Breve precisazione tecnica: questo
episodio, pur essendo parte della continuity generale di LKNA,
non appartiene al flow principale della storia. In termini profani,
è un autoconclusivo incentrato su personaggi terziari e dai toni volutamente
poco seri. Esiste perché luglio 2014 era lungo due settimane di troppo.
Chiamatelo 1x16.5, se vi aiuta a sentirvi meglio.
Su consiglio del mio avvocato, dichiaro
di non aver assunto sostanze psicotrope durante la stesura del capitolo che
segue.
« Il pollo ama la polla, il passero la passera,
ma tutti quanti amano Ned Flanders! ».
Katie si scostò un lungo ciuffo
biondo dal volto e gettò uno sguardo oltre la fenditura parietale che fungeva
d’accesso al soggiorno. La piccola Ivy era assoggettata alla televisione,
seguendo con pupille rapide il susseguirsi di immagini che davano vita al
cartone animato. L’ormai quasi terminata puntata di oggi era incentrata a sua
volta sugli show all’interno dell’universo fittizio, in una sorta di gioco di
metateatro dalle battute non sempre agevoli per una bambina così piccola, tanto
che Katie si domandava come facesse a divertirsi. O forse non era più così
piccola, e semplicemente aveva ancora stampato nella mente il suo corpicino al
battesimo, in cui tra l’altro sua sorella Silvia era stata nominata madrina.
« … e così Anne-Marie ha dovuto
divorziare! Capisci, per una roba del genere! Ma io mi chiedo, non poteva
semplicemente chiudere un occhio anziché impuntarsi come suo solito? E invece…
Ah, ma lo dico sempre io… Piuttosto lasci il lavoro. Cioè, quando si tratta di
donne in carriera gli uomini hanno ragione poi a… Insomma, ne va anche della
felicità del bambino! ».
Katie scosse leggermente la testa
come destatasi da un breve torpore e tornò a osservare la donna di fronte a sé.
Un anno in meno di lei, ma nata a dicembre e dunque in grado di frequentare la
sua stessa classe alle elementari, i loro destini non avrebbero potuto essere
più diversi: assistente personale dell’Intermediario Faubourg una, commessa a
tempo indeterminato delle Galeries Ételfay l’altra.
« Ma perché una dovrebbe per
forza scegliere tra carriera e famiglia? Voglio dire, gli uomini fanno entrambe
le cose ».
« Eh, ma noi siamo donne… Cioè, è
nel nostro DNA! » replicò Bryonia risoluta sorseggiando il caffè; a sua detta il
quinto quella mattina, ed erano solo le dieci e mezza.
Katie non beveva caffè preferendo
le spremute, e quindi attinse a sua volta da un bicchiere sul tavolino. « Ma
scusa, non è quello che hai fatto tu con Mark? ». Mark era il suo precedente
marito, precedente perché ormai separato per cause mai veramente chiarite. La
stessa Bryonia cambiava versione ogni volta che ne parlava.
« Ah, ma con lui è diverso, cioè…
Lui pensava che… sì, vedendo me e il signor Faubourg sempre insieme… Ah, ma i
maschi pensano sempre a quello, lo dico sempre io. Comunque ho fatto la mia
scelta coscienziosamente, mica come quella poco di buono di Anne-Marie… Eh! ».
Il fiume di parole si interruppe quando il suo occhio cadde sulla radiosveglia
posta sopra il davanzale della finestra: 10:46 di mercoledì 20 marzo. « Uh! »
sobbalzò « Ma è tardissimo! Ivy, tesoro, dovremmo già essere fuori! Muoviti o
faremo tardi per la piscina! ».
Con scatto felino Bryonia corse a
recuperare la figlia, interrompendo sul nascere un nuovo programma televisivo, e
Katie si alzò per anticiparle alla porta. Proprio mentre stava per aprire udì il
proprio campanello suonare, cogliendola pienamente di sorpresa: chi poteva
essere di prima mattina nel suo giorno libero? Titubante aprì la porta per
trovare un uomo vestito con quelli che potevano essere gli abiti di suo nonno,
dai corti capelli che iniziavano a ingrigirsi e un sorriso impacciato
accompagnato da un cenno della mano.
« Lei… Mi scusi, ci… ».
I vaghi rantoli di Katie furono
interrotti da Bryonia che, in tutta fretta, aveva preso in braccio Ivy per non
perdere tempo. Alla vista della sagoma in piedi alla soglia fu insicura su come
salutarla, pur avendola incontrata più di una volta, principalmente per il suo
problema nel ricordare i nomi altrui. « Oh… Ciao, Isidore, come va? Oh, che
gentile, hai lasciato qui l’ascensore! Scusa se non mi trattengo ma siamo in un
ritardo mostruoso… Grazie per l’ospitalità, Katie! ».
Pur non avendo la donna atteso
risposta quello la salutò approssimativamente, glissando come poteva sull’errore
grossolano da lei commesso sull’identità « Sì… Ciao, Rosa… ».
Alla chiusura delle porte la
coppia fu di nuovo sola sul pianerottolo e l’uomo provò uno sgraziato approccio
di cameratismo « Allora, Katie, come va la vita? Io sono Craig, sai, collega di
Silvia… Non so se ti ha detto ».
« Per te è Katrina » replicò
glaciale prima ancora di qualsiasi altra cosa. Conosceva Craig solo di nome, e
dalla descrizione fatta da sua sorella non sembrava essere stato investito della
confidenza necessaria per bussare a case di famiglia a orari simili e senza
preannunciarsi. Se d’improvviso avesse deciso di accordare a tutti i viventi il
permesso di chiamarla Katie, lui sarebbe stato tra gli ultimi a saperlo. « Che
ci fai qui? ».
« Ah, beh, ecco… È imbarazzante
in effetti… Il fatto è che, uhm… avrei bisogno del tuo aiuto ».
Episodio 1x17
Women’s Day
Craig appariva anche più piccolo
del solito quando era seduto, anche se il termine più corretto per la sua
postura sarebbe accovacciato. Stava ricurvo sulla sua tazza di tè caldo, che era
in effetti l’unica bevanda con cui si mostrava di solito. « Ah, poi non ho…
Tutto bene dopo il coma? » inquisì timidamente tra gli sbuffi che soffiava per
freddare il liquido ambrato.
« È come aver dormito » rispose
brevemente Katie, un’accurata reiterazione che aveva affinato durante l’arco
della giornata precedente, quando era stata tempestata di domande a riguardo.
Doveva essere anche finita su un giornale, probabilmente, visto che un cronista
si era presentato sotto casa. « Perché sei qui? ».
« Mi serve il tuo aiuto ».
« Questo l’hai già detto. Sii più
specifico ».
« Sì, sì, ecco… Silvia ti ha
detto di stasera? ».
« A dire il vero ci siamo parlate
per poco. È stata diverso tempo al Frattale, i Flare volevano assicurarsi che
stesse bene dopo essere entrata in contatto con una vittima del Dio » spiegò
Katie « Che succede stasera? ».
« L’ho… Beh, invitata a cena. Tua
sorella… è un po’ difficile da dire, però… ».
« Ti piace » completò la donna
infastidita dalla lentezza di espressione di Craig e, in minima parte, gelosa
del fatto che sua sorella ricevesse sempre tutte le attenzioni. Quando qualcuno
viene a chiederti aiuto per simili materie, non sentirsi l’ultima ruota del
carro è difficile. « E vuoi il mio aiuto per… conquistarla? ».
« Sì, diciamo così, non sarei
tanto brusco, ma… ».
« Lo sai che non ho mai avuto un
ragazzo in vita mia? Non sono esattamente ferrata in materia ».
« Sì, ma è tua sorella. Meno di
me non puoi saperne, o no? ».
« Diciamo così. Cosa ti fa
pensare che ti aiuterò? Non siamo amici, che mi risulti » proseguì Katie
contrariata. Cos’è, siccome era sua sorella doveva automaticamente fare combutta
con i suoi spasimanti? E per che cosa?
La voce di Craig si fece, se
possibile, più mansueta dell’ordinario « Se non mi aiuti non ho speranze! Cioè,
io le donne non le capisco… Al Liceo devo chiamarla tre volte solo per avere la
sua attenzione, però poi accetta l’invito al ballo… e a cena stasera. Capisci?
Se faccio la mossa sbagliata rischio di giocarmela! ».
Katie sospirò con rassegnazione.
Il racconto di Craig non l’aveva impietosita più di tanto, ma se si fosse
rifiutata di aiutarlo quello sarebbe caduto nello sconforto di sicuro, e allora
sì che non avrebbe avuto alcuna speranza. E poi un soggetto psicolabile come lui
chissà a cosa sarebbe potuto arrivare per la depressione… No, se proprio si
doveva suicidare non l’avrebbe avuto sulla coscienza.
« Dove vuoi portarla? » chiese
stancamente.
« Sua madre mi ha prenotato un
tavolo al Sushi Sans Chichis, secondo lei è il ristorante più romantico di
Luminopoli ».
Katie sbuffò. Non era “secondo
lei”: il ristorante più romantico di Luminopoli era esattamente lo slogan
del Sushi Sans Chichis. Se anche al posto di romantico fosse andato
costoso, comunque, non sarebbe stato meno veritiero: una prenotazione di
mesi prima costava un occhio della testa, e se aveva capito bene l’invito di
Craig era arrivato ieri. Se mai avesse avuto dubbi su chi era la figlia
prediletta, erano appena scomparsi.
« Come diamine l’hai convinta a
farti fare una prenotazione lì? ».
« Ah… È stata una sua idea, io
neanche so che ristorante sia ».
Già, Craig era di Novartopoli.
Certo che non conoscere il Sushi Sans Chichis… Pazienza, anche Henry Molaison
stesso avrebbe una speranza lì. Ciò, quantomeno, semplificava il lavoro. Forse
non era un’impresa tanto disperata.
« Va bene, parti da una buona
base. Ora stammi bene a sentire, ti dirò quello che so per certo che piace o non
piace a mia sorella ».
« Spara » assentì lui sfilando
taccuino e penna a sfera dal taschino della giacca.
« Punto numero uno: detesta il
cacao. Non prendere nulla che lo contenga e fermala se sta per prenderne. Punto
numero due: non fare lo stupido. A Silvia non piace chi la fa ridere, piace chi
è intelligente. In questo dovresti essere avvantaggiato, visto che entrambi
sapete abbastanza di fisica. Fai commenti di alto livello ogni volta che puoi ».
« …
ogni volta che posso… » ripeté Craig segnando a velocità
superluminale tutto ciò che usciva dalla bocca della donna « Ricevuto ».
« Punto numero tre: non provare
mai a prendere qualcosa dal suo piatto, nemmeno per assaggiare. Non
chiederglielo nemmeno. A Silvia piace mangiare. Questa dovrebbe essere facile da
seguire. Oh, però ignora questa regola se si tratta di cacao » soggiunse Katie,
soffermandosi poi perché il professore finisse di annotare « Punto numero
quattro: non parlare troppo. Silvia ama raccontare di sé, lasciale la parola il
più possibile ».
« Ma non avevi detto che dovevo
fare commenti acculturati? Come faccio senza parlare? ».
« Ehi, questo è ciò che piace o
no a mia sorella. Non ho mai detto che avrebbe avuto un senso » protestò Katie «
Punto numero cinque: se vedi che non ha più voglia di ciò che sta mangiando,
finiscilo al posto suo. Odia fare figuracce, e non vorrà lasciare cibo e
offendere lo chef ».
Craig intervenne per la seconda
volta « Ma scusa, e il punto tre? E il non toccare il suo piatto? ».
« Cos’ho appena detto sul senso?
».
« Ma come faccio a ricordarmi
tutto questo senza un ordine logico? Non potrò mica consultare i miei appunti
durante la cena! » esclamò esasperato l’uomo, curvando la schiena anche più di
prima nell’avvilimento « Sono rovinato ».
Katie lo osservò pensierosa. No,
ovviamente non poteva portarsi con sé i promemoria per esaminarli. O meglio,
forse una volta in tutta la sera andando alla toilette, ma sarebbe ugualmente
risultato sgarbato. C’era però un’alternativa.
« E se invece fossi io a
suggerirti? ».
Craig alzò la testa esitante «
Come? ».
« Il proprietario attuale del
Sushi Sans Chichis è un mio vecchio conoscente. Potrei convincerlo ad assumermi
come cameriera questa sera, in questo modo potrei aiutarti in diretta e dirti
cosa stai sbagliando ».
L’innamorato balzò in piedi
ancora prima di attendere ulteriori dettagli. Senza che la diretta interessata
potesse opporsi si precipitò ad abbracciarla in un impeto di felicità
stranamente fuori carattere per uno come lui: per la prima volta intravedeva la
possibilità del successo, e ciò aveva inibito ogni freno dettato
dall’insicurezza. « Grazie, Katie, è una grande idea! ».
« Per te è Katrina! ».
Il Sushi Sans Chichis si trovava
al bivio terminale di Rue de Turbigo, via trafficata del primo arrondissement.
L’edificio, per quanto sobrio nella decorazione frontale – campeggiava, sotto al
nome del locale, solo il già citato motto promozionale –, era di dimensioni
ragguardevoli, incutendo reverenza al solo sguardo. Non era ostruito da una
lunga fila come si potrebbe pensare, principalmente per il suo costo: con una
cena completa per due si poteva pagare almeno un terzo delle rette universitarie
di un anno intero. In effetti, tra stipendio e mance, Katie avrebbe avuto più
probabilità di autofinanziarsi gli studi come cameriera al Sans Chichis che non
come precaria alle Galeries.
La prima stanza in cui ci si
imbatteva una volta entrati era stranamente modesta; o meglio, stranamente per
chi non conoscesse le politiche del ristorante. Per buffe decisioni manageriali
non era consentito accedere al salone interno prima dell’ora di cena – unico
momento in cui il locale era aperto –, per garantire il massimo della sorpresa
ai novizi. Un solo, stretto bancone in marmo presieduto dal proprietario e
un’elegante anticamera delle dimensioni di un piccolo soggiorno domestico:
finché non ti impegni a pagare, questo è ciò che riceverai.
Katie avanzò fino al freddo
ripiano lastricato e attirò l’attenzione del trentenne dietro di esso. Quello,
con un finto sorriso di benvenuto, si limitò a salutare « Buongiorno. Desidera
prenotare un tavolo? ».
« Ma come, Arthur, non mi
riconosci? ».
L’uomo strinse gli occhi come se
ciò lo aiutasse a ricordare; poi, d’un lampo, identificò il volto che aveva di
fronte « Katie! ».
« Proprio io! » esclamò lei
ilare, reprimendo con tutta la sua forza di volontà l’impulso di correggere
l’abbreviazione del suo nome.
« Ma guardati, quanto tempo è
passato… Cos’è, dieci anni? ».
« Anche di più! So che alla fine
sei entrato alla Normale! ».
Arthur l’aveva incontrato allo
stage che aveva tenuto presso l’École Normale Supérieure, l’unica sua
possibilità, saltati i finanziamenti della madre, per frequentare un istituto di
livello universitario. Non era passata per un soffio, ma questa era un’altra
storia. Fatto sta che quell’Arthur l’aveva perseguitata lungo tutte le due
settimane con insistenti inviti a cena al Sushi Sans Chichis, al tempo di
proprietà del padre. Se anche non fosse entrato nella scuola – e alla fine
invece ce l’aveva fatta, pur con qualche dubbio sulla meritocrazia di tale
successo –, era matematicamente certo che sarebbe finito al ristorante di
famiglia.
« … e così sono finito al
ristorante di famiglia! Francamente non ci avrei puntato nulla » commentò il
giovane dopo uno sproloquio autoreferenziale di cui Katie non aveva seguito una
parola « Allora, perché sei qui? ».
« Volevo un tavolo per… Beh,
domani sera se non ti spiace… Lo so che c’è una lista, anzi, se non c’è posto lo
capisco ».
« Ah, domani sera? » ripeté
quello aprendo il registro delle prenotazioni con un tonfo « Beh, vedo cosa
posso fare… Per due, immagino… ? ».
« Beh… » iniziò Katie abbassando
il tono della voce e sbattendo le sue lunghe ciglia corvine « … questo dipende
da te ».
Esistono due tipologie di geni:
quelli abbastanza intelligenti da comprendere i problemi che derivano dalle loro
doti, e quelli convinti che il mondo esista solo per loro. E sicuro come l’oro
Arthur non apparteneva alla prima categoria. Le sue posizioni di prestigio
dentro e fuori dal mondo dell’istruzione gli avevano instillato la convinzione
di essere un inguaribile donnaiolo, senza accorgersi che l’oggetto del desiderio
delle sue amanti si trovava più spesso nella tasca posteriore dei pantaloni che
non in quella anteriore. In tre parole, era comodamente circuibile.
Come previsto il suo istinto di
indomito cacciatore si manifestò in tre fasi: una risata di circostanza,
l’inarcamento del sopracciglio destro e una smorfia complice. « Mi piacerebbe
molto ».
Con inflessione melliflua, Katie
portò avanti il suo spettacolo. « Davvero? Sicuro che non disturbo? ».
« Per niente! Ah, cioè… Tengo
sempre uno o due tavoli di riserva, sai, per… gli ospiti speciali… » proseguì
scrivendo un segno sull’elenco con mano tremante « Allora, domani alle nove? Ti
vengo a prendere io, se mi dai l’indirizzo ».
« Oh, non serve, vengo da sola »
replicò con finta ingenuità Katie « Però, uhm… Non è che stasera potrei dare uno
sguardo al salone… ? Non mi sento a mio agio in posti che non conosco… ».
« Ah, questo è più difficile…
Voglio dire, non pensi che disturberesti… Non che io… » domandò a spizzichi
Arthur, interrompendosi a un nuovo sguardo seduttivo della donna « Beh… Potrei
metterti come cameriera, ecco! Non devi servire nessuno, ovvio, però potresti
aggirarti tra i tavoli ».
« Grazie mille! Allora a domani!
» Katie concluse la recitazione saltellando verso l’uscita con il sorriso sulle
labbra per poi svoltare immediatamente a destra; appena fu certa di essere fuori
dal campo visivo dell’uomo riprese un’andatura normale e sogghignò.
Arthur non l’avrebbe mai fatta
entrare quella sera se non avesse avuto la certezza di un ricambio immediato. E
del resto, una cena gratis al Sans Chichis rappresentava per lei una doppia
rivalsa: verso quell’allupato, a cui non avrebbe concesso nemmeno di
accompagnarla di nuovo a casa; e verso sua madre, che aveva dovuto sborsare un
patrimonio per qualcosa che lei avrebbe ricevuto a scrocco. In più ora poteva
aiutare nella sua impresa Craig, che a confronto dello scompaginato proprietario
era quasi un partner credibile per sua sorella.
Tre piccioni con una fava. Il
sogghigno si tramutò in risata di soddisfazione.
Nel frattempo Arthur, non certo
uno stakanovista, si era concesso una pausa nel suo ufficio personale, per
fumarsi una sigaretta nell’autocompiacimento. In silenzio osservava con un
sorriso sul volto le volute prodotte dal fumo grigio platino, sprofondando sulla
sua sedia. Dopotutto l’aveva sempre saputo che Katie aveva un debole per lui, i
segnali erano troppo evidenti per ignorarli. Fantasticò sulla notte del giorno
seguente, predisponendo mentalmente tutto perché la cena fosse la migliore della
vita della ragazza. Diamine, era il proprietario, avrebbe anche potuto
cancellare tutte le altre prenotazioni e avere il locale tutto per loro due.
Crash.
Arthur abbassò lo sguardo con un
mugugnò di domanda: uno dei suoi vasi, prima in perfetto equilibrio su uno
scaffale a muro sul lato opposto della stanza, era appena capitombolato a terra
andando in frantumi. Occhieggiò i cocci pregiati stancamente, non trovando in sé
la voglia di raccoglierli. Chi se ne frega, disse tra sé e sé, ci
penserà la colf. Che poi, come aveva fatto a cadere?
La sera era giunta stranamente
presto quel dì, a Luminopoli. Ben prima del previsto il cielo terso teatro di un
viavai di sporadiche nuvolette si era tinto di arancione per poi scurirsi al
crepuscolo, lasciando intravedere solo gli astri più luminosi sotto l’influsso
delle luci al neon della città. Katie si era presentata puntualmente alle otto e
un quarto, mezz’ora prima dell’ora prefissata per l’appuntamento tra Craig e sua
sorella. Arthur le aveva consegnato un’uniforme bianca e nera con un occhiolino;
lì per lì non aveva capito, ma indossandola si era resa conto che quella taglia
era più piccola della sua, con il risultato che la divisa le andava
terribilmente stretta, mettendo in risalto le sue forme a probabile uso e
consumo di quel depravato. Normalmente avrebbe reagito, ma non poteva rischiare
che Arthur fosse in giro al momento di accogliere la coppia che lei aspettava, o
si sarebbe reso conto di essere stato raggirato. Così allentò tutti i bottoni
che riuscì ad allentare – senza slacciarne uno, la sua immagine ne avrebbe
pesantemente risentito – e, alle ore 20:44 precise, uscì dalle cucine ed entrò
nel salone.
Vi era transitata non molto tempo
prima, ma allora aveva ancora tutte le lampade accese; e non era certo quella
vista a fare la fortuna del Sushi Sans Chichis. Le cene si tenevano al contrario
nel buio quasi totale, ad eccezione di singoli fari policromi che pendevano
sopra ogni tavolo rischiarandolo soffusamente; ciò, unito alle quattro pareti
ovattate che attutivano rimbombi ed echi all’interno della hall, rendeva ogni
postazione un microcosmo a sé, dove gli amanti si sentivano isolati dal mondo e
liberi di parlare l’uno con l’altro sinceramente. Questa mirabile invenzione era
stata registrata due generazioni prima dai proprietari del ristorante, con il
risultato che adesso era severamente vietato copiarla. Persino Katie dovette
concederlo: per la poca idea del romanticismo che aveva, quella ne era la
miglior rappresentazione.
Fu tanto rapita dallo scenario
che quasi non si accorse di Craig e Silvia, appena entrati dall’anticamera, e
per poco non se li fece soffiare; tuttavia con uno scatto degno di una
centometrista si precipitò da loro, porgendo il benvenuto. Erano entrambi
vestiti con abbigliamento formale: se per l’una ciò era consuetudine per le
grandi occasioni, Katie aveva dovuto lottare non poco per convincere l’altro che
la sua usuale giacca marrone arachide non sarebbe stata una grande idea.
« Buonasera » li salutò falsando
leggermente la voce e scambiando al contempo un’occhiata complice con l’uomo «
Prego, da questa parte ».
Detto ciò si scansò per lasciarli
passare e, dal momento che Craig era posizionato per secondo, colse l’occasione
per redarguirlo sottovoce da dietro « Tieni la schiena dritta! ». Quello
scattò sull’attenti, e ora sembrava più adatto a un campo militare che a un
rendez-vous.
Il tavolo a loro destinato era
collocato quasi al centro della sala, e conoscendo la madre di Silvia e Katie
probabilmente non era un caso. La coppia si sedette e la cameriera improvvisata
porse non senza nervosismo due eleganti menù dall’involucro in pelle. Quindi,
dopo un nuovo sguardo d’insieme ai due, si allontanò verso le cucine. A prima
vista entrambi sembravano tesi, il che poteva significare che dopo tutto sua
sorella non era del tutto indifferente nei confronti del professore. Del resto,
a quanto le aveva raccontato Craig, aveva già accettato l’invito al ballo della
scuola di alcuni giorni prima.
Li stava tenendo d’occhio da un
po’ attraverso l’oblò incavato tra le porte lignee che separavano il salone
dalla zona chef quando si accorse che qualcun altro stava facendo lo stesso con
lei. Era un uomo di colore sulla trentina come lei, capelli corti e ordinati sul
capo, stessa uniforme della donna – per converso, se a lei andava stretta a lui
andava decisamente troppo larga –, e le sue iridi scure la stavano squadrando da
un po’. Katie sentì il suo anulare destro vibrare di collera: d’accordo,
sopportare quel maniaco di Arthur era un conto, ma non sarebbe certo stata mani
in mano a farsi rimirare da qualsiasi cameriere bavoso. Si avvicinò lui con
passo deciso e sopracciglia aggrottate.
« C’è qualche problema? » domandò
irata.
Lui emise un risolino e fece un
gesto incomprensibile con il braccio, come a negare « No, no, non è per… ».
Quindi indicò la divisa.
« Credi che non reagirò siccome
sono una donna? Non sono certo un pezzo di carne appesa dal macellaio ».
« Stai completamente
fraintendendo » rispose quello, sempre con quella fastidiosa risatina di
sottofondo.
« Ah, sì, certo. E suppongo mi
stessi guardando perché… ? ».
« Tu non sei una cameriera
regolare, dico bene? ».
« Solo perché questo vestito mi
va stretto? ».
« Pensavo più alla gonna
indossata al contrario » completò lui, e finalmente il sogghigno che portava
stampato in volto cessò.
Katie sobbalzò abbassando lo
sguardo, ed effettivamente era vero: i bottoni erano nel posto sbagliato. Come
aveva fatto a non accorgersene? Ah, certo, forse perché era troppo occupata a
cercare di starci dentro. « Beh » commentò cercando di mantenere un tono serio «
Stai tranquillo, un’incompetente come me non ti ruberà certo il posto. Sono qui
solo per stasera ».
« Non era in cima alle mie
preoccupazioni » spiegò lui con calma « Sono nella tua stessa posizione.
Imbucata anche tu, giusto? ».
Oh, sussultò mentalmente
Katie. Tutta quella rabbia diretta a uno che in fondo era esattamente come lei.
Un po’ le dispiacque per le parole che gli aveva rivolto, ma non lo diede a
vedere. « Una specie, in realtà conosco il proprietario. Scusa, ma imbucato per
cosa? ».
« Piacere, Kevin K » rispose
sorridente l’uomo stringendole la mano. Sul momento la ragazza non capì visto
che la sua domanda era tutt’altra, ma le bastò poco per collegare: Kevin K.
Non era un nome che si sentiva spesso, e a buona ragione: era l’inviato di punta
di Le Monde, famoso per i suoi scoop scandalistici e i reportage sotto
copertura. Lo Sapevi K, di Kevin K. Come non conoscere quella rubrica?
« Ma tu sei quello che ha
denunciato i ritardi di pagamento alle commesse delle Ételfay! Grazie mille,
dopo quell’articolo sono finalmente riuscita ad avere i soldi per l’affitto! »
esclamò avendo cura di non essere sentita e ricambiando vigorosamente la stretta
« Sei qui per un altro servizio? ».
Kevin portò l’indice alla bocca –
silenzio – e la accompagnò all’oblò della cucina: lì indicò un tavolo un
po’ più a sinistra di quello di Craig e Silvia, al quale era seduto un uomo
solitario. Katie lo osservò meglio: era di bassa statura, dal volto ovale e i
capelli unticci, completamente assorto sulla sua degustazione di sashimi.
« Chi è? ».
« Risponde al nome di Saul
McGill, e fino all’altro ieri era al fresco nel Carcere di Luminopoli. Dopo
l’evasione hanno ripreso tutti, ma lui è stato lasciato andare » proseguì Kevin
« Se stanotte ho fortuna potrei riuscire a capire perché ».
« Interessante! Beh, buona
fortuna. Io devo–– ». Si interruppe. Craig e Silvia! Si era interessata
tanto all’indagine del giornalista che aveva scordato la ragione per cui era lì.
In preda all’ansia si precipitò nel salone per dirigersi al loro tavolo: di
questo passo, dopo tutti i suoi tentativi per migliorare l’aspirante fidanzato,
sarebbe finita che la cena l’avrebbe rovinata lei stessa.
I due, quantomeno, stavano
parlando, il che poteva significare molto bene o molto male. Si rese conto
appena arrivata al loro posto che non aveva portato un taccuino per le
ordinazioni, e del resto se l’avesse preso si sarebbe accorta prima che Kevin
glielo comunicasse che le tasche non erano sul lato giusto. Si sentì quasi in
colpa a interrompere la conversazione, ma andava fatto. « Siete pronti per
ordinare? ».
La coppia si guardò confusa, poi
Silvia prese la parola « Ma… veramente abbiamo già ordinato ».
Katie sgranò gli occhi:
impossibile, era stata di là tutto il tempo. Avrebbe chiesto informazioni
ulteriori, qualcosa sulla linea di chi diavolo mi ha rubato l’unica cosa che
devo fare stasera, ma non volle rischiare che sua sorella la riconoscesse.
Inviperita fece dietrofront e
quasi sfondò le porte della cucina per poi attraversare il locale da capo a capo
fino alle scale che conducevano all’ufficio di Arthur. Non le importava nulla
che scoprisse che l’aveva beffato come un bambino, anzi, le avrebbe fatto
immensamente piacere. Tanto qual era il caso peggiore, l’avrebbe trascinata
fuori attraverso la hall? Distruggendo l’atmosfera romantica per i suoi clienti?
Che lo facesse, avrebbe urlato e rovinato la sera a tutti.
«
DA QUANDO IN QUA IN UN RISTORANTE LE CAMERIERE SI RUBANO I TAVOLI? »
proruppe entrando a passi pesanti nello studio del proprietario. Convincente. Un
solo neo nel suo ingresso ad effetto: non c’era nessuno ad assistere. Si guardò
attorno: dalla soglia della porta non c’erano forme viventi in vista. Arthur non
era certo tipo da lasciare il Sushi Sans Chichis incustodito.
Per sicurezza aggirò la
scrivania, e il cuore le si fermò in gola. Un corpo privo di sensi era
appoggiato alle gambe della poltroncina, disarticolato e pallido. Katie si chinò
di scatto e si accostò alla sua bocca, verificando con sollievo che respirava
ancora. Però non pareva rispondere a stimoli elementari, e in risposta a ciò una
parola si materializzò nella mente della donna, una parola che avrebbe preferito
dimenticare: Dio. Isidore aveva garantito che qualunque cosa fosse
associata quel termine era stata debellata l’altra notte, quando lei e Adele si
erano risvegliate, ma evidentemente doveva essersi sbagliato. Il Dio era ancora
in giro, si era preso Arthur, e ora aveva trovato casa al Sushi Sans Chichis.
« … Beh, è finita che Faubourg ha
finanziato personalmente la spedizione e, scava che ti scava, hanno recuperato i
resti del cannone a gravitoni di Colress! Certo, le parti salienti sono andate
bruciate negli scontri della notte, ma Ginger mi ha detto che hanno estratto un
modulatore di Gauss quasi intatto! » concluse eccitata Silvia, assaporando poi
un sorso di vino rosso dal calice in vetro che aveva di fronte.
Craig fece lo stesso, più per
meccanismi mentali di emulazione che per sete reale. « Un modulatore
funzionante? Non viola il teorema di Carnot? ».
« Vero? Ci ho pensato anch’io. Lo
inviano domani a mia cugina, a Castel Vanità. Non vogliono portarlo fino al
Frattale, dicono che rischiano di danneggiarlo, quindi domani andrò là e darò
un’occhiata. Se riuscisse anche solo a produrre energia sufficiente per
raggiungere metà del valore critico sarebbe una rivoluzione ».
« Beh, Colress era un fisico
davvero valido, non mi sorprenderebbe » chiosò Craig. Per ora tutti gli
argomenti di conversazione li aveva proposti lei, visto che lui si trovava in
uno stato catatonico indotto dall’impaccio. Katie si era fatta vedere solo
all’accoglienza per poi scomparire, che stava aspettando? Non pensava che––
« Ecco i vostri antipasti! »
annunciò una voce dal lato sinistro del tavolo, precedendo di poco una
cameriera, mora e più in carne di Katie, che reggeva goffamente le loro due
portate. Curiosamente Craig aveva deciso di optare per la stessa pietanza di
Silvia per fare buona impressione, e lei aveva finito per prendere il carpaccio
di pesce misto, uno dei piatti che lui preferiva. Il professore alzò lo sguardo
alla donna in uniforme riuscendo a scorgere per un istante un suo contatto
visivo prolungato con Silvia che aveva un che di complice. Aveva preso il posto
di Katie dalle ordinazioni in poi, e non li aveva mai lasciati un attimo,
tenendoli sotto controllo anche a distanza. Un’ipotesi gli solleticò la mente,
ma la respinse con risolutezza come impossibile.
L’altra cameriera, congedandosi
con un sorriso, si avviò quindi alle cucine e aprì la porta dolcemente. Appena
dentro qualcuno la afferrò per il colletto e la sbatté al muro, provocandole un
mezzo infarto.
« Allora sei tu che mi rubi il
lavoro, eh? Sei fortunata che ho altri problemi oggi, o finivi male! Quindi non
farmi perdere tempo e resta lontana da quel tavolo, intesi? ».
Metà dello staff del Sushi Sans
Chichis interruppe ciò che stava facendo per osservare la scena. Qualcuno
accennò a una indecisa reazione, ma lo sguardo di fuoco dell’aguzzina respinse
anche i pochi audaci. La cameriera cercò gli occhi di colei che l’aveva
aggredita, trovando che era stata con poca sorpresa una collega. Aveva anche
sospetti su quale: doveva essere quella che aveva accolto la coppia che stava
servendo al momento del loro ingresso. In prima battuta tentò di giustificarsi,
accorgendosi poi che la donna aveva un che di familiare. Di molto familiare.
« Katie? ».
Quella si ritrasse incredula,
stringendo le palpebre nella confusione. La sua reazione istintiva sarebbe stata
“per te è Katrina”, ma c’era una questione più rilevante da risolvere. «
Come sai il mio nome? ».
« Sei davvero tu? Che cosa ci fai
qui? ».
« Rispondi alla mia
domanda! » ordinò aprendo gli occhi completamente e aumentando la forza della
presa.
« Adele! Sono Adele! ».
A Katie fu necessario qualche
secondo per metabolizzare la scoperta. Kevin, rimasto a debita distanza per
tutta la durata del colloquio, ne approfittò per separare le contendenti.
« Tu sei… ».
Lei in risposta sfilò la spilla
con cui aveva tenuto legati i capelli, svolgendo la sua corta chioma color
mirtillo come normalmente la portava. Ciò convinse definitivamente l’amica: la
somiglianza non lasciava dubbi.
« Oddio… Oddio, scusa per aver…
Scusami! » abbozzò in un tentativo di farsi perdonare.
« Non è nulla, tranquilla, sto
bene… Ma aspetta, quindi anche tu sei qui per Craig e Silvia? ».
« Che significa anche?
Craig ha chiesto aiuto anche a te? » la interrogò Katie, sempre più
disorientata.
« Craig! Ma no, mi ha chiesto
aiuto Silvia! ».
Katie non era certa fino a un
attimo prima che vi potesse essere una rivelazione più scioccante del fatto che
la sua migliore amica si trovasse al Sans Chichis con lei a sua insaputa, e
invece eccola là. Silvia? Chiedere aiuto? « Non ci sto capendo nulla »
intervenne Kevin K, a esternare ciò che anche la donna stava pensando – e, con
ogni probabilità, il resto del personale che assisteva alla scena.
« Ma te l’ho detto, no? »
ricominciò Adele, stavolta all’indirizzo del giornalista « Che mi sono imbucata
per dare una mano a un’amica a conquistare quell’uomo a cena. Mi stavi
ascoltando, vero? ».
« Come? » sobbalzò Katie, che
aveva segnato nuove vette di sbalordimento « Tu lo sapevi? E non ti è passato
per la mente di dirmelo? ».
« Ehi, ehi, calma »
protestò Kevin « Come dovevo sapere che vi conoscevate? ».
« Va bene, va bene, credo che
serva qualche spiegazione » convenne Katie, prendendo ella stessa per prima la
parola « Craig è venuto stamane a casa mia e mi ha chiesto aiuto per stasera,
così ho proposto di infiltrarmi come cameriera per aiutarlo. Tu, Adele? ».
« Qualcosa di simile. Beh, per la
verità tua sorella mi ha chiamato parecchio tempo fa, parlandomi di questo
professore che le piaceva e chiedendomi consigli. L’ha notato verso, boh, metà
dicembre, quindi direi che sono circa tre o quattro mesi che va avanti » spiegò
l’amica « Il resto è più o meno come quello che hai detto tu, anche se è stata
Silvia a suggerirmi di imbucarmi ».
« Ma non ha senso. Craig mi ha
detto che Silvia le parlava a malapena! ».
« Certo, gliel’ho consigliato io!
» esclamò Adele con orgoglio « Voglio dire, Isidore con me fa così, e lo amo di
più ogni giorno! ».
Katie era senza parole. Sapeva da
tempo della cotta che Adele si era presa per Isidore, l’amico di Craig, e da
tempo sapeva che lui tendeva a ignorarla. Ma non certo per farsi desiderare:
semplicemente Isidore era privo di qualunque emozione umana. Solo la sua
compagna poteva pensare di suggerire una tattica simile, solo lei.
« Ma scusa, quindi con te e Kevin
siamo in tre infiltrati di nascosto » osservò Adele con un dito sul mento,
pensierosa « Questo posto non è proprio sicuro, giusto? ».
« Beh, a dire il vero io non sono
entrata di nascosto. Vedi, c’è questa cosa che Art–– ».
Arthur. Il corpo collassato sulla
sedia. Se ne era completamente dimenticata. Erano tutti in potenziale
pericolo e lei stava a parlare dell’appuntamento.
E, nemmeno a dirlo, le luci si
spensero di colpo. Mentre ancora il neonato gruppo si stava assestando dopo le
ultime notizie, l’intera cucina era stata immersa nel buio scatenando il panico.
A tastoni Katie, Adele e Kevin si ritrovarono, cercando di ignorare il vociare
degli chef e degli altri camerieri. Seppur con qualche difficoltà legata al
rumore di fondo la prima riuscì a spiegare ciò che sapeva o aveva intuito: il
coma di Arthur, il ritorno del Dio e, per quanto brevemente, la sua precedente
esperienza con esso.
« E quindi ora che si fa? »
domandò Kevin.
« Se questo Dio è ancora in giro,
di sicuro si sta muovendo approfittando del buio ». Katie gettò un’occhiata alla
porta di comunicazione, constatando che pur essendo chiusa oscillava come se
qualcuno l’avesse appena spinta. Nessuno era uscito per non scatenare il panico,
quindi doveva trattarsi per forza del loro nemico. Al di là della soglia i fari
erano ancora accesi, ma non sarebbe stato difficile aggirarli e spostarsi tra i
tavoli. Se volevano sconfiggere il Dio, dovevano prima sconfiggere l’oscurità.
« Vai al quadro elettrico »
intimò Katie al reporter « Dovrebbe essere da qualche parte nell’ufficio di
Arthur, o lì intorno, comunque di sicuro oltre le scale in fondo. Accendi le
luci del salone ». Kevin annuì con un cenno del capo e, procedendo a tentoni, si
allontanò. La donna si rivolse quindi ad Adele e, con poche e concise parole, le
disse di seguirla.
Le due entrarono nella hall delle
cene. Nonostante il rumore prodotto dai cuochi nessuno pareva allarmato,
probabilmente perché si era confuso con quello degli stessi clienti del
ristorante. Vederli consumare indisturbati il cibo in una situazione simile era
quasi grottesco, ma quantomeno erano tranquilli. Il che era un bene: fintanto
che nessuno avesse acceso la miccia del terrore, la situazione poteva essere
mantenuta sotto controllo.
« Aaaaaaaah! ».
Katie e Adele trasalirono
all’unisono. Non tanto per il grido, ma per qualcosa di più preoccupante:
conoscevano la voce. Il silenzio calò di colpo, vanificando l’intera
considerazione precedente, e la coppia si voltò con uno scatto in direzione del
tavolo di Craig e Silvia. O, per meglio dire, il tavolo di Silvia e di un corpo
immobile rovesciato sul ripiano in legno.
La bionda trentenne si alzò con
rapidità felina precipitandosi dal professore e scuotendolo invano, chiamando il
suo nome senza capire cosa stesse accadendo, per puro istinto. Sia la sorella
che la confidente in amore rimasero impalate, gli occhi sgranati, cacciagione
facile per un predatore invisibile. Internamente ciascuna sperava in un
miracolo, un deus ex machina in grado di salvarle da una condizione che
appariva insolvibile. Tra le voci una sovrastava le altre: quella di Saul, che
imprecava a un ricevente imprecisato.
« Ma non è possibile! Non anche
mentre mangio, cazzo! Mentre mangio,
almeno! Mentre mangio! ».
Flash!
Tutto era successo così
rapidamente che nemmeno quell’improvviso colpo di scena riuscì a risultare più
sconvolgente. L’onda di luce accecò i presenti per un po’, essendosi ormai
abituati al buio, ma alla fine si dissolse in dettagli vividi e coloriti. Il
Sushi Sans Chichis si presentò per la prima volta al pubblico completamente
illuminato, lucido negli intarsi dei seggi quanto per contrasto incredibilmente
povero di dettagli laddove normalmente alle perturbazioni luminose non era
concesso battere. Lussuoso e rustico al contempo, e tanti saluti a due
generazioni di segreti.
Grazie, Kevin, pensò Katie
sollevata. Il suo capo roteò di trecentosessanta gradi in un batter di ciglia
per acquisire una visione d’insieme della sala, tra cenanti spaesati e chef che
iniziavano a uscire dalle cucine, rendendosi conto che la circostanza era ad
almeno sei fermate di bus dall’ordinario. E le bastò poco per inquadrare, in
ritirata strategica verso l’uscita ma col capo ben fisso sulle possibili vittime
e minacce, il Dio.
Ovvero il non-Dio. Perché in
effetti tutto sembrava meno che quello: la sagoma inondata dal bagno di luce era
di un bipede umanoide simile a una donna in carne dalla pelle color pece, con
goffamente indosso un lungo abito rosso che le scendeva ai piedi. Gli astanti la
contemplavano con orrore, e il Pokémon a sua volta restituiva la medesima
diffidenza. Nessuno osava agire per primo temendo una ritorsione dell’altro, il
che era quasi un nonsenso considerate le parti: chiunque si trovasse al
ristorante quella sera difficilmente poteva vantare un numero di vittime vicino
a quello di Jynx.
Katie non osò chiedere se ci
fosse un Allenatore tra loro: in caso di risposta negativa avrebbe comunicato
alla creatura che non avevano difese, e mantenere il bluff era più sicuro.
Sfortunatamente, Adele non fu dello stesso avviso.
« Ehi, c’è un Allenatore qui? »
gridò a vuoto, ottenendo come temuto nessuna replica. In compenso l’uomo del
tavolo cinque, in seconda linea rispetto all’ingresso del Sans Chichis, sfilò
dalla tasca il cellulare in un probabile tentativo di chiamare le autorità.
Senza attendere un istante Jynx mimò il gesto di un bacio e un raggio violaceo
fuoriuscì dalla sua bocca, centrandolo in pieno e facendolo crollare al suolo
per lo sgomento della sua amante. Tutti arretrarono nel panico, atterriti
all’idea di essere i prossimi. Tutti tranne una.
« Riportalo indietro ».
Silvia era rimasta avanti
rispetto alla massa, ma ciò non doveva essere abbastanza per lei: forse senza
nemmeno pensare alle conseguenze mosse altri due passi verso Jynx, la quale alzò
le braccia in segno di difesa. « Riportalo indietro, ho detto ».
Katie osservò la scena
sbigottita, colta da una paralisi folgorante nell’attimo in cui aveva visto sua
sorella sfidare il Pokémon che aveva appena riprodotto poteri del tutto uguali a
quelli del Dio dei giorni scorsi. « Torna qui, Silvia » la implorò sforzandosi
di non tradire la paura che covava dentro « Ti prego, torna qui ». La sua voce
generò un effetto sonoro inquietante nel salone ovattato, non echeggiando pur
nel silenzio completo.
Non sarebbe tornata. Non avrebbe
ceduto un millimetro alla sua diretta avversaria, e Katie lo sapeva bene ancor
prima di aprire bocca per la supplica. Silvia aveva chiesto aiuto ad Adele mesi
prima, il che significava che al momento amava Craig almeno tanto quanto lui
amava lei. E nessuno si può interporre tra due innamorati: non un Dio, non un
falso Dio, e di certo non una sorella intimorita. Sarebbe morta piuttosto che
arretrare.
« È ancora vivo? » domandò ad un
tratto Silvia, non distogliendo per un secondo lo sguardo da Jynx.
« Come? ».
« Craig. È ancora vivo? ».
« Io… Io non lo so, non so
cos’abbia… Ti prego, torna qui o farà lo stesso anche a te! ».
«
Bacialo… » esclamò d’un tratto una terza voce, meno acuta e meno
determinata. Katie si voltò a destra, dove Adele aveva l’espressione di chi
aveva appena trovato la soluzione alla domanda da un milione di dollari. «
Bacialo, Silvia! » ripeté, stavolta con più convinzione. Quella la sbirciò
confusa, se non altro però retrocedendo leggermente.
« Che dici? » le domandò l’amica
che le era di fianco, sussurrando per non farsi sentire dal pubblico già di per
sé fonte d’imbarazzo.
« Quell’attacco somiglia a un
bacio, no? Magari se ne dà uno a sua volta inverte l’effetto! ».
« Questa è la cosa più ridicola
che abbia mai sentito! ».
« Ma no, invece, ha senso! È come
un ritorno di fiam–– ».
« No, senti, cerchiamo di
ragionare seriamente, d’accordo? » la interruppe Katie innervosita « Se ci
impegniamo sono sicura che possiamo uscirne, ma non con queste assurdità ».
« Per l’amor del cielo, BACIALO!
» gridò Adele, e il suo urlo sovrastò l’ultima parte del discorso che l’altra
ragazza stava ancora tenendo. Seguì un trambusto rumoroso tra le due litiganti,
fermento che disorientò Silvia al punto che, le mani tremanti, afferrò per la
giacca il corpo inerte di Craig e premette le sue labbra su quelle fredde di
lui. Una lacrima le scivolò ruvida sulla guancia, ma bruciava come una ferita
aperta.
Per un lasso di tempo che parve
infinito nulla accadde, ma per loro fortuna furono solo pochi secondi nel mondo
reale: poi un fioco alone rosato avvolse la coppia mentre il professore, senza
comprendere cosa stesse succedendo, riaprì gli occhi. Appena dopo il bagliore si
condensò in un singolo nodo e si proiettò sotto forma di raggio energetico
dritto contro Jynx che, sbalzata all’indietro, cadde a terra qualche metro più
in là con un tonfo spento. Gli occhi sgranati di Katie rotearono da un angolo
all’altro della stanza, incapaci di accettarlo: il piano più improbabile della
storia aveva funzionato. Gettò uno sguardo di lato per notare che l’altro uomo
che era caduto in quella notte, oltre ad Arthur ancora nel suo ufficio, si era
appena ripreso. Non era un evento isolato: tutte le vittime di Jynx si erano
risvegliate.
Tornò a osservare Craig e Silvia
che dopo aver prolungato il bacio fino a quel momento si stavano ora scambiando
un dialogo inudibile a quella distanza. Katie non cercò di avvicinarsi, e
convinse Adele a fare lo stesso: dopo tutto quello che avevano passato, dopo
mesi di corteggiamento convinti di non piacersi l’un l’altro, dopo aver
letteralmente salvato l’intera clientela di un ristorante da una situazione
apparentemente senza uscita, si meritavano un minuto di sollievo.
Convincere gli avventori ad
andarsene non fu un’impresa ardua come avrebbe potuto essere: alle ragazze fu
sufficiente annullare il conto che ciascuno avrebbe dovuto pagare quella sera e
garantire che sarebbe stata loro registrata una prenotazione nei giorni
seguenti. Arthur si fece vivo poco dopo che la prima onda di clienti ebbe
lasciato il locale e spiegargli l’accaduto non fu semplice; tuttavia Katie
riuscì a strappargli la realizzazione di tali promesse, se non altro perché il
ristorante avrebbe visto la propria immagine sbiadirsi in caso contrario. E poi
non aveva dimenticato la menzione dell’uomo di “tavoli di riserva”, come vi si
era riferito quella stessa mattina.
Estenuato e confuso il
proprietario si allontanò il più in fretta possibile negli uffici sul retro per
regolare i nuovi posti a sedere lungo l’arco delle settimane successive,
lasciando dietro di sé un esercito di cuochi e inservienti incaricati di
ripulire il caos lasciato dall’emergenza odierna. Katie si diresse verso Adele
che, mentre lei gestiva diplomaticamente gli interessi del Sushi Sans Chichis,
era rimasta a guardia della povera Jynx, ancora K.O. dopo il bacio tra Craig e
Silvia, ormai ben distanti nella loro passeggiata notturna. Nessuna delle due
giovani aveva ben compreso l’accaduto, nemmeno colei che aveva proposto la
soluzione, e per la verità erano decisamente sorprese che avesse funzionato. A
volte, forse, è meglio non farsi troppe domande e accettare certi eventi per ciò
che sono: prodigi.
« Ancora dorme? ».
« Non ha mosso un muscolo ».
« E ora che facciamo? ».
« Beh » cominciò Adele con un
sospiro « Kevin ha detto che avrebbe chiamato la polizia. Credo saranno qui a
momenti e la porteranno via. Secondo te la libereranno? ».
« Non penso. Che io sappia la
Polizia può risalire alla Poké Ball che ha impresso la riscrittura sinaptica al
Pokémon, il che vuol dire che possono individuare il proprietario. Certo, a quel
punto passerà qualche guaio » concluse Katie.
Proprio in quell’istante una voce
possente spezzò il meccanico tintinnio delle posate che venivano rimosse dai
tavoli, seguita da un fracasso di colluttazione.
«
Dove vai, eh? » tuonò derisoriamente Kevin K dall’anticamera del
ristorante, facendo poi capolino attraverso la porta di tramite con un uomo
basso e tozzo stretto sotto la robusta presa del suo braccio. Senza battere
ciglio trascinò l’imprigionato lungo mezza hall, ignorando il persistente
dimenarsi di quest’ultimo. « Ho beccato questo furbone mentre si nascondeva
sotto al tavolo di là ».
Adele lo squadrò a occhi stretti,
cercando di ricordare quando l’aveva già visto. Domanda di facile risoluzione:
pochi minuti prima. « Ah, lui è il… Saul, giusto? ».
« Proprio lui » rispose il
cronista abbassando lo sguardo sui capelli unti dell’ometto « Immagino volesse
sgraffignare qualcosa dal locale, eh? ».
« Beh, buon per te » commentò
Katie con un sorrisetto « Potrai fare l’articolo che volevi, giusto? ».
« Temo di avere poco tempo,
purtroppo. La polizia arriverà a momenti ».
Sulle ultime parole Saul palpitò
e iniziò a dibattersi con maggiore intensità « Gli sbirri no! No, vi prego! ».
« Rilassati » lo tranquillizzò
Kevin con un tono paternalistico intriso di scherno « Non ti ho colto sul fatto,
non ti porteranno nemmeno in centrale. Per farmi un favore dovresti perlomeno
dirmi perché ti hanno liberato ieri ».
« No, no,
no, voi non capite! Lasciatemi andare! » li implorò, la sua voce che
soffriva di acuti improvvisi dettati dal panico. Si rivolse disperatamente al
giornalista « Ti dirò quello che vuoi! Dimmi un giorno e un’ora, anzi, ti do il
mio indirizzo, ma per favore, lasciami
andare! ».
« Calmati due secondi, santo
cielo! Cos’hai, droga in tasca? » lo sbeffeggiò Kevin. Poi a metà tra presa in
giro e curiosità nelle tasche spiò davvero, ma non c’era nessuna sacchetto
compromettente: solo una Poké Ball lucida tinta di un rosso metallizzato. Fin
troppo lucida, in effetti: pareva
nuova.
Katie impiegò due secondi netti a
mettere insieme i pezzi del puzzle. L’unica preda appetibile per un ladro al
Sushi Sans Chichis sarebbe stato l’incasso della serata, ma in quell’occasione
non ce n’era visto che le cene erano state abbuonate. Non si era trattenuto per
quello. « Tu sei il proprietario di quel Jynx, vero? ».
Lo sguardo dell’interrogato non
diede adito a dubbi: teso, furioso, serrato su un volto madido di sudore. Adele
e Kevin, pur non avendo imboccato il percorso mentale della donna, compresero
che doveva aver indovinato.
« Io non sapevo che… Davvero! »
sbraitò Saul tremante « L’avevo lasciata al mio appartamento a Reuilly perché
non ho il porto! Non so nemmeno come mi abbia trovato, sta a chilometri! ». Di
nuovo tentò una fuga, ma il suo custode non allentava un momento la stretta.
Kevin inarcò le sopracciglia « Un
Pokémon può sempre rintracciare la sua Poké Ball. Lo sanno tutti gli Allenatori!
».
« È quello il punto: lui non è un
Allenatore » puntualizzò Katie con convinzione « Avrà comprato quel Jynx, di
certo non catturato. Per questo ha così paura che la polizia trovi lui o il
Pokémon: tempo che scoprono che è suo e scatta l’arresto per detenzione abusiva
e danno arrecato ».
Uno stinto suono di sirene giunse
alle loro orecchie in un crescendo evidente. Parevano lontane, ma considerando
l’insonorizzazione del ristorante in realtà potevano già essere alle porte.
« Ti prego, ti prego! » ripeté
freneticamente Saul « Non mi dare alla polizia, sono appena uscito! ».
Adele si voltò verso Katie, e
altrettanto fece Kevin, entrambi aspettandosi che fosse lei a compiere la
decisione cruciale. La donna sogghignò e si chinò per arrivare all’altezza occhi
del fuorilegge, le cui gambe erano afflosciate a terra. Aveva quasi rovinato
l’appuntamento di sua sorella: meritava una punizione esemplare. Da quel punto
di vista forse il carcere non era abbastanza.
« Non ti consegnerò » replicò con
uno sguardo affabile, ma il suo tono fu tutt’altro che rassicurante.
Luminopoli aveva anche un altro
soprannome, uno che ricorreva solo in particolari occasioni: la città degli
innamorati. Le ombre dell’Île de la Cité, i suoi caldi lampioni gialli e la
romantica Senna che tagliava in due la Ville Lumière brillavano di poesia sotto
una falce di luna crescente. Craig e Silvia volteggiavano da una parte all’altra
del Pont des Arts, le cui balaustre erano vetrina involontaria di una
moltitudine di variopinti lucchetti lasciati negli anni passati da innumerevoli
amanti. Ridevano, perlopiù; ogni tanto si fermavano a parlare, altre volte
invece a osservare i riflessi luminosi del fiume sottostante. Ora lei gli stava
indicando in lontananza la guglia della Sainte-Chapelle, senza mai cessare lo
sfoggio di quel sorriso che lui adorava.
« Ehi, guarda che ho mosso »
borbottò Saul con impazienza.
La bocca di Isidore si contorse a
sua volta in una smorfia che da una certa distanza avrebbe potuto ricordare
anch’essa un risolino. Girò le spalle alla finestra del suo attico e ai due
innamorati per tornare a concentrarsi sulla scacchiera. Il suo ospite aveva
portato un pedone in g4, ma si rese conto quasi subito che dalla situazione
precedente era cambiato qualcos’altro. Con un sospiro di rassegnazione si
posizionò compostamente sulla sedia e, gli occhi fissi sull’avversario, arretrò
il suo cavallo di due caselle alla posizione originaria.
Saul lanciò un grugnito di
frustrazione: il suo imbroglio non era andato a buon fine. « Potevi almeno
lasciarlo dov’era, non è che tu stia perdendo ».
« Che non stia perdendo è
evidente » ribatté Isidore serenamente, muovendo poi la regina in h4 « Scacco
matto ».
«
Ancora? » protestò l’uomo, andando a controllare effettivamente che
il suo re non avesse mosse disponibili. Per la dodicesima volta non poté far
altro che concordare, afflosciandosi esausto sulla seggiola. « Ma tu non dormi
mai? ».
« Sonno polifasico » rispose
Isidore alzandosi e dirigendosi verso l’angolo cottura « Dormo sei volte al
giorno per venti minuti. Vuoi fare uno spuntino? ».
« Finalmente! Sto morendo di
fame! ».
« Allora questo fa al caso tuo »
Isidore aprì e chiuse rapidamente il frigorifero, tornando al tavolo con un
vasetto trasparente contenente una sostanza marroncina e tre o quattro gambi di
sedano.
Saul squadrò con diffidenza lo
snack quale veleno a lui ignoto, soffermandosi sull’inquietante barattolino. «
Che diamine sarebbe? ».
« Hummus ».
« Mi stai dando da mangiare della
terra? ».
« Quello è l’humus,
normodotato » lo corresse Isidore, svitando il coperchio per poi intingere lo
stelo verdognolo nella salsa e morderlo rumorosamente « L’hummus
è pasta di ceci e sesamo. Prego, non fare complimenti, ci penso io a sistemare i
pezzi per la prossima partita ».
Saul emise un rumoroso mugugno di
lamentazione e logorato si abbandonò allo schienale. Iniziava a capire perché
quella donna lo avesse parcheggiato lassù anziché darlo in pasto alle autorità
di Kalos.
Perché le donne sanno essere molto più spietate di quanto appaiano.