registro delle prenotazioni con un tonfo « Beh, vedo cosa posso fare… Per due, immagino… ? ».

« Beh… » iniziò Katie abbassando il tono della voce e sbattendo le sue lunghe ciglia corvine « … questo dipende da te ».

Esistono due tipologie di geni: quelli abbastanza intelligenti da comprendere i problemi che derivano dalle loro doti, e quelli convinti che il mondo esista solo per loro. E sicuro come l’oro Arthur non apparteneva alla prima categoria. Le sue posizioni di prestigio dentro e fuori dal mondo dell’istruzione gli avevano instillato la convinzione di essere un inguaribile donnaiolo, senza accorgersi che l’oggetto del desiderio delle sue amanti si trovava più spesso nella tasca posteriore dei pantaloni che non in quella anteriore. In tre parole, era comodamente circuibile.

Come previsto il suo istinto di indomito cacciatore si manifestò in tre fasi: una risata di circostanza, l’inarcamento del sopracciglio destro e una smorfia complice. « Mi piacerebbe molto ».

Con inflessione melliflua, Katie portò avanti il suo spettacolo. « Davvero? Sicuro che non disturbo? ».

« Per niente! Ah, cioè… Tengo sempre uno o due tavoli di riserva, sai, per… gli ospiti speciali… » proseguì scrivendo un segno sull’elenco con mano tremante « Allora, domani alle nove? Ti vengo a prendere io, se mi dai l’indirizzo ».

« Oh, non serve, vengo da sola » replicò con finta ingenuità Katie « Però, uhm… Non è che stasera potrei dare uno sguardo al salone… ? Non mi sento a mio agio in posti che non conosco… ».

« Ah, questo è più difficile… Voglio dire, non pensi che disturberesti… Non che io… » domandò a spizzichi Arthur, interrompendosi a un nuovo sguardo seduttivo della donna « Beh… Potrei metterti come cameriera, ecco! Non devi servire nessuno, ovvio, però potresti aggirarti tra i tavoli ».

« Grazie mille! Allora a domani! » Katie concluse la recitazione saltellando verso l’uscita con il sorriso sulle labbra per poi svoltare immediatamente a destra; appena fu certa di essere fuori dal campo visivo dell’uomo riprese un’andatura normale e sogghignò.

Arthur non l’avrebbe mai fatta entrare quella sera se non avesse avuto la certezza di un ricambio immediato. E del resto, una cena gratis al Sans Chichis rappresentava per lei una doppia rivalsa: verso quell’allupato, a cui non avrebbe concesso nemmeno di accompagnarla di nuovo a casa; e verso sua madre, che aveva dovuto sborsare un patrimonio per qualcosa che lei avrebbe ricevuto a scrocco. In più ora poteva aiutare nella sua impresa Craig, che a confronto dello scompaginato proprietario era quasi un partner credibile per sua sorella.

Tre piccioni con una fava. Il sogghigno si tramutò in risata di soddisfazione.

Nel frattempo Arthur, non certo uno stakanovista, si era concesso una pausa nel suo ufficio personale, per fumarsi una sigaretta nell’autocompiacimento. In silenzio osservava con un sorriso sul volto le volute prodotte dal fumo grigio platino, sprofondando sulla sua sedia. Dopotutto l’aveva sempre saputo che Katie aveva un debole per lui, i segnali erano troppo evidenti per ignorarli. Fantasticò sulla notte del giorno seguente, predisponendo mentalmente tutto perché la cena fosse la migliore della vita della ragazza. Diamine, era il proprietario, avrebbe anche potuto cancellare tutte le altre prenotazioni e avere il locale tutto per loro due.

Crash.

Arthur abbassò lo sguardo con un mugugnò di domanda: uno dei suoi vasi, prima in perfetto equilibrio su uno scaffale a muro sul lato opposto della stanza, era appena capitombolato a terra andando in frantumi. Occhieggiò i cocci pregiati stancamente, non trovando in sé la voglia di raccoglierli. Chi se ne frega, disse tra sé e sé, ci penserà la colf. Che poi, come aveva fatto a cadere?

 

 

La sera era giunta stranamente presto quel dì, a Luminopoli. Ben prima del previsto il cielo terso teatro di un viavai di sporadiche nuvolette si era tinto di arancione per poi scurirsi al crepuscolo, lasciando intravedere solo gli astri più luminosi sotto l’influsso delle luci al neon della città. Katie si era presentata puntualmente alle otto e un quarto, mezz’ora prima dell’ora prefissata per l’appuntamento tra Craig e sua sorella. Arthur le aveva consegnato un’uniforme bianca e nera con un occhiolino; lì per lì non aveva capito, ma indossandola si era resa conto che quella taglia era più piccola della sua, con il risultato che la divisa le andava terribilmente stretta, mettendo in risalto le sue forme a probabile uso e consumo di quel depravato. Normalmente avrebbe reagito, ma non poteva rischiare che Arthur fosse in giro al momento di accogliere la coppia che lei aspettava, o si sarebbe reso conto di essere stato raggirato. Così allentò tutti i bottoni che riuscì ad allentare – senza slacciarne uno, la sua immagine ne avrebbe pesantemente risentito – e, alle ore 20:44 precise, uscì dalle cucine ed entrò nel salone.

Vi era transitata non molto tempo prima, ma allora aveva ancora tutte le lampade accese; e non era certo quella vista a fare la fortuna del Sushi Sans Chichis. Le cene si tenevano al contrario nel buio quasi totale, ad eccezione di singoli fari policromi che pendevano sopra ogni tavolo rischiarandolo soffusamente; ciò, unito alle quattro pareti ovattate che attutivano rimbombi ed echi all’interno della hall, rendeva ogni postazione un microcosmo a sé, dove gli amanti si sentivano isolati dal mondo e liberi di parlare l’uno con l’altro sinceramente. Questa mirabile invenzione era stata registrata due generazioni prima dai proprietari del ristorante, con il risultato che adesso era severamente vietato copiarla. Persino Katie dovette concederlo: per la poca idea del romanticismo che aveva, quella ne era la miglior rappresentazione.

Fu tanto rapita dallo scenario che quasi non si accorse di Craig e Silvia, appena entrati dall’anticamera, e per poco non se li fece soffiare; tuttavia con uno scatto degno di una centometrista si precipitò da loro, porgendo il benvenuto. Erano entrambi vestiti con abbigliamento formale: se per l’una ciò era consuetudine per le grandi occasioni, Katie aveva dovuto lottare non poco per convincere l’altro che la sua usuale giacca marrone arachide non sarebbe stata una grande idea.

« Buonasera » li salutò falsando leggermente la voce e scambiando al contempo un’occhiata complice con l’uomo « Prego, da questa parte ».

Detto ciò si scansò per lasciarli passare e, dal momento che Craig era posizionato per secondo, colse l’occasione per redarguirlo sottovoce da dietro « Tieni la schiena dritta! ». Quello scattò sull’attenti, e ora sembrava più adatto a un campo militare che a un rendez-vous.

Il tavolo a loro destinato era collocato quasi al centro della sala, e conoscendo la madre di Silvia e Katie probabilmente non era un caso. La coppia si sedette e la cameriera improvvisata porse non senza nervosismo due eleganti menù dall’involucro in pelle. Quindi, dopo un nuovo sguardo d’insieme ai due, si allontanò verso le cucine. A prima vista entrambi sembravano tesi, il che poteva significare che dopo tutto sua sorella non era del tutto indifferente nei confronti del professore. Del resto, a quanto le aveva raccontato Craig, aveva già accettato l’invito al ballo della scuola di alcuni giorni prima.

Li stava tenendo d’occhio da un po’ attraverso l’oblò incavato tra le porte lignee che separavano il salone dalla zona chef quando si accorse che qualcun altro stava facendo lo stesso con lei. Era un uomo di colore sulla trentina come lei, capelli corti e ordinati sul capo, stessa uniforme della donna – per converso, se a lei andava stretta a lui andava decisamente troppo larga –, e le sue iridi scure la stavano squadrando da un po’. Katie sentì il suo anulare destro vibrare di collera: d’accordo, sopportare quel maniaco di Arthur era un conto, ma non sarebbe certo stata mani in mano a farsi rimirare da qualsiasi cameriere bavoso. Si avvicinò lui con passo deciso e sopracciglia aggrottate.

« C’è qualche problema? » domandò irata.

Lui emise un risolino e fece un gesto incomprensibile con il braccio, come a negare « No, no, non è per… ». Quindi indicò la divisa.

« Credi che non reagirò siccome sono una donna? Non sono certo un pezzo di carne appesa dal macellaio ».

« Stai completamente fraintendendo » rispose quello, sempre con quella fastidiosa risatina di sottofondo.

« Ah, sì, certo. E suppongo mi stessi guardando perché… ? ».

« Tu non sei una cameriera regolare, dico bene? ».

« Solo perché questo vestito mi va stretto? ».

« Pensavo più alla gonna indossata al contrario » completò lui, e finalmente il sogghigno che portava stampato in volto cessò.

Katie sobbalzò abbassando lo sguardo, ed effettivamente era vero: i bottoni erano nel posto sbagliato. Come aveva fatto a non accorgersene? Ah, certo, forse perché era troppo occupata a cercare di starci dentro. « Beh » commentò cercando di mantenere un tono serio « Stai tranquillo, un’incompetente come me non ti ruberà certo il posto. Sono qui solo per stasera ».

« Non era in cima alle mie preoccupazioni » spiegò lui con calma « Sono nella tua stessa posizione. Imbucata anche tu, giusto? ».

Oh, sussultò mentalmente Katie. Tutta quella rabbia diretta a uno che in fondo era esattamente come lei. Un po’ le dispiacque per le parole che gli aveva rivolto, ma non lo diede a vedere. « Una specie, in realtà conosco il proprietario. Scusa, ma imbucato per cosa? ».

« Piacere, Kevin K » rispose sorridente l’uomo stringendole la mano. Sul momento la ragazza non capì visto che la sua domanda era tutt’altra, ma le bastò poco per collegare: Kevin K. Non era un nome che si sentiva spesso, e a buona ragione: era l’inviato di punta di Le Monde, famoso per i suoi scoop scandalistici e i reportage sotto copertura. Lo Sapevi K, di Kevin K. Come non conoscere quella rubrica?

« Ma tu sei quello che ha denunciato i ritardi di pagamento alle commesse delle Ételfay! Grazie mille, dopo quell’articolo sono finalmente riuscita ad avere i soldi per l’affitto! » esclamò avendo cura di non essere sentita e ricambiando vigorosamente la stretta « Sei qui per un altro servizio? ».

Kevin portò l’indice alla bocca – silenzio – e la accompagnò all’oblò della cucina: lì indicò un tavolo un po’ più a sinistra di quello di Craig e Silvia, al quale era seduto un uomo solitario. Katie lo osservò meglio: era di bassa statura, dal volto ovale e i capelli unticci, completamente assorto sulla sua degustazione di sashimi.

« Chi è? ».

« Risponde al nome di Saul McGill, e fino all’altro ieri era al fresco nel Carcere di Luminopoli. Dopo l’evasione hanno ripreso tutti, ma lui è stato lasciato andare » proseguì Kevin « Se stanotte ho fortuna potrei riuscire a capire perché ».

« Interessante! Beh, buona fortuna. Io devo–– ». Si interruppe. Craig e Silvia! Si era interessata tanto all’indagine del giornalista che aveva scordato la ragione per cui era lì. In preda all’ansia si precipitò nel salone per dirigersi al loro tavolo: di questo passo, dopo tutti i suoi tentativi per migliorare l’aspirante fidanzato, sarebbe finita che la cena l’avrebbe rovinata lei stessa.

I due, quantomeno, stavano parlando, il che poteva significare molto bene o molto male. Si rese conto appena arrivata al loro posto che non aveva portato un taccuino per le ordinazioni, e del resto se l’avesse preso si sarebbe accorta prima che Kevin glielo comunicasse che le tasche non erano sul lato giusto. Si sentì quasi in colpa a interrompere la conversazione, ma andava fatto. « Siete pronti per ordinare? ».

La coppia si guardò confusa, poi Silvia prese la parola « Ma… veramente abbiamo già ordinato ».

Katie sgranò gli occhi: impossibile, era stata di là tutto il tempo. Avrebbe chiesto informazioni ulteriori, qualcosa sulla linea di chi diavolo mi ha rubato l’unica cosa che devo fare stasera, ma non volle rischiare che sua sorella la riconoscesse.

Inviperita fece dietrofront e quasi sfondò le porte della cucina per poi attraversare il locale da capo a capo fino alle scale che conducevano all’ufficio di Arthur. Non le importava nulla che scoprisse che l’aveva beffato come un bambino, anzi, le avrebbe fatto immensamente piacere. Tanto qual era il caso peggiore, l’avrebbe trascinata fuori attraverso la hall? Distruggendo l’atmosfera romantica per i suoi clienti? Che lo facesse, avrebbe urlato e rovinato la sera a tutti.

« DA QUANDO IN QUA IN UN RISTORANTE LE CAMERIERE SI RUBANO I TAVOLI? » proruppe entrando a passi pesanti nello studio del proprietario. Convincente. Un solo neo nel suo ingresso ad effetto: non c’era nessuno ad assistere. Si guardò attorno: dalla soglia della porta non c’erano forme viventi in vista. Arthur non era certo tipo da lasciare il Sushi Sans Chichis incustodito.

Per sicurezza aggirò la scrivania, e il cuore le si fermò in gola. Un corpo privo di sensi era appoggiato alle gambe della poltroncina, disarticolato e pallido. Katie si chinò di scatto e si accostò alla sua bocca, verificando con sollievo che respirava ancora. Però non pareva rispondere a stimoli elementari, e in risposta a ciò una parola si materializzò nella mente della donna, una parola che avrebbe preferito dimenticare: Dio. Isidore aveva garantito che qualunque cosa fosse associata quel termine era stata debellata l’altra notte, quando lei e Adele si erano risvegliate, ma evidentemente doveva essersi sbagliato. Il Dio era ancora in giro, si era preso Arthur, e ora aveva trovato casa al Sushi Sans Chichis.

 

 

« … Beh, è finita che Faubourg ha finanziato personalmente la spedizione e, scava che ti scava, hanno recuperato i resti del cannone a gravitoni di Colress! Certo, le parti salienti sono andate bruciate negli scontri della notte, ma Ginger mi ha detto che hanno estratto un modulatore di Gauss quasi intatto! » concluse eccitata Silvia, assaporando poi un sorso di vino rosso dal calice in vetro che aveva di fronte.

Craig fece lo stesso, più per meccanismi mentali di emulazione che per sete reale. « Un modulatore funzionante? Non viola il teorema di Carnot? ».

« Vero? Ci ho pensato anch’io. Lo inviano domani a mia cugina, a Castel Vanità. Non vogliono portarlo fino al Frattale, dicono che rischiano di danneggiarlo, quindi domani andrò là e darò un’occhiata. Se riuscisse anche solo a produrre energia sufficiente per raggiungere metà del valore critico sarebbe una rivoluzione ».

« Beh, Colress era un fisico davvero valido, non mi sorprenderebbe » chiosò Craig. Per ora tutti gli argomenti di conversazione li aveva proposti lei, visto che lui si trovava in uno stato catatonico indotto dall’impaccio. Katie si era fatta vedere solo all’accoglienza per poi scomparire, che stava aspettando? Non pensava che––

« Ecco i vostri antipasti! » annunciò una voce dal lato sinistro del tavolo, precedendo di poco una cameriera, mora e più in carne di Katie, che reggeva goffamente le loro due portate. Curiosamente Craig aveva deciso di optare per la stessa pietanza di Silvia per fare buona impressione, e lei aveva finito per prendere il carpaccio di pesce misto, uno dei piatti che lui preferiva. Il professore alzò lo sguardo alla donna in uniforme riuscendo a scorgere per un istante un suo contatto visivo prolungato con Silvia che aveva un che di complice. Aveva preso il posto di Katie dalle ordinazioni in poi, e non li aveva mai lasciati un attimo, tenendoli sotto controllo anche a distanza. Un’ipotesi gli solleticò la mente, ma la respinse con risolutezza come impossibile.

L’altra cameriera, congedandosi con un sorriso, si avviò quindi alle cucine e aprì la porta dolcemente. Appena dentro qualcuno la afferrò per il colletto e la sbatté al muro, provocandole un mezzo infarto.

« Allora sei tu che mi rubi il lavoro, eh? Sei fortunata che ho altri problemi oggi, o finivi male! Quindi non farmi perdere tempo e resta lontana da quel tavolo, intesi? ».

Metà dello staff del Sushi Sans Chichis interruppe ciò che stava facendo per osservare la scena. Qualcuno accennò a una indecisa reazione, ma lo sguardo di fuoco dell’aguzzina respinse anche i pochi audaci. La cameriera cercò gli occhi di colei che l’aveva aggredita, trovando che era stata con poca sorpresa una collega. Aveva anche sospetti su quale: doveva essere quella che aveva accolto la coppia che stava servendo al momento del loro ingresso. In prima battuta tentò di giustificarsi, accorgendosi poi che la donna aveva un che di familiare. Di molto familiare.

« Katie? ».

Quella si ritrasse incredula, stringendo le palpebre nella confusione. La sua reazione istintiva sarebbe stata “per te è Katrina”, ma c’era una questione più rilevante da risolvere. « Come sai il mio nome? ».

« Sei davvero tu? Che cosa ci fai qui? ».

« Rispondi alla mia domanda! » ordinò aprendo gli occhi completamente e aumentando la forza della presa.

« Adele! Sono Adele! ».

A Katie fu necessario qualche secondo per metabolizzare la scoperta. Kevin, rimasto a debita distanza per tutta la durata del colloquio, ne approfittò per separare le contendenti.

« Tu sei… ».

Lei in risposta sfilò la spilla con cui aveva tenuto legati i capelli, svolgendo la sua corta chioma color mirtillo come normalmente la portava. Ciò convinse definitivamente l’amica: la somiglianza non lasciava dubbi.

« Oddio… Oddio, scusa per aver… Scusami! » abbozzò in un tentativo di farsi perdonare.

« Non è nulla, tranquilla, sto bene… Ma aspetta, quindi anche tu sei qui per Craig e Silvia? ».

« Che significa anche? Craig ha chiesto aiuto anche a te? » la interrogò Katie, sempre più disorientata.

« Craig! Ma no, mi ha chiesto aiuto Silvia! ».

Katie non era certa fino a un attimo prima che vi potesse essere una rivelazione più scioccante del fatto che la sua migliore amica si trovasse al Sans Chichis con lei a sua insaputa, e invece eccola là. Silvia? Chiedere aiuto? « Non ci sto capendo nulla » intervenne Kevin K, a esternare ciò che anche la donna stava pensando – e, con ogni probabilità, il resto del personale che assisteva alla scena.

« Ma te l’ho detto, no? » ricominciò Adele, stavolta all’indirizzo del giornalista « Che mi sono imbucata per dare una mano a un’amica a conquistare quell’uomo a cena. Mi stavi ascoltando, vero? ».

« Come? » sobbalzò Katie, che aveva segnato nuove vette di sbalordimento « Tu lo sapevi? E non ti è passato per la mente di dirmelo? ».

« Ehi, ehi, calma » protestò Kevin « Come dovevo sapere che vi conoscevate? ».

« Va bene, va bene, credo che serva qualche spiegazione » convenne Katie, prendendo ella stessa per prima la parola « Craig è venuto stamane a casa mia e mi ha chiesto aiuto per stasera, così ho proposto di infiltrarmi come cameriera per aiutarlo. Tu, Adele? ».

« Qualcosa di simile. Beh, per la verità tua sorella mi ha chiamato parecchio tempo fa, parlandomi di questo professore che le piaceva e chiedendomi consigli. L’ha notato verso, boh, metà dicembre, quindi direi che sono circa tre o quattro mesi che va avanti » spiegò l’amica « Il resto è più o meno come quello che hai detto tu, anche se è stata Silvia a suggerirmi di imbucarmi ».

« Ma non ha senso. Craig mi ha detto che Silvia le parlava a malapena! ».

« Certo, gliel’ho consigliato io! » esclamò Adele con orgoglio « Voglio dire, Isidore con me fa così, e lo amo di più ogni giorno! ».

Katie era senza parole. Sapeva da tempo della cotta che Adele si era presa per Isidore, l’amico di Craig, e da tempo sapeva che lui tendeva a ignorarla. Ma non certo per farsi desiderare: semplicemente Isidore era privo di qualunque emozione umana. Solo la sua compagna poteva pensare di suggerire una tattica simile, solo lei.

« Ma scusa, quindi con te e Kevin siamo in tre infiltrati di nascosto » osservò Adele con un dito sul mento, pensierosa « Questo posto non è proprio sicuro, giusto? ».

« Beh, a dire il vero io non sono entrata di nascosto. Vedi, c’è questa cosa che Art–– ».

Arthur. Il corpo collassato sulla sedia. Se ne era completamente dimenticata. Erano tutti in potenziale pericolo e lei stava a parlare dell’appuntamento.

E, nemmeno a dirlo, le luci si spensero di colpo. Mentre ancora il neonato gruppo si stava assestando dopo le ultime notizie, l’intera cucina era stata immersa nel buio scatenando il panico. A tastoni Katie, Adele e Kevin si ritrovarono, cercando di ignorare il vociare degli chef e degli altri camerieri. Seppur con qualche difficoltà legata al rumore di fondo la prima riuscì a spiegare ciò che sapeva o aveva intuito: il coma di Arthur, il ritorno del Dio e, per quanto brevemente, la sua precedente esperienza con esso.

« E quindi ora che si fa? » domandò Kevin.

« Se questo Dio è ancora in giro, di sicuro si sta muovendo approfittando del buio ». Katie gettò un’occhiata alla porta di comunicazione, constatando che pur essendo chiusa oscillava come se qualcuno l’avesse appena spinta. Nessuno era uscito per non scatenare il panico, quindi doveva trattarsi per forza del loro nemico. Al di là della soglia i fari erano ancora accesi, ma non sarebbe stato difficile aggirarli e spostarsi tra i tavoli. Se volevano sconfiggere il Dio, dovevano prima sconfiggere l’oscurità.

« Vai al quadro elettrico » intimò Katie al reporter « Dovrebbe essere da qualche parte nell’ufficio di Arthur, o lì intorno, comunque di sicuro oltre le scale in fondo. Accendi le luci del salone ». Kevin annuì con un cenno del capo e, procedendo a tentoni, si allontanò. La donna si rivolse quindi ad Adele e, con poche e concise parole, le disse di seguirla.

Le due entrarono nella hall delle cene. Nonostante il rumore prodotto dai cuochi nessuno pareva allarmato, probabilmente perché si era confuso con quello degli stessi clienti del ristorante. Vederli consumare indisturbati il cibo in una situazione simile era quasi grottesco, ma quantomeno erano tranquilli. Il che era un bene: fintanto che nessuno avesse acceso la miccia del terrore, la situazione poteva essere mantenuta sotto controllo.

« Aaaaaaaah! ».

Katie e Adele trasalirono all’unisono. Non tanto per il grido, ma per qualcosa di più preoccupante: conoscevano la voce. Il silenzio calò di colpo, vanificando l’intera considerazione precedente, e la coppia si voltò con uno scatto in direzione del tavolo di Craig e Silvia. O, per meglio dire, il tavolo di Silvia e di un corpo immobile rovesciato sul ripiano in legno.

La bionda trentenne si alzò con rapidità felina precipitandosi dal professore e scuotendolo invano, chiamando il suo nome senza capire cosa stesse accadendo, per puro istinto. Sia la sorella che la confidente in amore rimasero impalate, gli occhi sgranati, cacciagione facile per un predatore invisibile. Internamente ciascuna sperava in un miracolo, un deus ex machina in grado di salvarle da una condizione che appariva insolvibile. Tra le voci una sovrastava le altre: quella di Saul, che imprecava a un ricevente imprecisato.

« Ma non è possibile! Non anche mentre mangio, cazzo! Mentre mangio, almeno! Mentre mangio! ».

Flash!

Tutto era successo così rapidamente che nemmeno quell’improvviso colpo di scena riuscì a risultare più sconvolgente. L’onda di luce accecò i presenti per un po’, essendosi ormai abituati al buio, ma alla fine si dissolse in dettagli vividi e coloriti. Il Sushi Sans Chichis si presentò per la prima volta al pubblico completamente illuminato, lucido negli intarsi dei seggi quanto per contrasto incredibilmente povero di dettagli laddove normalmente alle perturbazioni luminose non era concesso battere. Lussuoso e rustico al contempo, e tanti saluti a due generazioni di segreti.

Grazie, Kevin, pensò Katie sollevata. Il suo capo roteò di trecentosessanta gradi in un batter di ciglia per acquisire una visione d’insieme della sala, tra cenanti spaesati e chef che iniziavano a uscire dalle cucine, rendendosi conto che la circostanza era ad almeno sei fermate di bus dall’ordinario. E le bastò poco per inquadrare, in ritirata strategica verso l’uscita ma col capo ben fisso sulle possibili vittime e minacce, il Dio.

Ovvero il non-Dio. Perché in effetti tutto sembrava meno che quello: la sagoma inondata dal bagno di luce era di un bipede umanoide simile a una donna in carne dalla pelle color pece, con goffamente indosso un lungo abito rosso che le scendeva ai piedi. Gli astanti la contemplavano con orrore, e il Pokémon a sua volta restituiva la medesima diffidenza. Nessuno osava agire per primo temendo una ritorsione dell’altro, il che era quasi un nonsenso considerate le parti: chiunque si trovasse al ristorante quella sera difficilmente poteva vantare un numero di vittime vicino a quello di Jynx.

Katie non osò chiedere se ci fosse un Allenatore tra loro: in caso di risposta negativa avrebbe comunicato alla creatura che non avevano difese, e mantenere il bluff era più sicuro. Sfortunatamente, Adele non fu dello stesso avviso.

« Ehi, c’è un Allenatore qui? » gridò a vuoto, ottenendo come temuto nessuna replica. In compenso l’uomo del tavolo cinque, in seconda linea rispetto all’ingresso del Sans Chichis, sfilò dalla tasca il cellulare in un probabile tentativo di chiamare le autorità. Senza attendere un istante Jynx mimò il gesto di un bacio e un raggio violaceo fuoriuscì dalla sua bocca, centrandolo in pieno e facendolo crollare al suolo per lo sgomento della sua amante. Tutti arretrarono nel panico, atterriti all’idea di essere i prossimi. Tutti tranne una.

« Riportalo indietro ».

Silvia era rimasta avanti rispetto alla massa, ma ciò non doveva essere abbastanza per lei: forse senza nemmeno pensare alle conseguenze mosse altri due passi verso Jynx, la quale alzò le braccia in segno di difesa. « Riportalo indietro, ho detto ».

Katie osservò la scena sbigottita, colta da una paralisi folgorante nell’attimo in cui aveva visto sua sorella sfidare il Pokémon che aveva appena riprodotto poteri del tutto uguali a quelli del Dio dei giorni scorsi. « Torna qui, Silvia » la implorò sforzandosi di non tradire la paura che covava dentro « Ti prego, torna qui ». La sua voce generò un effetto sonoro inquietante nel salone ovattato, non echeggiando pur nel silenzio completo.

Non sarebbe tornata. Non avrebbe ceduto un millimetro alla sua diretta avversaria, e Katie lo sapeva bene ancor prima di aprire bocca per la supplica. Silvia aveva chiesto aiuto ad Adele mesi prima, il che significava che al momento amava Craig almeno tanto quanto lui amava lei. E nessuno si può interporre tra due innamorati: non un Dio, non un falso Dio, e di certo non una sorella intimorita. Sarebbe morta piuttosto che arretrare.

« È ancora vivo? » domandò ad un tratto Silvia, non distogliendo per un secondo lo sguardo da Jynx.

« Come? ».

« Craig. È ancora vivo? ».

« Io… Io non lo so, non so cos’abbia… Ti prego, torna qui o farà lo stesso anche a te! ».

« Bacialo… » esclamò d’un tratto una terza voce, meno acuta e meno determinata. Katie si voltò a destra, dove Adele aveva l’espressione di chi aveva appena trovato la soluzione alla domanda da un milione di dollari. « Bacialo, Silvia! » ripeté, stavolta con più convinzione. Quella la sbirciò confusa, se non altro però retrocedendo leggermente.

« Che dici? » le domandò l’amica che le era di fianco, sussurrando per non farsi sentire dal pubblico già di per sé fonte d’imbarazzo.

« Quell’attacco somiglia a un bacio, no? Magari se ne dà uno a sua volta inverte l’effetto! ».

« Questa è la cosa più ridicola che abbia mai sentito! ».

« Ma no, invece, ha senso! È come un ritorno di fiam–– ».

« No, senti, cerchiamo di ragionare seriamente, d’accordo? » la interruppe Katie innervosita « Se ci impegniamo sono sicura che possiamo uscirne, ma non con queste assurdità ».

« Per l’amor del cielo, BACIALO! » gridò Adele, e il suo urlo sovrastò l’ultima parte del discorso che l’altra ragazza stava ancora tenendo. Seguì un trambusto rumoroso tra le due litiganti, fermento che disorientò Silvia al punto che, le mani tremanti, afferrò per la giacca il corpo inerte di Craig e premette le sue labbra su quelle fredde di lui. Una lacrima le scivolò ruvida sulla guancia, ma bruciava come una ferita aperta.

Per un lasso di tempo che parve infinito nulla accadde, ma per loro fortuna furono solo pochi secondi nel mondo reale: poi un fioco alone rosato avvolse la coppia mentre il professore, senza comprendere cosa stesse succedendo, riaprì gli occhi. Appena dopo il bagliore si condensò in un singolo nodo e si proiettò sotto forma di raggio energetico dritto contro Jynx che, sbalzata all’indietro, cadde a terra qualche metro più in là con un tonfo spento. Gli occhi sgranati di Katie rotearono da un angolo all’altro della stanza, incapaci di accettarlo: il piano più improbabile della storia aveva funzionato. Gettò uno sguardo di lato per notare che l’altro uomo che era caduto in quella notte, oltre ad Arthur ancora nel suo ufficio, si era appena ripreso. Non era un evento isolato: tutte le vittime di Jynx si erano risvegliate.

Tornò a osservare Craig e Silvia che dopo aver prolungato il bacio fino a quel momento si stavano ora scambiando un dialogo inudibile a quella distanza. Katie non cercò di avvicinarsi, e convinse Adele a fare lo stesso: dopo tutto quello che avevano passato, dopo mesi di corteggiamento convinti di non piacersi l’un l’altro, dopo aver letteralmente salvato l’intera clientela di un ristorante da una situazione apparentemente senza uscita, si meritavano un minuto di sollievo.

 

 

Convincere gli avventori ad andarsene non fu un’impresa ardua come avrebbe potuto essere: alle ragazze fu sufficiente annullare il conto che ciascuno avrebbe dovuto pagare quella sera e garantire che sarebbe stata loro registrata una prenotazione nei giorni seguenti. Arthur si fece vivo poco dopo che la prima onda di clienti ebbe lasciato il locale e spiegargli l’accaduto non fu semplice; tuttavia Katie riuscì a strappargli la realizzazione di tali promesse, se non altro perché il ristorante avrebbe visto la propria immagine sbiadirsi in caso contrario. E poi non aveva dimenticato la menzione dell’uomo di “tavoli di riserva”, come vi si era riferito quella stessa mattina.

Estenuato e confuso il proprietario si allontanò il più in fretta possibile negli uffici sul retro per regolare i nuovi posti a sedere lungo l’arco delle settimane successive, lasciando dietro di sé un esercito di cuochi e inservienti incaricati di ripulire il caos lasciato dall’emergenza odierna. Katie si diresse verso Adele che, mentre lei gestiva diplomaticamente gli interessi del Sushi Sans Chichis, era rimasta a guardia della povera Jynx, ancora K.O. dopo il bacio tra Craig e Silvia, ormai ben distanti nella loro passeggiata notturna. Nessuna delle due giovani aveva ben compreso l’accaduto, nemmeno colei che aveva proposto la soluzione, e per la verità erano decisamente sorprese che avesse funzionato. A volte, forse, è meglio non farsi troppe domande e accettare certi eventi per ciò che sono: prodigi.

« Ancora dorme? ».

« Non ha mosso un muscolo ».

« E ora che facciamo? ».

« Beh » cominciò Adele con un sospiro « Kevin ha detto che avrebbe chiamato la polizia. Credo saranno qui a momenti e la porteranno via. Secondo te la libereranno? ».

« Non penso. Che io sappia la Polizia può risalire alla Poké Ball che ha impresso la riscrittura sinaptica al Pokémon, il che vuol dire che possono individuare il proprietario. Certo, a quel punto passerà qualche guaio » concluse Katie.

Proprio in quell’istante una voce possente spezzò il meccanico tintinnio delle posate che venivano rimosse dai tavoli, seguita da un fracasso di colluttazione.

« Dove vai, eh? » tuonò derisoriamente Kevin K dall’anticamera del ristorante, facendo poi capolino attraverso la porta di tramite con un uomo basso e tozzo stretto sotto la robusta presa del suo braccio. Senza battere ciglio trascinò l’imprigionato lungo mezza hall, ignorando il persistente dimenarsi di quest’ultimo. « Ho beccato questo furbone mentre si nascondeva sotto al tavolo di là ».

Adele lo squadrò a occhi stretti, cercando di ricordare quando l’aveva già visto. Domanda di facile risoluzione: pochi minuti prima. « Ah, lui è il… Saul, giusto? ».

« Proprio lui » rispose il cronista abbassando lo sguardo sui capelli unti dell’ometto « Immagino volesse sgraffignare qualcosa dal locale, eh? ».

« Beh, buon per te » commentò Katie con un sorrisetto « Potrai fare l’articolo che volevi, giusto? ».

« Temo di avere poco tempo, purtroppo. La polizia arriverà a momenti ».

Sulle ultime parole Saul palpitò e iniziò a dibattersi con maggiore intensità « Gli sbirri no! No, vi prego! ».

« Rilassati » lo tranquillizzò Kevin con un tono paternalistico intriso di scherno « Non ti ho colto sul fatto, non ti porteranno nemmeno in centrale. Per farmi un favore dovresti perlomeno dirmi perché ti hanno liberato ieri ».

« No, no, no, voi non capite! Lasciatemi andare! » li implorò, la sua voce che soffriva di acuti improvvisi dettati dal panico. Si rivolse disperatamente al giornalista « Ti dirò quello che vuoi! Dimmi un giorno e un’ora, anzi, ti do il mio indirizzo, ma per favore, lasciami andare! ».

« Calmati due secondi, santo cielo! Cos’hai, droga in tasca? » lo sbeffeggiò Kevin. Poi a metà tra presa in giro e curiosità nelle tasche spiò davvero, ma non c’era nessuna sacchetto compromettente: solo una Poké Ball lucida tinta di un rosso metallizzato. Fin troppo lucida, in effetti: pareva nuova.

Katie impiegò due secondi netti a mettere insieme i pezzi del puzzle. L’unica preda appetibile per un ladro al Sushi Sans Chichis sarebbe stato l’incasso della serata, ma in quell’occasione non ce n’era visto che le cene erano state abbuonate. Non si era trattenuto per quello. « Tu sei il proprietario di quel Jynx, vero? ».

Lo sguardo dell’interrogato non diede adito a dubbi: teso, furioso, serrato su un volto madido di sudore. Adele e Kevin, pur non avendo imboccato il percorso mentale della donna, compresero che doveva aver indovinato.

« Io non sapevo che… Davvero! » sbraitò Saul tremante « L’avevo lasciata al mio appartamento a Reuilly perché non ho il porto! Non so nemmeno come mi abbia trovato, sta a chilometri! ». Di nuovo tentò una fuga, ma il suo custode non allentava un momento la stretta.

Kevin inarcò le sopracciglia « Un Pokémon può sempre rintracciare la sua Poké Ball. Lo sanno tutti gli Allenatori! ».

« È quello il punto: lui non è un Allenatore » puntualizzò Katie con convinzione « Avrà comprato quel Jynx, di certo non catturato. Per questo ha così paura che la polizia trovi lui o il Pokémon: tempo che scoprono che è suo e scatta l’arresto per detenzione abusiva e danno arrecato ».

Uno stinto suono di sirene giunse alle loro orecchie in un crescendo evidente. Parevano lontane, ma considerando l’insonorizzazione del ristorante in realtà potevano già essere alle porte.

« Ti prego, ti prego! » ripeté freneticamente Saul « Non mi dare alla polizia, sono appena uscito! ».

Adele si voltò verso Katie, e altrettanto fece Kevin, entrambi aspettandosi che fosse lei a compiere la decisione cruciale. La donna sogghignò e si chinò per arrivare all’altezza occhi del fuorilegge, le cui gambe erano afflosciate a terra. Aveva quasi rovinato l’appuntamento di sua sorella: meritava una punizione esemplare. Da quel punto di vista forse il carcere non era abbastanza.

« Non ti consegnerò » replicò con uno sguardo affabile, ma il suo tono fu tutt’altro che rassicurante.

 

 

Luminopoli aveva anche un altro soprannome, uno che ricorreva solo in particolari occasioni: la città degli innamorati. Le ombre dell’Île de la Cité, i suoi caldi lampioni gialli e la romantica Senna che tagliava in due la Ville Lumière brillavano di poesia sotto una falce di luna crescente. Craig e Silvia volteggiavano da una parte all’altra del Pont des Arts, le cui balaustre erano vetrina involontaria di una moltitudine di variopinti lucchetti lasciati negli anni passati da innumerevoli amanti. Ridevano, perlopiù; ogni tanto si fermavano a parlare, altre volte invece a osservare i riflessi luminosi del fiume sottostante. Ora lei gli stava indicando in lontananza la guglia della Sainte-Chapelle, senza mai cessare lo sfoggio di quel sorriso che lui adorava.

« Ehi, guarda che ho mosso » borbottò Saul con impazienza.

La bocca di Isidore si contorse a sua volta in una smorfia che da una certa distanza avrebbe potuto ricordare anch’essa un risolino. Girò le spalle alla finestra del suo attico e ai due innamorati per tornare a concentrarsi sulla scacchiera. Il suo ospite aveva portato un pedone in g4, ma si rese conto quasi subito che dalla situazione precedente era cambiato qualcos’altro. Con un sospiro di rassegnazione si posizionò compostamente sulla sedia e, gli occhi fissi sull’avversario, arretrò il suo cavallo di due caselle alla posizione originaria.

Saul lanciò un grugnito di frustrazione: il suo imbroglio non era andato a buon fine. « Potevi almeno lasciarlo dov’era, non è che tu stia perdendo ».

« Che non stia perdendo è evidente » ribatté Isidore serenamente, muovendo poi la regina in h4 « Scacco matto ».

« Ancora? » protestò l’uomo, andando a controllare effettivamente che il suo re non avesse mosse disponibili. Per la dodicesima volta non poté far altro che concordare, afflosciandosi esausto sulla seggiola. « Ma tu non dormi mai? ».

« Sonno polifasico » rispose Isidore alzandosi e dirigendosi verso l’angolo cottura « Dormo sei volte al giorno per venti minuti. Vuoi fare uno spuntino? ».

« Finalmente! Sto morendo di fame! ».

« Allora questo fa al caso tuo » Isidore aprì e chiuse rapidamente il frigorifero, tornando al tavolo con un vasetto trasparente contenente una sostanza marroncina e tre o quattro gambi di sedano.

Saul squadrò con diffidenza lo snack quale veleno a lui ignoto, soffermandosi sull’inquietante barattolino. « Che diamine sarebbe? ».

« Hummus ».

« Mi stai dando da mangiare della terra? ».

« Quello è l’humus, normodotato » lo corresse Isidore, svitando il coperchio per poi intingere lo stelo verdognolo nella salsa e morderlo rumorosamente « L’hummus è pasta di ceci e sesamo. Prego, non fare complimenti, ci penso io a sistemare i pezzi per la prossima partita ».

Saul emise un rumoroso mugugno di lamentazione e logorato si abbandonò allo schienale. Iniziava a capire perché quella donna lo avesse parcheggiato lassù anziché darlo in pasto alle autorità di Kalos.

Perché le donne sanno essere molto più spietate di quanto appaiano.

   
 
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