Draco ed Hermione
sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua
sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i
due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha
fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente
controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha
portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un
luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la
ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per
aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza,
la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per
tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per
farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora
fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i
ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio,
Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone,
Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da
Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la
cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la
prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i
suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata
da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una
sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa
di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si
riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di
perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro
situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua
cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e
Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il
Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà
avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa
sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza,
raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in
moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del
tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato
Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino
della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di
Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata
con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco,
cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di
Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli
eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata
l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne
rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e Montague, proprio per separarla da
Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione di Dimitri a
fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden, l’amico
babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente e
rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello
di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge
Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che
sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo
con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della
gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia
da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte
violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si
trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un
matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed
Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una
traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco,
incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di
nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad
Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la
conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era
stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro,
testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatianon
voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento,
alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima
dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove
era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia,
Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci
anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche
che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e
Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come
fratelli. Tatia da
sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto
l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri,
che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa
aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di
aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli
aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe
rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta
la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a
casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma.
Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura
per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza
incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una
complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo
figlio e i suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore
del secondo premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di
Serenity, facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma
l’attesa di Hermione si rivela vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa
che, pazza di gelosia nell’aver intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un
Incantesimo per far comparire Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da
Hermione. Le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo
che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni
per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si
suicidi, trascinandosi dietro anche il figlio. Tornata a casa di Draco,
Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia
nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono
traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed
Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a
causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene
possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. La scoperta lo distrugge
emotivamente e psicologicamente, minando forse per sempre la fiducia nei
confronti di Hermione. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile,
quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti
nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli
Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se
non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li
unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e
distruzione dello Zahir e al
ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una
serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del
demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis,
lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso
da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata,
difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si
è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è
però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere
dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder,
trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy.
La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro
due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo
biologico ed empatico, per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene
siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli
qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Dopo essersi
chiarita con Ron, Hermione parla con Serenity, raccontandole di suo “fratello”
Alex. Ma proprio durante la conversazione con la bambina, mentre mostra a Draco
le fotografie del loro figlio, dal suo album di foto ne compare una di lei con Draco,
scattata e conservata di nascosto da cinque anni prima. È allora che Draco mostra
ad Hermione un libro di favole disegnato da lui, per Serenity. Ogni principessa
del libro ha il volto di Hermione.
Capitolo 44 – The ballad of
silver linings part 2
Belle, nella
libreria della Bestia, ha tra le mani una copia di Twilight ed assume con uno
sbuffo la mia espressione da pesce palla.
Aurora, in
una foresta di rovi, dorme con un vestito rosso e sembra sempre inquieta e
nervosa, anche quando dorme.
Raperonzolo,
prigioniera in una torre, è circondata di rose e ne ha depositati tra i capelli
qualche petalo sparso.
Cenerentola,
ballando con il suo principe, ha un vestito turchese dal taglio greco ed
accessori tutti dello stesso colore.
Ariel,
diventata umana, usa per raccogliere i capelli una matita come se fosse un
fermaglio.
Biancaneve,
appena sveglia, sposa il suo principe azzurro con l’anello di Narcissa Malfoy ed Helena Greengrass.
Ognuna di
loro, ciascuna di loro, cambia
vestito, capelli, storia.
Ma mai gli
occhi, mai il viso, mai le labbra.
Sono sempre io. Sono sempre rimasta io.
La mano che
Draco stringe ancora nella sua, piano, delicato, quasi timoroso di romperla,
suda freddo e caldo assieme. Per un attimo ho la scomoda e sgradita sensazione
adolescenziale delle prime volte in cui davi la mano ad un ragazzo e temevi,
come se ne andasse della tua vita, che l’avessi sudata. Eppure, non riuscirei a
staccarmi nemmeno provandoci con tutta la forza possibile.
È il solo
punto fermo, in un mondo d’acqua. Tutto, compresa me stessa, sembra
d’improvviso fluttuare senza peso alcuno, trascinandosi la mia mente, che si
allunga, allarga, diluisce e perde consistenza e significato. Ogni pensiero
galleggia nebuloso, ondeggiante e palpitante: d’un tratto incerto, sbaragliato,
inerme.
Come la mano
non lascia Draco, così gli occhi non lasciano il libro. Lui non aveva bisogno
come me di razzolare fotografie sconfitte dalla memoria. Ha creato il suo
personale album di ricordi, scolpendo di matita e colori ogni minima traccia
che aveva preservato di me, ma dandone una forma innocua, infantile, inoffensiva,
che addirittura scivolasse di sogno ed incanto nella mente di sua figlia.
Le
principesse sono bellissime, soavi, fatate: non c’è rabbia, rimorso, ricordo,
rammarico. Hanno la forma statica ed assurdamente perfetta di ciò che non
cambierà mai. È difficile riconoscermi in esse, se non fosse per quei
particolari messi così accuratamente a fuoco, se non fosse per gli occhi di
ognuna e le forme del viso che non sono assolutamente rinnegabili. Spiccano di
quella bellezza incomprensibile, in mezzo a figure maschili sempre di spalle,
sempre poco accennate, sempre fosche. Solo le foreste, il mare, il cielo,
diventano adeguate cornici. Il resto sparisce.
Mi accorgo,
nell’oceano volutamente apatico in cui nuoto, che il respiro di Draco è
accelerato negli ultimi minuti e che la sua mano si è fatta più calda, più
scivolosa, più stretta.
Eppure,
sebbene mi accorga che sono rimasta in silenzio troppo a lungo, sebbene sappia
che debba dire qualcosa, è come se avessi improvvisamente dimenticato persino
come si apra la bocca, come si facciano muovere le labbra, come si articoli il
vibrato indifferente delle corde vocali in parole coerenti e corrette. Di
salsedine porosa brillano i miei pensieri, come se davvero fossi sott’acqua ed
avessi la sola concreta esigenza di ricordarmi come si respira. Espira, inspira. Espira, inspira.
E poi accade.
Tutto
assieme, tutt’un tratto, come l’onda che spazza gli abissi, tracimando fango,
confondendo sabbia, masticando alghe e pesci.
Il solo
segno esteriore che mi concedo è un respiro un po’ più forte, intenso, come se
prendessi fiato dopo essere stata in apnea. Rintocca nella stanza con il suono
forte di una campana a morto. E sento, come se neanche mi spiegassi il perché,
che ho bisogno di aria, di vento, di sole. Di uscire, andarmene, scappare,
fuggire.
Perché? Mi chiedo sciocca,
il respiro che si affanna, la mano in quella di Draco che d’improvviso sguscia,
scivola, arranca, scappa.
Non dovrebbe essere questo che stavi cercando? Non
dovresti essere… felice, adesso?
Non ti ha dimenticata. Ti ha pensata in questi anni. Non
ti ha cancellato dai pensieri.
Lui non parla, non inonda i figli di parole e ricordi.
Non è come te, che hai soverchiato tuo figlio di incommensurabili ed ineffabili
discorsi, neanche prendendo fiato, neanche esitando, neanche cercando le
parole. Le parole fiorivano sempre come le primule a marzo. Veloci, rapide,
colorate. E mai morivano, mai conoscevano ghiaccio o afa. Mai. Erano sempiterne
di gloria d’amore.
Lui non è come te: lui non parla. Lui disegna.
Non sei assurda, adesso? Non vorrai forse che lui diventi
come te? Logorroico, verboso, costantemente teso all’evoluzione semantica dei
tuoi sentimenti?
Non dirmi che, davvero, adesso… ancora… non sei felice?
Quelle
domande, pregne di senso di colpa necrotico, mi costringono a reprimere il nodo
in gola che, ancora, di più, mi impedisce di respirare normalmente. E quando
inizio a piangere, quando le lacrime mi affannano la vista, quando scivolano sule
guance, d’istinto stacco la mano da quella di Draco per asciugarmi il viso.
Ancora, non lo guardo, ma il suo silenzio è dolce, morbido, soffice.
Pensa che sono felice, pensa… che piango di gioia. Ci
sono tutti i motivi per essere felice.
Ed invece io
non riesco a respirare: ed invece, come una che sta per avere un infarto, mi
sbottono i bottoni del colletto della camicia, avverto le vene affluire troppo
sangue al viso, facendomi scoppiare di calore.
… perché non riesco ad essere felice? Perché non fa bene?
Perché fa solo male?
Sono diventata così assurdamente rancorosa, da non
provare più gioia?
Oppure… ormai ci siamo fatti così male, che non riesce
più a farmi stare bene?
Da quello
spiraglio, d’incanto, respiro: è aria calda, schifosa, oscena, miasmatica.
Avvelena, distorce, contamina, rende cancro i polmoni. Ed è un pensiero così
assurdamente vero, così drammaticamente onesto, così impossibile da negare che
se ne sta di marmo davanti a me, contemplandomi con la percezione scomoda delle
cose scontate. Sorride beffardo, mi deride, mi ingiuria, mi dice che essermi
sentita in colpa per non riuscire a gioire, è ancora più idiota. Perché lui,
quel pensiero, stava sempre là.
Non se n’è
mai andato.
Mai… da
quando ho saputo di Raissa.
Incerta,
indegna, vergognosa, alla fine mi azzardo a dischiuderlo quel pensiero: quello
ride, orrendamente, come il primo della classe che spiega il teorema al bambino
con il cinque in pagella.
Eccotelo: goditelo. Goditi il motivo per cui domani non
tornerai più.
È così semplice, immediato.
Ce l’hai davanti agli occhi, stupida.
La foto che nascondi nell’album, i disegni che fa lui su
un libro. Chi sono quei due? Siete voi?
Annaspo,
l’aria mefitica mi chiude il fiato. Certo
che è lui, certo che sono io.
Ed ancora la
mia stessa mente ride, crudele, malefica.
Non siete più voi.
Tu ami il ragazzo del Petite Peste. Quello delle rose nei
capelli, quello dell’abbraccio a Wonderland, quello che si struggeva per Helena
e i suoi genitori, quello che chiamava Serenity sorella.
Questo che ti stringeva la mano, neanche lo conosci.
Non conosci la rassegnazione spavalda che ha nello
sguardo. Non conosci la gloria riflessa di cui ora bacia il passato. Non
conosci l’accettazione amorevole di sentirsi padre.
Tu non c’eri, lui è un altro, adesso. E questo non
cambierà mai. Non avete né il tempo e né la voglia di cambiare le cose.
Di lui ami il passato ed odi il presente. Odi il padre di
Serenity, odi che ti abbia tradito, odi che sia andato avanti, odi che forse si
sarebbe innamorato di Raissa.
E lui… uguale.
Se ti declina e ti ama, ti declina e ti ama al passato.
Odia la mamma di Alex, odia che tu lo abbia tradito, odia
che sia andata avanti, odia che forse ti saresti innamorata di Ilai.
Che speranza hai di perdonarlo? Che speranza ha di
perdonarti? Che speranza avete, domani, di tornare?
L’amore vive nel presente, si appoggia sul passato e si
proietta nel futuro.
E voi vi aggrappate al passato, per scordarvi che nel
presente vi odiate e nel futuro neanche vi vedete assieme.
Se il cuore
ogni tanto mi vomitava addosso avvisaglie di disperazione acuta ed assoluta
mancanza di fiducia nella convinzione di tornare a casa, la mente clemente mi
aveva sempre protetto da questi pensieri, che una volta formulati,
riconosciuti… semplicemente non se ne vanno più. E se le ondate di dolore che
mi colpivano come frustate sulla schiena, ogni tanto potevano darmi qualche
segnale confuso di qualcosa, ora invece è come se avessi smesso di dibattermi
in un giogo che più lo rifiutavo, più mi stringeva, schiacciandomi il respiro.
Ed adesso,
davvero, non ho più nulla a cui aggrapparmi. Nulla.
Non posso
restare in questa stanza con lui un minuto di più. Devo andarmene, prima che i
singhiozzi che mi stanno salendo in gola, mi cadano sulle labbra e li senta
anche lui.
Chiederebbe
spiegazioni, mi scambierebbe per una pazza ingrata, crederebbe che vado
cercando tutto per non essere contenta.
E allora
dovrei spiegarmi, dirgli la verità che lui ancora non vede. E capirebbe, sì che
capirebbe, ed allora sarebbe finita.
Quello che sto provando io… questa… cosa… che manco
chiamarla disperazione rende l’idea… la proverebbe anche lui. E non posso
permetterglielo. Non posso.
Non può accorgersene, non può capire anche lui.
Perché questo pensiero, capirlo e rendersene conto… è
essere condannati. È la prova ultima che Adamar ci farà a pezzi.
Se lui non se ne accorge, se non lo capisce, se ne rimane
escluso ed estraneo… forse c’è ancora speranza.
“Hermione…”
mi chiama piano, con una punta di sospetto nella voce, come se avesse infine
compreso che tutto questo silenzio spezzato di lacrime non ha a che fare con
una gioia inesprimibile ed indescrivibile.
Cosa è più insopportabile?
Fargli pensare che neanche questo mi basta o fargli
pensare che niente ci basterà mai, arrivati a questo punto?
Farmi credere ingrata ed ingiusta? O farmi riconoscere
condannata a morte, come lui?
Gli mentirò con una bugia o lo accecherò con la verità?
Il male
minore è, ovviamente, il primo.
Assecondo la
mia volontà di andarmene, mi alzo in piedi e mormoro sconfitta, non guardandolo
neanche in faccia: “Scusami… n-non ce la faccio…”. Accento la mia voce di quel
tono rancoroso ed ostile che so che lo manderà in bestia, ma lo lascerà qui,
inchiodato al pavimento. Mastico la presunzione e l’arroganza di fargli credere
che non sarà mai abbastanza, e non trattengo le lacrime che so che gli spezzano
il cuore e che non sa come gestire. Ed alla fine fuggo nel corridoio, codarda,
infida, perfida. Ma salvandolo dal rischio che capisca anche lui fino a che
punto, ormai, non ci siamo più.
Senza fiato,
con la mano premuta contro la bocca a schiacciare i singhiozzi in gola, apro la
prima porta che trovo, rifugiandomi in una specie di sgabuzzino.
Non accendo
neanche la luce, lascio che l’oscurità sia spezzata solo da quel poco che
filtra dagli opachi vetri azzurri della porta.
E finalmente,
contro la parete, la mano ancora sulla bocca per paura che qualcuno mi senta,
mi sfogo piangendo. Non ho mai pianto così, in nessun momento della mia vita,
come se mi stessero strappando a viva forza la carne di dosso, come se un acido
mi stesse corrodendo la pelle. I singhiozzi sono così forti da farmi tremare il
petto, le ginocchia, le gambe. Mi accascio al suolo, ancora la mano sulla bocca
per il terrore che qualcuno mi senta e voglia consolarmi, ascoltarmi, farmi
parlare. Perché io non voglio essere consolata, ascoltata, fatta parlare.
Voglio solo che qualcuno riempia questa voragine, dentro.
Perché lui ce l’avevo dentro, sempre.
Ed ora, adesso, non ce l’ho più.
Solo se il mare evaporasse d’un tratto, lasciando abissi
vuoti, capiremmo quanto spazio prendeva sulla terra.
E io, quanto avessi dentro Draco Malfoy, nonostante
tutto, malgrado me stessa, non lo sapevo fino a questo momento.
Non passano
neanche cinque minuti che sento immediatamente, come l’eco di una fiera pronta
a prendermi, l’eco sordo di porte aperte e sbattute nel corridoio dove mi
trovo. Traballante, incerta, mi alzo in piedi, pronta a scappare via ancora, ma
non faccio in tempo a fare nulla che anche la porta dello sgabuzzino dove mi
trovo si apre con un tonfo, sbattendo contro la parete. Gli occhi arrossati,
sorpresi dalla luce, non mettono a fuoco chi ho di fronte, ma non ne ho
bisogno. La porta si chiude, facendomi restare di nuovo nella pietosa
semioscurità. Sento un respiro affannoso proprio di fronte a me, pioggia, terra bagnata, settembre.
“Esci
immediatamente” ingiungo severamente, la voce comunque pigolante come quella di
un pulcino bagnato a cui cerco di dare un tono, non riuscendoci. I singhiozzi
piegano e spezzano le parole, colmandole di pause inopportune e di rantoli
spezzati. Mi asciugo velocemente la faccia, inutilmente, perché ormai la patina
fosca sugli occhi è calata rapida e la luce è troppo poca perché davvero veda
qualcosa. Le guance si impastano di lacrime e mascara, dandomi l’aspetto
sicuramente di una derelitta. Eppure, come l’ultimo stendardo di una flotta che
si prepara all’estremo sacrificio richiesto dal mare, pianto saldamente i piedi
per terra, sollevo il mento e guardo Draco con inflessibile ira, sperando che
se ne vada.
“No”.
Non c’era
bisogno che mi dicesse di no: sapevo che lui non mi ascolta mai. Specie quando
ha quel viso: la mascella contratta, i denti stretti, le pupille dilatate e il
respiro veloce, ansante. Disordinati i capelli, disordinati gli occhi,
disordinato il torace che si alza ed abbassa velocemente. Mi guarda e basta, a
pugni chiusi, stretti, serrati. Non mi ascolta mai, non ti fidi mai di me, neanche la fiducia l’uno nell’altra abbiamo. Dove
pretendiamo di andare? Uno suono strozzato esce fuori dalla mia gola,
confondendosi con le lacrime.
Ma stavolta
mi deve ascoltare, se ne deve andare, non si azzardasse a stare qui un secondo
in più.
Non posso
sopportarlo, non posso parlare adesso.
“Ti ho detto
di andartene! Lasciami in pace!” urlo ancora a voce più alta, tremando,
lasciando che la voce di nuovo si spezzi e sperando che questo lo faccia andare
abbastanza in panico da lasciarmi sola.
“No”.
Niente. Non
c’è niente da fare: la voce è sempre quella, salda, seria, forte, fiera.
Neanche trema, neanche è incerta, neanche si piega. Non gli ho mai fatto paura,
terrore. E sebbene so che si sta dilaniando perché mi vede in queste
condizioni, l’angolo della bocca che si
solleva, le narici che fremono, gli occhi che pungono, le mani che vogliono
correre, vogliose, rapide, attente, apparentemente egoiste e distrattamente
generose, a chiudermi le labbra, a baciarmi le lacrime, mentre mi implora di
non piangere… eppure, ancora, non se ne va. Non si muove.
Decido di
combattere, decido di fingere che quella che ho davanti sia solo una
manifestazione d’orgoglio e di prepotenza. Decido di non vedere il resto,
perché mi uccide e non ce la faccio più.
Dalla tasca
dei pantaloni, estraggo la bacchetta, la faccio sfrigolare di scintille rosse
che accendono la stanza come il sole a mezzogiorno, gliela punto contro. Lui
non si muove, non fa nulla, fa un sorriso beffardo e triste. Di sfida. E allora, ancora, scoppio,
piango, glielo urlo contro, sperando di spostare quella montagna inerme che è.
“Esci subito
da qui!”.
Le scintille
volano, cadono al suolo.
Assieme alla
bacchetta.
E non è
stata la mia presa a lasciarla, perché qualsiasi cosa ho adesso tra le mani
rimane salda perché mi ci reggo alla ricerca di un sostegno come se non mi tenessi
in piedi.
Ho mollato
la presa… perché Draco, urlando un ultimo no
che ha fatto tremare la parete, ha stretto lui la presa su di me. Lo guardo
atterrita, terrorizzata, e poi implorante, supplice, con una preghiera
disperata in bocca, mentre la schiena trova la parete e resto bloccata in pochi
respiri tra lui e il muro. Sento il calore delle sue mani che mi tengono ferma
per gli avambracci, distinguo appena nelle lacrime che mi velano gli occhi il
suo viso adesso così vicino, da farmelo studiare come non ho potuto fare in
tutti questi giorni. I suoi occhi non lasciano i miei neanche per un attimo,
sono bloccati, fissi, incantati come quelli del predatore che si pregusta la
preda, prima di calare i denti nella pelle indifesa. Eppure, c’è sempre una
dolcezza mesta, struggente, ferita, che non lascia mai i suoi occhi,
un’incertezza misericordiosa che percorre i tendini delle braccia e fa tremare
le dita che mi tengono stretta. Piango, non riesco a smettere, mi divincolo, ma
non riesco a fuggire.
Fidati di me una santissima volta. Fidati, per favore.
Lasciami andare. Non farmi parlare.
Arresami al
fatto che, come sempre, non l’avrò vinta su di lui con la forza, sollevo il
mento e lo guardo con disperazione, come se fossi moribonda, sanguinante, ma,
ancora, non fossi in grado di arrendermi. Gli urlo contro, folle, pazza,
inselvatichita: “Che c’è? Che diamine vuoi ancora? Perché non puoi smettere di
farmi male? Lasciami in pace, maledizione!”.
Draco non si
scompone, oserei dire che neanche respira. Il suo viso è chiarissimo ai miei
occhi, nonostante la semioscurità e le lacrime. È ghiaccio, gelo, roccia. Resta
immobile, segue le tracce che il pianto mi lascia sulla pelle arrossata delle guance.
La presa sulle mie braccia si allenta appena, ma non così tanto da consentirmi
di fuggire.
“Ho bisogno
di sentirtelo dire” sussurra piano, lieve, leggero. Ma deciso, stoico,
implacabile, inamovibile. E lì tremo, agghiaccio, mi paralizzo.
“Cosa? Cosa
hai bisogno di sentirmi dire?!” rantolo fuori, ansimando, sbarrando gli occhi.
La pelle delle braccia, sotto le sue mani contratte, si riempie di brividi,
così come la schiena. Vado a fuoco, congelo, mi sciolgo come se fossi cenere e
poi di nuovo mi immobilizzo vittima del ghiaccio: tutto in neanche un battito
di ciglia.
“Il perché
avessi quella foto in quell’album…” biascica lui severamente, le sue mani sempre
artigliate sulla pelle delle mie braccia. I suoi occhi seguono una lacrima che
mi cade sulle labbra, mentre le riapro per dire, sfibrata, esausta: “Perché,
dannazione, Draco? Perché?”.
Respira a
fondo, forte, come se davvero stesse cercando una risposta in una selva di
pensieri, pronti a sbranarlo. Lo sguardo cade al suolo, fruga lontano come se
neanche esistessi più. Le sue mani non mi lasciano andare, neanche si sforza
più di tenermi ferma. La percepisce la mia assoluta mancanza di forze nel sangue,
sente quanto, sotto la pelle, tutto è algido mercimonio di calma finta.
Non ha
assolutamente bisogno di fare nulla.
Quando
riapre la bocca, la sua voce tuona da un punto lontanissimo nel tempo e nello
spazio, come se fosse d’improvviso prigioniero altrove. Paralizzato, bloccato,
incatenato.
È una voce
irosa, furiosa, masticata di rabbia. Ma non riesce a farmi tremare: perché
quella rabbia non so nemmeno verso chi la rivolga, probabilmente neanche verso
di me. È una rabbia stanca anch’essa, soffiata fuori solo quando diventa così
corrosiva che, a stare in gola, ucciderebbe. Ma non saprei nemmeno se lui
stesso creda che serva a qualcosa. Che serva davvero a toccarmi e a farmi male.
Perché, in fondo, è un’arma spuntata se la punta contro
me. Crede di impugnarla dal manico, brandendola contro di me, ed invece la
regge dalla lama.
Se cerca di colpirmi, prima anche solo di sfiorarmi, è
lui a finirne dilaniato.
“Non hai
ancora finito di farmi a pezzi, c’è ancora qualcosa di intero in me che merita
di andare in frantumi… devi finire il tuo lavoro…” sussurra alienato, come un
pazzo beccato a parlare con i fantasmi, prima di tornare a guardarmi negli
occhi. Sento i suoi polpastrelli premere sulla mia pelle, affondare, lasciare
segni che non se ne andranno mai. Ha una contrazione dell’angolo della bocca,
che deforma le parole in un rigurgito odioso: “Avanti, dai… fammi a pezzi.
Dimmi di nuovo che non basta. Dillo, ancora, che io… non ti basterò mai…”.
La freccia
colpisce il suo cuore prima ancora di colpire il mio. Perché prima ancora che
io ricordi quella notte di inizio luglio di cinque anni fa, l’odore delle rose,
il singulto febbrile della pioggia e gli echi sterminati dei tuoni, prima che
ricordi io stessa come suonava la mia voce quando potevo permettermi di amarlo
senza alcun problema o remora d’orgoglio, prima che rammenti di che sapeva
quella vicinanza accennata e in attesa che diventasse mano accostata, labbra
sfiorate, cuore sovrapposto… prima ancora che me ne renda conto io, se ne rende
conto lui.
Riesco… a… bastarti
anche così?
Tu non mi
basterai mai…
Fa più male
a lui ricordare quelle parole, sapendo che non potrebbe più udirle con lo
stesso senso, che a me, che comunque subisco quello spasmo improvviso al cuore
di sapermi scissa per sempre dalla versione migliore e più bella di me stessa.
Le sue labbra si arricciano di qualcosa che a definirla angoscia, pure si sbaglierebbe, pure si mentirebbe, pure non si
renderebbe giustizia abbastanza a quegli occhi così atterriti e sconvolti, come
se fossero stati sorpresi dalla luce neonata di un’apocalisse vicina ed
ineluttabile. È l’agnello, la bestia, il cucciolo, mandato al sacrificio.
Le sue mani,
sulle mie braccia, scivolano, perde un po’ la presa, mentre guarda in basso,
cercando un punto meno doloroso ai suoi occhi del mio viso e delle mie lacrime.
Non lascio che la desolazione mi travolga, non lascio che l’effetto delle sue
parole mi sconvolga e mi sgomenti al punto da lasciarmi inchiodata qui, a
finire di distruggerci.
Le parole
sono diventate mercenari bastardi, affamati di razziare gli ultimi scampoli
sopravvissuti del nostro amore sepolto.
Approfittando
del suo silenzio, ignorando quel viso basso e quelle spalle piegate, sfuggendo
gli occhi improvvisamente foschi e incatenati al suolo, biascico supplice: “Per
favore, lasciami andare… per favore…”. Le dita di Draco tremano un po’ sulle
mie braccia, per un attimo fortunato penso che si stia convincendo, che tutto
questo sia diventato troppo, che mi lascerà andare, risparmiandomi di finire
questo scempio maledetto di me stessa assieme a lui. Penso che abbia trovato in
ritardo un po’ di spirito di conservazione, di istinto alla sopravvivenza che,
se non ci lascerà vivere incolumi dopo Adamar, almeno ci consentirà di
andarcene fisicamente da questa vita con la consapevolezza ridicola di avere nel
cuore un amore riottosamente indissolubile e piegato solo dalle circostanze.
Ed invece,
come sempre, Draco non mi dà mai sollievo, pace, gioia tremebonda della
vergogna di fuggire. Le sue mani si rinsaldano sulle mie braccia, i suoi occhi
tornano spaventosi nei miei, riassume il contegno spaventoso del demone e della
fiera. E sorride crudelmente, masticando le parole con voce sottile e flautata:
“L’ho mai fatto? Ho mai concesso che prendessi una porta e te ne andassi, anche
quando sarebbe stato giusto, normale, ovvio? L’ho fatto una sola volta,
Granger. Una sola singola volta. E ti ho
persa. Pensi che lo farò daccapo? Pensi che ci proverò daccapo?”, hanno un
rantolo le sue mani come a trattenermi, come a tenermi ferma, come a strapparmi
al tempo che già mi ha portato via, e io lo guardo senza fiato, senza forze,
senza respiro, neanche provandoci più a scappare.
Insiste,
feroce, affamato, gli occhi deliranti, le dita che torturano la pelle: “Dillo,
Granger. Finisci il lavoro. Dillo… perché avevi quella foto?”.
“No” ripeto
testarda, scuotendo il capo, cercando un’impossibile fuga nel muro alle mie
spalle.
“Dimmelo,
dannazione, Granger! Dimmelo!” ripete lui, non preoccupandosi di tenere ferma e
bassa la voce, scuotendomi per le braccia come a cavarmi fuori le parole di
bocca “Domani a quest’ora potremmo essere morti… sputalo fuori… perché avevi
quella foto?”.
“Perché non
ho smesso un secondo di pensare a te!”.
La mia voce
esplode come una mina, imprevista, letale, mortifera. Scoppia, deflagra,
neanche le pareti ne assorbono il colpo. Rovina contro il mio petto e il mio
cuore esposto, spingendomi curiosamente all’indietro come per contraccolpo,
mentre mi manca il fiato, mentre si spezza il respiro. La verità scoppia fuori
e Draco lascia stare le mie braccia come se scottassero. Deve finire, dovrebbe
finire questa maledetta abitudine di non pensare quando sono con lui, di
perdere i freni, di lasciare andare tutto fuori come se fosse rovente,
venefico, mortale. Come faccio ora a rinnegare tutto questo? Come faccio ora a
negarlo? Come faccio ora ad andarmene da qui dopo tutto questo? Non lo guardo
in viso, non ne ho bisogno, perché l’aria è cambiata, il suo respiro è
cambiato. Me ne rendo conto immediatamente, come sempre è stato, come sempre
sarà. Prima questa stanza era quasi insopportabilmente colma di elettricità
statica: preannunciava tempesta. Ogni fiato, ogni respiro spezzava il silenzio
con la forza di una coltellata. Adesso invece il silenzio è fragrante, dolce,
profumato. Avverto Draco vicino, anche se neanche si è mosso, neanche ha
respirato. Le pareti sembrano vibrare ancora delle mie parole, che non posso
rimangiare, che non posso ricacciare indietro, che se ne stanno lì a dare
l’ultima ora d’aria al condannato a morte.
E, al
condannato a morte, se la pena è solo a due passi, non serve nulla della vita e
del suo ricordo. Serve solo buio soffice, e rassegnazione. Non luce, non
calore, non rimpianto. Come si fa a
morire, poi?
Eppure,
dentro, nelle mani che mi chiudo frenetica al petto, nelle dita che tormentano
le asole della camicia, nelle labbra che mordono le lacrime, qualcosa persino
mi rende felice, contenta, esplosivamente soddisfatta. Perché lo sai, adesso. Perché te lo porterai dentro, questo segreto,
ora anche tuo.
In un
attimo, all’improvviso sento un suo respiro più forte, più profondo, come a
raccogliere tutta l’aria che non ha respirato fino ad ora. Con la coda
dell’occhio, vedo i suoi piedi muoversi piano, lenti, nella mia direzione.
Sebbene sobbalzi, sebbene la mia schiena agghiacci di brividi, sebbene cerchi
ancora rifugio nella parete alle mie spalle, non riesco a muovere neanche un
passo. Basterebbe poco per scartare di lato, superarlo, andarmene. Basterebbe
poco, solo un movimento delle ginocchia, e recupererei la bacchetta abbandonata
al suolo, gliela punterei contro, lo spingerei via. Ed invece i piedi sono
incollati al pavimento, non si muovono di un muscolo neanche a violentarmi il
pensiero. Il cuore batte forte, come se si preparasse a consumare tutti i
battiti di una vita in questi pochi secondi che si srotolano tra i passi di
Draco che si avvicina a me. Un calore d’inferno affluisce dal sangue al mio
viso, che arrossisce e a cui solo le lacrime portano pietoso sollievo. E la
sola cosa che riesco a fare, è mordicchiare l’unghia del pollice, restare a
testa bassa, singhiozzare come una bambina ed… aspettare.
Aspettarlo,
come sempre ho fatto.
Come in tutta
la vita, sempre, ho fatto: persino prima di sapere che esistesse, persino prima
di sapere che avrei potuto amarlo.
Con un
piccolo sussulto, sento le sue mani poggiarsi sui miei fianchi, i polpastrelli
giocano un po’ con le pieghe della camicia, cercando varchi, spazi, passi
esposti. Rabbrividisco e sento il sapore del sangue in bocca, dove i denti
hanno escoriato la pelle fragile del pollice che continuo a mordicchiare come una
bimba spaventata. Come se si abituasse di nuovo piano a me e al mio corpo,
cambiato, trasformato, mutato da quel suo figlio che ho partorito senza di lui,
le sue mani sono dubbiose prima, incerte, delicate e timorose. Restano poggiate
e basta, ed ancora io potrei scacciarlo con facilità, potrei ancora fuggire,
potrei ancora salvarmi. Ed invece non lo faccio.
Ed invece
aspetto che prenda forza e sicurezza.
Aspetto che
il suo profumo si faccia più forte e mi annebbi.
Aspetto quel
movimento dolce mentre, con delicatezza, tenendomi ancora per i fianchi, mi
spinge contro la parte.
Aspetto che
le sue braccia si chiudano attorno alla mia vita.
Aspetto che
le dita si intreccino sulla mia schiena.
Aspetto e
bramo, poi, la prigione: quella tra la parete e il suo corpo, caldo, meraviglioso, forte. Mi cinge e
mi culla piano, lentamente, ed io ancora resto con quel braccio contratto sul
petto, con il pollice tormentato dai denti, con il sangue che mi bagna le
labbra, con le lacrime che invadono le guance. Draco poggia lieve le sue labbra
sulla mia fronte, come se carezzasse un bambino. Non è un bacio, non è niente,
resta solo lì per qualche secondo, e io già vado a fuoco, già sussulto, già socchiudo
le labbra, già comando le mie braccia stanche di cingerlo a mia volta. Chiudo
gli occhi, comandandomi di restare immobile, e respiro forte, i denti trovano
ancora la pelle del pollice. Compreso che non farò nulla, che non mi sposterò
di un passo, che me ne starò lì ferma, Draco mi tiene facilmente stretta solo
con un braccio. L’altra mano sale sul mio fianco, mi accarezza nel solito modo
distratto ed insolente che sa che gli lascerò fare, sospirando e sussultando.
Piano, percorre con le dita tutto il mio braccio teso, raggiunge la mano che
continuo a tormentare e la stacca velocemente e delicatamente dalle mie labbra
serrate. Lo guardo con gli occhi spalancati, finalmente cosciente di quanto sia
vicino, di quanto sia ad un passo da me, di quanto io non potrei scappare
neanche volendo. E non lo voglio. Dio,
non lo vorrò mai.
Le sue
labbra si poggiano piano sul mio pollice ferito, baciano il mio sangue e
diventano rosse come le mie. Ha gli occhi accesi, luminosi, fissi nei miei,
mentre cura a suo modo quella piccola ferita. Ed io avvampo, distolgo lo
sguardo, mi sposto a disagio quando non posso fare neanche il più piccolo dei
movimenti. Quando lo lascia andare, il mio pollice resta comunque sulle sue
labbra, percorre distratto tutto il loro contorno, prima che me ne renda conto
e lo nasconda dentro la mia mano chiusa. Non mi lascia, però, libera dai suoi
occhi: è un attimo prima che sollevi il mio mento con la mano, portandolo ad un
respiro dalla sua bocca. È annebbiato, nella coltre delle mie lacrime. Eppure,
lo vedo benissimo come se fosse fatto di luce liquida. Accarezza piano il mio
viso con la mano aperta, solletica la nuca con le dita e gioca con i miei
capelli; poi, di nuovo, chiude gli occhi, poggia la fronte sulla mia e si piega
su di me, arso, vinto, eppure ancora esitante.
Riapre gli
occhi, guarda i miei spalancati, spia la pelle del mio collo sconfitta dal
cuore che batte impazzito, facendo pulsare le vene. E sussurra in un respiro di
menta e limone che accarezza le mie labbra: “Dovrebbe essere facile adesso,
no?”.
L’aria che
respiro è la stessa aria che respira lui, ho gli occhi socchiusi, come se ci fosse
improvvisamente troppa luce in questa stanza buia.
Senza
convinzione, senza realmente pensarlo, sussurro ancora, vittima dell’orgoglio:
“Per favore, Draco… lasciami andare…”.
Capisce
subito che non lo penso, passa un fulmine negli occhi grigi, dice severamente senza
muovere un muscolo: “Avanti, su… vai via… non ti sto tenendo legata… vai via,
se vuoi…”. Ogni volta che dischiude le labbra, ogni volta che le apre e le
muove, accarezza e sfiora piano le mie, riducendomi in cenere. Mi aggrappo al
suo braccio, come se mi stessero risucchiando via, come se davvero a qualcuno
sia saltato in mente di strapparmi via da lui. Draco, quasi con comprensione,
continua ad accarezzarmi piano i capelli con un sorriso dolce, quieto, gentile,
eppure affamato, non pago, mai sazio. Mi mordo il labbro inferiore con ansia,
ogni cellula del mio cervello che mi ordina di prendere ed andarmene via,
possibilmente per non tornare più: mi si ripropongono frammenti di immagini che
non hanno senso e non hanno scopo alcuno, come se mi volessero distogliere e
salvare da questi occhi grigi puntati nei miei.
Gli occhi lucidi di Ron sul tetto. Qualche parola sparsa
di Dean. Lo sguardo pietoso di Harry.
Ilai.
Diecimila volte Ilai nella mia testa.
Sussulto,
rabbrividisco, serro gli occhi come a fermare la sua immagine nella mia testa,
qualche altra lacrima rotola giù. Ma nulla, niente, riesce a farmi muovere di
un passo. Il mio corpo e il mio cuore sono sempre stati più sinceri di me, mi
hanno sempre smascherato e sbugiardato. Sospiro, gemo, respiro ancora. E riapro
gli occhi, trovandomi Draco sempre lì, concentrato sulle mie labbra con quel
sorriso meraviglioso che è la sola cosa che ho voluto, sognato e desiderato in
cinque anni.
“Dovrebbe
essere facile adesso, no?” ripete ancora in un sussurro caldo sulle mie labbra,
la mano che mi teneva il viso sollevato scivola piano sul volto, si apre sulla
guancia, chiude il mio viso a coppa assieme con l’altra che ancora gioca con i
miei capelli. È vicino, vicinissimo, sento già un’eco del sapore delle sue labbra,
e socchiudo gli occhi, vinta, sconfitta, arresa, affamata, esausta, colpevole,
vincitrice, ipocrita. E di fondo, persino la mia mente si arrende, persino il
mio cervello geme in silenzio perché darò la colpa a lui, dirò che è sua la
colpa, dirò che non ce l’ho fatta a scacciarlo, dirò qualunque cosa ed avrò
ragione, perché sarò morta, e i morti non si contraddicono.
Ed allora avrà avuto persino senso baciarlo, perché tanto
stavo per morire, ed allora andrà anche bene andarci a letto per un’ultima
volta, perché tanto stavo per morire, e poi sono morta sul serio, ed allora
sarà solo un segreto tra me e lui, e poi di fondo il corpo non ha alcuna
decenza, sanità o orgoglio, e dirò che sarà stata colpa sua, e rinnegherò il
cuore che brucia, il cuore che mastico tra le labbra chiuse, il cuore che urla,
il cuore che scoppia in petto, ed allora sarò peccatore irredento ed innocente,
macchiato dalla venale vergogna di non essere forte abbastanza nella carne, ma
con spirito e respiro intatto; sarò angelo, dea, fata, quando dentro invece
saprò solo io quanto sono demonio, mostro, tiranno.
Lo sento
ancora respirare sulla mia bocca, si mescola il fiato della mia e della sua,
eppure aspetta, esita, non si muove ancora. Riapro gli occhi lenta, piano, e lo
vedo sempre lì, sempre immobile, sempre con il mio viso tra le mani, e penso a
quanto sarebbe facile adesso prendermelo io questo bacio. Basterebbe solo
inarcare un po’ la schiena, basterebbe solo portare le mani che si torturano
tra loro sulla sua nuca, attirandolo a me. Leggo persino quel bagliore di luce
nei suoi occhi, che mi implora di farlo io questo passo, di fare quello che
lui… non riesce a fare.
Ci provo
persino, comando persino me stessa di muovermi, ma… non ci riesco. Sgrano gli occhi, inizio a respirare a fatica e
quasi gli chiedo scusa con gli occhi. Non
ce la faccio.
Dio… non ce la faccio.
Ci guardiamo
entrambi, sconvolti, disperati, con gli occhi aperti e spalancati da un terrore
che, per noi, è più ancestrale della vita stessa. La mente ci rinnega. Il cuore ci scaccia. Anche il corpo, adesso?
Davvero, tutto si è fatto così estraneo adesso?
Ed allora,
pur di smettere di pensare, pur di non ricordare, pur di cancellare quello che
in fondo allo stomaco già so, già sapevo e che non volevo semplicemente ricordare,
dico la prima cosa che mi viene in mente, guardandolo dal basso verso l’alto,
fingendo una malizia che non ho ma che perlomeno celi la disperazione che
ruggisce sottopelle.
“Magari
semplicemente non lo vuoi più… non mi
vuoi più…”.
Non attende
neanche un secondo per rispondermi, si stacca da me solo il necessario per
potermi guardare e soppesare con lo sguardo di nuovo deciso, offuscato, buio.
La voce è
forte, intensa, dolente, senza alcuna esitazione: “Dubita di qualsiasi cosa,
Hermione Granger. Tranne che di questo… che abbia mai smesso di volerti più di
quanto sia possibile ed auspicabile per restare sano di mente…”.
Ricomincia.
Tutto ricomincia come le tempeste a luglio, quando le nuvole si addensano
all’orizzonte, compare un scampolo di sole, giunge un tuono lontano e sai già
che ricomincerà a rovinare la pioggia sulla terra, distruggendo, inondando,
scavando fango. Ricomincia: perché quando hai sete, se cerchi di saziarti di
una bevanda dolcissima, hai sollievo per solo cinque secondi, poi ricomincia la
sete più rovente di prima. Ricomincia, perché quando le parole ormai sono
assassine, non smettono mai di esserlo. Ricomincia, perché se non sei più in
grado di chiuderle fuori le parole con i baci, le carezze, anche se sono solo
pallidi e sbiaditi rimedi, allora sei condannato. Siamo condannati.
Mi trema il
labbro, mentre riapro bocca e sussulto mormorando: “Avevi bisogno anche tu di
finire il lavoro? Di finire di farmi a pezzi? A che cosa serve che io lo sappia
adesso? A che cosa serve dirti adesso che non ho mai smesso di pensare a te?”.
Draco
agghiaccia, sobbalza e si stacca ferocemente da me, come se d’improvviso la
verità indubitabile delle mie parole gli sia giunta alle orecchie come una
bestemmia incalcolabile. Freme, chiude i pugni, ansima, le narici dilatate
nella stasi della rabbia. Mi si affolla la pelle di brividi ghiacciati, e non
c’entra che ho paura di lui, non ne ho
mai avuta, c’entra solo che improvvisamente è di nuovo lontano.
C’entra solo
che ormai è vicinissimo a capire, a comprendere. Ogni ombra che si mangia i
suoi occhi, è un terribile ed osceno passo in avanti.
La rabbia
raggiunge ed arma le sue mani, colpisce violentemente il muro alle mie spalle
con le palme aperte, proprio ai lati del mio viso. Non sobbalzo, non trasalgo,
non mi sposto nemmeno.
“Lo vedi? Lo
vedi?” sibila glaciale, guardandomi storto, prima di allontanarsi da me con
frustrazione e iniziare a misurare la piccola stanza a grandi passi come se,
improvvisamente, non riuscisse più neanche a guardarmi “Perché è così
maledettamente facile farsi del male per me e per te… ed invece non riusciamo
più a farci stare meglio?”.
“Questo…” dico esitante, con un sospiro
mesto “Dovrebbe farci stare meglio?”.
Draco si
ferma al centro della stanza improvvisamente, mi guarda con le spalle piegate e
sussurra piano, ingenuo, dolce, innocente come mai è stato: “Non funziona come
le fiabe, Granger, come quelle che disegnavo per Serenity? Non funziona così?
Se ti bacio, non va tutto a posto, come per magia, come per miracolo? La principessa
si sveglia e il principe diventa Re… non funziona così… Hermione?”.
Ritrovo il
sapore delle lacrime in bocca, mentre scuoto il capo a cancellare quella
sensazione di miele che me lo ripropone di fronte con quella dolcezza arrogante
e sfrontata che ha anche nostro figlio. Ed ancora sono mamma, crudele mamma con
i piedi per terra, che replica stanca ed affannata: “Io e te non siamo mai
stati una fiaba… ci faremo solo più male così…”.
“Perché?” mi
chiede ancora, sincero, onesto, ancora caparbio martire di una causa persa. Fa
un passo, e poi ancora un altro, avvicinandosi di nuovo a me, riprendendo a
sussurrare ad un sospiro da me, mentre io non mi chiudo tra lui e il muro, non
concedendomi questo alibi idiota. Poggio le mani sulle sue spalle, lo tengo
lontano e vicino assieme, non lascio che si avvicini e neanche che se ne vada.
E lui mi
stringe i fianchi, non accenna a nessun movimento ulteriore, parla e basta, la
fronte di nuovo poggiata sulla mia, gli occhi chiusi, il tono della voce
soffuso come se si confessasse in punto di morte.
“Ti bacio e
te lo tolgo a forza il sapore di Radcenko dalla bocca. Ti bacio e ti tolgo il
modo che ha di guardarti, come se fossi un regalo fatto apposta per lui, quando
tu sei stata fatta per essere un regalo a me e a me soltanto. Ti bacio e ti
tolgo a forza il modo che hai tu di guardare lui, come se ti servisse per
respirare, per andare avanti, come se avessi sempre più bisogno di lui e non di
me. Ti bacio e mi tolgo dagli occhi il pensiero di che cosa può averti fatto
Karkaroff che non mi dici, perché ti guarda come se un po’ ti avesse avuta, e
persino una briciola di te in mano a quel mostro, mi fa ribrezzo e gliela
toglierei con la forza, con il sangue, con il dolore, pur di saperla di nuovo
solamente mia. Ti bacio e ti tolgo a forza che Weasley è stato il padre
migliore che potesse avere mio figlio a causa delle circostanze, ti tolgo il
ricordo che vivesse con te, dormisse con te, magari ti baciasse persino,
sentendoti sua. Ti bacio e sparisce che ti appoggi a Thomas se hai paura, o
guardi Potter se sei incerta, e sfuggi i miei occhi come se scottassero, come
se non li sopportassi, come se non potessi neanche sopportarne la vista. Ti
bacio e ti tolgo dall’orbita di ogni uomo che ti ha guardato, respirato,
accarezzato, sfiorato. Ti bacio… e ti perdono per aver osato pensare di poter
vivere senza di me. Per averci anche provato. Per aver creduto che un altro,
chiunque, potesse essere me. Per averlo persino augurato per nostro figlio. Per
non essere corsa da me. Per non avermi detto subito di nostro figlio. Perdono
quella pancia che cresceva senza di me ad accarezzarla e a prenderla in giro,
perdono le labbra strette se arrivavi a pensarmi ma senza che i piedi si
muovessero ed andassero via dalla tua vita in naftalina, perdono la rabbia che
hai per me, perdono la morte che mi puoi dare… ti bacio… e tutto questo andrà a
posto… vero?”.
Non so
quando ho cominciato a singhiozzare così forte, da temere che il cuore mi esca
dal corpo. Non so quando ho cominciato a temere che gli occhi mi bruciassero
così forte, che forse stessi piangendo sangue. E non so nemmeno quando ho
chiamato nella testa queste parole testamento.
Non so nemmeno se la sensazione che abbia il petto pieno di spine, non sia
solo un’illusione e non una strana certezza dell’anatomia. So solo che, ad un
certo punto, ho chiuso le braccia attorno alle sue spalle, ho cominciato a
piangere con la fronte poggiata sulla sua clavicola, mentre con la testa negavo
febbrilmente e gli imponevo quasi di fermarsi, di smetterla. Ogni singola
dannata parola è un rocchetto di filo, che ti illude di portarti fuori dal
Minotauro, ma invece ti getta dritto nelle fauci del mostro. Ogni parola, è una
conferma. Ogni parola, è una certezza. Tutto quello a cui cercavo di non
pensare, che in realtà tra noi è solo
vendetta sporca, nulla dell’amore se non quello romanzato del passato, detona
dentro di me.
Ed ora siamo
davvero alla fine: ora, davvero, non posso più nascondermi. Ora, davvero, saprà
tutto anche lui. E dovrò strappare, come petali di una margherita setosa, ogni
suo pensiero, farlo rassegnare alla morte, farlo scendere nella fossa scavata
apposta per noi, assieme a me. E non volevo, non voglio. Non posso.
Vi prego, qualcuno, chiunque… non me lo faccia fare. Non
me lo faccia dire. Mi uccida adesso, e basta.
Ed invece,
come la megera che sogghigna quando deve dire ad un bambino che Babbo Natale
non esiste, sento già le mie corde vocali atteggiarsi a parlare, comprendendo
dalla tensione del corpo di Draco contro il mio che sta attendendo una
risposta, sta attendendo che io parli, sta attendendo che io, l’amica delle
parole, spieghi tutto e srotoli inoffensivi pensieri ai suoi occhi.
Non sa
quanto le parole mi si siano ritorte contro, e siano diventate attentatrici
alle spalle.
“Non puoi
davvero pensarlo…” sussurro contro il suo petto, sperando che passi,
trincerandomi ancora dietro una frase innocua.
Draco mi
stacca gentilmente da sé, tiene ancora il mio viso tra le sue mani, mi
accarezza piano gli zigomi con le dita, prima di bisbigliare con voce
dilaniata: “Perché?”. Ho ancora un sussulto nello sguardo, un accenno di
diniego nel collo, una preghiera bloccata tra i denti, non mi far parlare per favore.
Lui invece
aspetta, lui invece attende quello strale fatale che lascerebbe scagliare solo
a me.
E quello
alla fine arriva. Alla fine, semplicemente scoppia fuori.
“Neanche
riesci più a baciarmi, Draco. Non vuoi perdonarmi… vuoi solo punirmi…” le sue mani perdono la presa
con il mio viso, mi guarda come una Sibilla crudele, come i troiani guardavano
Cassandra che preconizzava sventure. Con gli occhi atterriti, gli arti
abbandonati, la mente affollata delle parole che mi ha appena detto e che ora
acquistano il loro verso senso e significato.
Benzina sul
fuoco, è il bacio che non è riuscito a darmi, che non siamo riusciti a darci,
che ancora non riesce a pensare di darmi.
È la prova
dell’omicidio: il coltello sotto il tappeto, sporco di sangue. La pistola
fumante. Il bicchiere pieno di veleno.
Singhiozzo
ancora e già rimpiango le sue dita sul mio viso, faccio un passo in avanti
verso di lui a braccia tese come a trattenerlo, ma poi le mie mani si bloccano
e ricadono lungo i fianchi.
“Vuoi
punirmi perché ad un certo punto, per un motivo qualunque, ho scelto altro. E non te…” piango ancora, stringo
gli occhi e pigolo fuori con voce straziata ed acuta: “Come io non riesco a
perdonare te. Non sarà un bacio a mettere a posto le cose. C’è… troppo, Draco… che ci fa male ancora
adesso. Non basta stringerci, stavolta, dirci che ci amiamo, stavolta…”.
Mi
interrompe, fa un passo verso di me, allunga una mano che poi si arrende e
ricade piano, come un vessillo spezzato. Gli occhi sono esitanti, il corpo
pure.
Ha la voce
spezzata dal pianto, quando mi chiede disperato, come se davvero non ci credesse:
“Mi ami? Tu… mi ami ancora?”.
Le lacrime
si fermano, si bloccano, si arenano. Sicura, spavalda, sollevo il mento e
pronuncio il mio giuramento, con la forza di un dogma divino: “Non esiste più
un’Hermione Granger che non ami Draco Malfoy”. E l’osmosi è completa, lui
accusa il colpo, si chiude le dita sul petto, stringendo la camicia. Parla a sé
stesso, folle, pazzo, lo sguardo fisso al pavimento.
“Dici una
cosa così… e da una parte ti prenderei contro questo muro, facendo l’amore per
tutta la notte. E da una parte, non riesco a sopportare neanche di guardarti…”.
“Perché ti
ho tradito… come tu hai tradito me…” sussurro, e i singhiozzi di nuovo
deformano la mia voce “Non lo capisci? Perché me lo stai facendo dire? Perché
mi ci stai facendo pensare? Potevo tenerlo nella testa… e fare finta che non ci
fosse…”. Nascondo il viso nelle palme, cancellandomelo dal viso, fingendo che
non ci sia più, invocando il pensiero di Alex, di Ilai, di Ron, o di qualsiasi
altro angelo o demonio che mi strappi da qui.
“Ami la
ragazza del Petite Peste, la tua cameriera che camminava scalza per casa…” lo sto dicendo davvero, perché sto parlando
ancora? Perché nego e spergiuro l’amore, e qualcuno non mi uccide adesso?
Perché non mi sentono gli Empatici? Perché non vengono a dirmi che solo l’amore
può salvarci ed allora me lo incastona nel petto, me lo innalza con la magia,
me lo incatena al cuore così non fugga?
Nessuno
arriva. Nessuno. E le mani chiuse sul viso, le lacrime che mangiano gli occhi,
mai si sono mangiate anche le parole.
“Ed io amo
il mio capo arrogante e presuntuoso, che mi ha baciato sotto la luna nuova… ma
quelli…”.
L’ultima
freccia, l’ultimo fendente, l’ultimo colpo… almeno lo scaglia lui.
Comprendendo, infine, a voce mozzata, a lacrime fiorite, a vita spezzata.
“… quelli non siamo più noi…”.
Silenzio.
Rombo. Tuono. Terremoto. Voci lontane. Risa. Grida. Bambini. Bambine. Amori.
Odi. Saluti. “Torna presto”. Contraccolpi. Erba bagnata. Vaniglia e tè nero.
Respiro. Respiro. Singhiozzo. Sussulto.
Fine. La
fine.
Questa è la
fine.
“Domani… noi
non torneremo, vero?”.
“No, Draco”.
Le ginocchia
si piegano, cado per terra, supplice, implorante, spezzata. Non tocco il suolo,
però: Draco corre, mi stringe, mi abbraccia.
Piange sul
mio collo, tutta la notte.
Piango sul
suo collo, tutta la notte.
Dietro le
palpebre chiuse, mentre torno lentamente alla coscienza, si disegna una trama
di parole mozzicate e di rantoli scomposti. Per un attimo, non ricordo nulla,
resto ad occhi chiusi beandomi del silenzio e di un vento fresco che spira da
una qualche finestra vicina. Non ricordo per un secondo neanche come mi chiamo:
accolgo solo una sensazione piacevole di pace, in fondo allo stomaco, e la
curiosa convinzione di avere davvero dormito profondamente per la prima volta
in settimane. Riposata, rinvigorita, resto ad occhi chiusi con un sorriso
inspiegabile.
La prima
cosa di cui mi accorgo è una luce grigiastra che preme contro le palpebre:
automaticamente penso che manchi poco all’alba ed associo la sensazione di
benessere alle domeniche di ottobre, ad Hogwarts, quando potevo poltrire a
letto un po’ di più. Lento, però, mentre il mio corpo si risveglia lieve, la
percezione di esso mi rimanda ad una sua foggia ben diversa da quella della
ragazzina.
Sono grande,
sono una donna: ho ventotto anni. Ho preso il diploma, ero un’Auror, poi una
cameriera squattrinata.
Quelle
immagini, però, non hanno consistenza alcuna: non acquisiscono definizione e si
confondono nel vento che mi soffia sul collo, portandosi un odore salmastro. Il mare. Non è Hogwarts allora. Ma non
può essere neanche Favignana: quando mai sono stata in pace, lì? O forse è
successo qualcosa… e io… non me lo ricordo… è rapido, allora, fulmineo, che in
un solo respiro, torni tutto alla mente.
Come un
treno che passa in una stazione deserta con i vagoni che sferragliano sulle
rotaie, riducendosi a macchie luminose e saettanti nelle pupille, così le
immagini di questi ultimi giorni mi si ripropongono velocemente, causandomi un
vuoto allo stomaco. Raissa in casa di
Draco. Il ritorno di Dimitri. Il rapimento di Alex. La Solutio
damnationis. Il senso di ansia e di angoscia per
mio figlio riprendono pieno possesso del mio cuore e dei miei pensieri,
causandomi il solito pizzicore diffuso negli arti immobili e negli occhi che già
percepisco come arrossati, come se avessi pianto per giorni. Sono così pesanti
che nemmeno riesco ad aprirli. Ed è a quel punto che, risalendo a ritroso nella
memoria, ricordo anche perché ho pianto così tanto.
Io… e Draco. Il libro di favole. La fotografia. La fuga.
Quel ripostiglio buio. Ha cercato di baciarmi… e non ci siamo riusciti. La
consapevolezza che domani, anzi oggi… non torneremo indietro.
Non ci unisce un amore puro e meraviglioso,
incontrastabile, privo di colpa e rimorso, ma solo stralci di sentimento che
solo il tempo avrebbe potuto rendere vergini di rancore ed odio.
Un tempo che… adesso non abbiamo. Un tempo che… ci
condanna innamorati di persone che non siamo più.
Quella
sensazione di… non farcela più.
Semplicemente.
Lui… che mi
stringe forte, le labbra premute sulla mia fronte. E che piange, con me,
assieme a me.
Quando le
lacrime si sono pian piano arenate nei miei occhi, quando semplicemente mi sono
sentita troppo stanca per fare altro, quando improvvisamente la coscienza di
non poter fare più nulla per cambiare il mio futuro, quando ho compreso che
l’importante era che mio figlio fosse in salvo in qualche modo, quando persino
la rabbia che provavo per lui si è trasformata in un senso ineluttabile di pace
sconfitta e di rassegnazione nervosa… ho avvertito d’un tratto tutta la
stanchezza di questi giorni, gli occhi che mi si chiudevano, la guancia premuta
contro il torace di Draco.
E, da lì, è
diventato tutto confuso, una nebbia luminosa ed iridescente che profumava di
lui. Il profumo della terra a settembre.
Mentre con
fatica riapro piano gli occhi, chiudendoli quasi subito per una lama di luce
che mi ferisce, mi sento così impregnata di quel profumo che mi chiedo se non
mi sia entrato nelle ossa stesse. Lo sento ancora, fortissimo, vicinissimo. E
lì ricordo gli ultimi tasselli delle scorse ore.
Il sonno che calava sulle palpebre, pietoso. Draco seduto
per terra, le guance ormai asciutte, il mento poggiato sulla mia testa, le
braccia strette attorno alle mie. Un sospiro, il respiro finalmente sciolto. Qualche
parola che non ho inteso. E poi... ero nel corridoio, in braccio a lui, le
braccia allacciate alle sue spalle salde. Il buio della sua camera. Il letto.
Una coperta.
“Dormi un po’, adesso, ok?”. La voce un po’ spezzata, un
po’ tremula, poco sicura.
“Puoi stare un po’ con me, però?”. Come se fossi ubriaca,
come una bambina con la febbre alta che sragiona nel sonno.
“Fino alla fine del mondo. Anche se fosse stanotte”.
Calma, pace, dolcezza. E poi finalmente… la quiete del
sonno.
I miei
sensi, finora addormentati, tornano tutt’un tratto, assieme al cuore che si
ridesta e riprende a battere forte, come farneticante. Con un senso di
meraviglia e timore inconscio mescolati assieme, riapro gli occhi lentamente.
Sono effettivamente distesa sul letto della camera di Draco, quella dove mi
risvegliai dopo lo scontro con Dimitri. Riconosco la mobilia e la finestra
aperta sul giardino, dove si sentono ancora le voci allegre di qualcuno che non
ne vuole sapere di andare a dormire. Ma non è quello che, ovviamente, mi fa
andare in fiamme il viso. Attorno alla mia vita, poggiato come a proteggermi e
a tenermi contemporaneamente vicina, c’è un braccio dalla pelle chiara che non
potrei mai confondere con quello di nessun altro. Tiene la sua mano sul mio
ventre, chiusa e coperta dalla mia. E solo adesso, non so come e non so neanche
perché, con un sussulto, distinguo un respiro nei miei capelli e la forma delle
sue labbra su di essi.
Mi sfugge un
sorriso che non so da dove mi sia spuntato, specie adesso, specie quando, con
ostinazione e pietosa ipocrisia, mi volto lentamente su me stessa, rigirandomi
nel letto per sincerarmi che sia davvero lui. Compio la mia manovra in silenzio
e con cautela, non spostando il suo braccio ancora chiuso sulla mia vita,
trovandomi finalmente di fronte a lui.
Draco ha il
respiro regolare e lento di chi è profondamente addormentato e, come ricordavo
ancora, nel sonno si lamenta un po’ come sempre. Ha il labbro inferiore
leggermente sporgente come se avesse un buffo broncio, cosa che ancora mi
ricorda Alex, ed ha le ciglia biondissime così lunghe che mi chiedo come non si
attorciglino tra loro. Sono ancora bagnate, non so se per le lacrime o per il
sudore di questa notte calda, e tremano leggermente. I capelli sono
disordinati, ricadono a grandi ciocche sulla fronte, spostandosi un po’ a ritmo
del suo respiro. Il suo braccio è fermo, immobile, decisamente chiuso sul mio
fianco, la mano aperta e poggiata sulla mia schiena. È così bello, così
irrealmente meraviglioso averlo qui, così, vicino a me, come lo sognavo sempre
in Italia, che mi chiedo se davvero non sto sognando. E, vittima di quella
sciocca ed infantile paura, allungo lentamente una mano per toccargli il viso.
Ma non faccio in tempo a sfiorarlo che Draco spalanca le palpebre con un
sobbalzo, come dopo un incubo. Respira di sollievo vedendomi lì, gli occhi si
sgranano e tornano poi alla normalità. Però, immediatamente, si accorge del
braccio che teneva poggiato su di me e lo stacca bruscamente, un’ombra di
rossore sulle guance. Metto a tacere la punta di delusione che sento nel
ventre, assolutamente sgradita ed inopportuna, ed abbasso lo sguardo,
concentrandomi su altro.
“Scusami…” sussurra
con la voce impastata, a malapena udibile.
“Non
importa…” sorrido, tornando a guardarlo, ha gli occhi ancora foschi e nebbiosi,
nascondo con un sospiro le mani sotto il cuscino, prima di bisbigliare pacata:
“Stai tranquillo”. Il tono delle nostre voci è cambiato repentinamente, dalla
sera prima. È soffice, gentile, timoroso, mai urlato. Non ci siamo mai parlati
così, anzi… tra di noi, tendenzialmente usavamo un colore di voce abbastanza
stridulo ed antipatico, anche quando stavamo assieme. Eppure, questa… delicatezza… adesso è persino giusta,
necessaria. Come se camminassimo su un terreno minato. Come se ieri sera, con
il suo carico di scoperte, avesse fatto scoppiare una bomba, il cui conto alla
rovescia durava da mesi, forse anni. Adesso, nelle rovine, ci muoviamo come
reduci: rimpariamo a comunicare, a conoscerci.
Anche se tutto questo durerà solo poche ore. E, forse, la
pace è cominciata proprio perché manca così poco alla fine.
“Sei
riuscita a dormire?” mi chiede con premura, gentilmente, spiando le ombre del
mio viso.
“Un po’… e
tu?”.
“Un po’
anche io…”.
Imbarazzata,
gli sorrido in risposta, giocherellando con le pieghe delle lenzuola. Poi, a
voce bassa, mormoro: “Grazie… di essere rimasto…”.
Draco non
risponde, non dice assolutamente nulla. Annuisce con un sorriso nuovo, diverso.
Forse anche chiamarlo sorriso, è troppo. È una semplice piega delle labbra, un
po’ statica, tirata, inespressiva.
Ma almeno
vera.
Si sistema
meglio sul cuscino, uno sprazzo di luce negli occhi grigi che spero, davvero,
che sia ancora la luce della luna. Non potrei sopportare che fosse già il sole.
Sembra che stia per dire qualcosa, dischiude le labbra ed accenna a parlare.
Poi tace, restando in silenzio a guardarmi. Non riesco a mia volta a smettere
di fare lo stesso. Starmene qui, su questo letto, a contare i secondi che
passano indifferenti nella mia testa, con questo sorriso mesto, guardandolo
negli occhi.
“Sarà un
segreto tra me e te, Hermione. Non è necessario che… lo sappiano…” bisbiglia Draco con un filo di voce, un’ombra
nerastra che si rapprende nella sua espressione, portandomi a stringere le
spalle quasi a moto di difesa. Comprendo a che cosa si sta riferendo, non è necessario che nessun altro, a parte
noi, sappia quanto questa missione sia semplicemente suicida.
Draco
prosegue monocorde, lisciando un’invisibile piega sul cuscino: “Specie Seth,
Pansy… penseranno che… ce l’abbiamo messa tutta e non ce l’abbiamo fatta… non
c’è bisogno che… soffrano da ora…”. Per qualche secondo mi incanto a guardarlo,
meravigliata, stupita. La tenerezza, la dolcezza, la preoccupazione che mette
in queste parole, per quelli che considera i suoi migliori amici, mi lascia
frastornata. Fino ad ora, ho visto l’evoluzione di Draco Malfoy solo in termini
negativi, solo in tutto quello che mi divideva da lui. Ora, vedo anche gli
albori di tutto quello che di bello è sorto in lui in cinque anni. Non solo il
padre… ma anche l’amico: l’uomo non più così egoisticamente concentrato su sé
stesso e la sua sofferenza, ma che addirittura comprende quella degli altri.
Avevo sempre avuto fiducia nel fatto che potesse diventare così… e so che avevo
ragione. Ora ne ho la conferma, anche se purtroppo non potrò vedere altro.
Rimasta
troppo a lungo in silenzio a fissarlo, mi affretto a replicare affannosamente:
“Sì. Hai ragione. Non ce n’è bisogno… è già abbastanza difficile senza che
loro…”. Lascio la frase a metà, grata che lui non la finisca. Un magone si deposita
velocemente sul mio petto, cerco di scacciarlo respirando profondamente. Mi
concentro sulla sensazione di calma che ho provato appena sveglia, cosciente
che, tutto sommato, avevo sistemato tutto quello che mi restava da fare. Con
Ron, con Serenity, con Draco. Per gli altri, non ho veri e propri addii. Non
devono sapere fino a che punto io sia cosciente di non tornare più. Spero solo di riuscire a rivedere Alex anche
di sfuggita. Le lacrime iniziano a pungermi di nuovo gli occhi, cerco
quindi di distrarmi come posso, e penso a quanto sia bello poter stare nella
stessa stanza con Draco, senza che tutto mi esploda nel petto, costringendomi
ad odiarlo. Non è cambiato davvero nulla. Raissa e il suo ricordo sono sempre
lì, con le recriminazioni, i rimpianti, i ricordi. Solo che, appunto, per
fortuna e purtroppo, non c’è tempo per pensarci. Per la prima volta da ore, con
un vago senso di nausea che mi colpisce allo stomaco, mi chiedo dove sia Ilai. Ed
è lì che la mia calma vacilla, si spezzetta, minaccia di scomparire. Abbasso il
viso, respirando, cosciente dello sguardo di Draco che, ancora steso su un
fianco vicino a me, non si perde nessun mio movimento.
Lascio che,
però, anche il pensiero di Ilai se ne vada dalla mia testa, nella somma e
consapevole coscienza di dover lasciare libero anche lui.
Mi muovo nel
letto piano, cercando assenso nei suoi occhi, fino ad arrivargli vicino e ad
affondare il viso nella sua camicia spiegazzata. Lo sento sorridere contro il
mio viso, il torace che vibra piano, mentre lo stringo forte, restando con la
testa seppellita sul suo petto. Mi cinge alla vita, rimane sempre con le labbra
poggiate sulla fronte nel gesto che ha imparato da qualche ora, e che ora
considera naturale.
L’anticamera di un bacio, che non riusciremo più a darci.
Ancora, per
scacciare i pensieri, mormoro quieta: “Dimmi qualcosa su di te che ancora non
so…”.
Draco sembra
irrigidirsi un po’, resta qualche secondo a chiedersi perché mi sia saltato in mente
di fargli questa domanda. Non lo so neanche io. So solo che voglio morire
sapendo più cose possibili su di lui, so solo che ce ne sono troppe che non
saprò mai, so solo che quelle forse che ci farebbero più male, comunque, non
riusciremmo a dircele. So che ne ho bisogno. So che ho bisogno di lui, adesso, come mai nella mia vita. Le dita
di Draco si avventurano tra i miei capelli, giocando distratte. Chiudo gli
occhi, rabbrividendo appena, e sospiro nel suo petto. Il suo profumo è così
forte, che penso non se ne andrà mai più da me. E non c’è cosa migliore al mondo.
Finalmente,
con un sorriso che sento nelle orecchie, Draco risponde cauto: “L’importante lo
conosci, Granger. L’hai sempre saputo.
E il superfluo… conta davvero adesso?”.
“Dimmelo lo
stesso. Per favore…” ribatto cocciuta, stringendomi di più a lui.
Ci pensa
ancora su, non parla ancora. Si limita a tenermi stretta, e davvero mi andrebbe
anche bene così.
Quando ormai
mi sono arresa a non avere una risposta, inizia a parlare a voce soffusa, bassa.
“Odio tutti
gli ortaggi color arancio, mi dà fastidio il sapore e da qualche anno li
associo ai capelli di Weasley, quindi adesso li detesto proprio. Non ho mai
buttato la sciarpa che mi facesti avere a Grimmuald Place, ci ho provato per mesi dopo allora e non ci sono mai
riuscito. Quando ho pensato che fossi andata via, ho comprato come un’idiota Orgoglio e pregiudizio, ma l’ho richiuso
dopo tre capitoli. Sono felice che Pansy stia con Thomas, non mi chiedere
perché, e se glielo dici, ti uccido. Mangio anche io il gelato fritto quando
sono felice, adesso, ed anche su questo preferirei che non commentassi. Ho
scritto una lettera per Alex, ci ho messo due ore e non sapevo che dirgli
perché neanche lo conosco. Poi ho cominciato a scrivere e non smettevo più. Gli
ho detto che mi piace il suo nome. Gli ho detto che, anche se fino a ieri non
sapevo nulla di lui, è assieme a sua sorella ciò che di più caro ho al mondo.
Gli ho chiesto scusa per non averlo potuto conoscere. Gli ho detto che, se
avessi scelto da chi avere un figlio, anche avendo mille anni e mille vite a
disposizione, avrei scelto sempre sua madre. E gli ho detto che, nonostante
tutto, tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata…”.
Draco non ha
quasi mai preso fiato mentre parlava, ha affannato le parole in un solo respiro
soffice. Adesso, recupera fiato, sento il suo torace abbassarsi e alzarsi
velocemente contro la mia guancia. Non dico nulla, non aggiungo altro: piango
naturalmente, tiro su con il naso e cerco di non farmi sentire da lui,
limitandomi con il capo ad annuire e basta. Senza neanche prevederlo, senza
nemmeno premeditarlo, mi ha detto tutto ciò che volevo sentire e sapere. Non
c’è nulla dell’amore mistico e magico che può sconfiggere Adamar, c’è solo la
corsa affannosa a vivere quel poco tempo che ci resta nella maniera più onesta
e serena possibile… eppure, c’è tutto. È un miracolo in cosa ci siamo
trasformati in poche ore, solo con la coscienza che stiamo per morire.
Se le cose
fossero normali, non sarei qui. Se le cose fossero normali, probabilmente ci
sottoporremo a mesi di chiarimenti e di risoluzioni che chissà come ci
lascerebbero, due derelitti imbruttiti dall’odio.
Invece ora,
non c’è più pressione, ansia. Nulla. Non siamo abbastanza per Adamar, non lo
siamo neanche per noi stessi. Siamo solo Draco ed Hermione, nonostante tutto.
Sempre.
Solo questo,
non cambierà mai.
Mi asciugo
una guancia con il dorso della mano, sei
la cosa più bella che mi sia mai capitata. Non è ti amo, non è non ti lascerò
mai, non è torneremo a casa, non
è neanche cresceremo assieme nostro
figlio. Ma posso portarmi questa frase dentro, dietro, senza che nulla me
la tolga dal cuore.
Draco mi
tocca la guancia con un dito, richiamando la mia attenzione, prima di
sussurrare tra il suadente e l’arrogante: “Non mi merito anche io un fantastico
discorso cuore a cuore in punto di morte,
adesso, Granger?”.
Sorrido,
inarcando un sopracciglio, prima di sollevare il viso e guardarlo dal basso
verso l’alto. Ha gli occhi tristi, un sorriso smorto che immagino replichi il
mio. Nego con il capo e biascico velocemente, descrivendo piccoli cerchi sulla
sua camicia, senza guardarlo: “Non ho mai avuto problemi di comunicazione,
Malfoy. Sai già tutto di me. Sai anche troppo”.
“Dimmi tutto
daccapo, allora…” ribadisce lui, testardo, mettendomi una ciocca di capelli
dietro l’orecchio.
Mi nascondo
di nuovo nel suo petto, aspettando di nuovo le sue braccia che mi stringano
forte alla vita. Non penso a che cosa sto per dirgli, respiro forte come a
prendere fiato e lascio che sia la mia voce, timorosa ma ferma, delicata eppure
salda, a fare tutto il resto.
“Odio il mio
mignolo sinistro da quando Lavanda mi disse, a quindici anni, che avevo le dita
troppo tozze. Mi è sempre piaciuto il tuo naso, ma preferirei che non
commentassi. Da quando me l’hai fatto notare, compro molti più vestiti rossi. Quando
ero incinta, ho divorato un’intera torta alle carote e mandorle, e sono
convinta che Alex detesti le carote anche per questo. Non so come diamine è
successo, ma credo che adesso chiamo Pansy Parkinson la mia migliore amica, ma
se glielo dici, ti uccido. Alex ogni mattina, da quando sa parlare, ti ha
sempre salutato con un Buongiorno papà! In
Italia ti ho scritto novecento tredici lettere in cinque anni, ho cominciato a
scrivere e non smettevo più. So che non ha senso adesso, so che non le leggerai
mai per tempo fino all’alba… ma voglio che le abbia tu. Sono tue. E credo di
non averti mai detto che… sei la persona che ho amato di più in tutta la mia
vita. E, nonostante tutto, se devo accettare un modo per morire oggi, lo
accetto solo perché sarà con te…”.
Sotto le mie
dita, sotto il tessuto della camicia, il cuore di Draco rimbalza forte,
battendo più veloce. Per qualche secondo, non sembra neanche respirare, se ne
sta in silenzio completo. Solo alcune cicale rompono la quiete della fine di
questa notte. Incerta, insicura, spio con la coda dell’occhio la sua reazione
ed è allora che vedo quella singola, minuscola e perfetta lacrima che gli
scivola indolente dall’angolo dell’occhio destro. La asciuga con rabbia, non
appena incontra i miei occhi, premurandosi di rassicurarmi con i suoi e di fare
spallucce con espressione fintamente rilassata. Ma la tensione delle vene del
braccio che mi tiene stretta, è evidente: scattano i muscoli sotto la pelle
tesa. Questa è solo una tregua armata, in fondo: tutto è sempre lì, sepolto,
come braci sotto la cenere. Basta un soffio per dare la vita a tutto. Basta una
sola parola che esca fuori dal seminato, dal tracciato inoffensivo, e potrebbe
scoppiarci tutto in faccia. E forse, quelle parole le ho dette io, adesso. Me
ne accorgo da come, adesso, mi diventa innaturale vedermi dall’esterno stretta
a lui, in questo letto. Me ne accorgo da come le ombre delle pareti mi sembrino
gli occhi di Raissa. Me ne accorgo del pensiero risorto di Ilai, che ora punge
nello stomaco più forte di prima. E me ne accorgo perché avverto la sua mano
sulla mia schiena in modo diverso, molto diverso. Un modo che non è affatto
pacifico, affettuoso e dolce. Piuttosto un modo che brucia i suoi polpastrelli
sulla mia maglia, facendomi improvvisamente chiudere gli occhi a
quell’improvvida carezza, come ad implorare che vada oltre, quando invece io
stessa so che, se lo facesse, lo odierei senza posa.
Draco sembra
intuire i miei pensieri, tanto che la sua mano sulla mia schiena dismette
quella carezza bellissima ma pericolosa, e sussurra lievemente noncurante: “Non
è stata una grande idea fare questo discorso, non credi?”.
“Credo
anch’io” asserisco convinta, poggiando di nuovo il palmo aperto sul suo petto,
rassicurata dalla sua voce di nuovo pacata e tranquilla.
“Un tempo
facevo altre cose a letto con te. Bei tempi” biascica in tono sognante ed
insolente, facendomi mio malgrado scoppiare a ridere, non prima di essermi
sollevata con il busto ed averlo colpito leggermente sul braccio. Lui sbuffa un
po’, sorride ancora. Mi appoggio di nuovo con le braccia incrociate sul suo
torace, con il viso rivolto verso il suo, il mento poggiato poco sotto il
collo. Lo guardo e basta, non riesco a fare altro. Sono svuotata in senso
buono, incapace di pensare o di dire altro. Voglio solo guardare i suoi occhi,
voglio imprimermeli nella testa.
Restiamo per
un po’ così, non saprei nemmeno io dire quanto. Con quel sorriso addosso che è
solo una smorfia che cela e disvela, che nasconde e mostra, che ama ed odia
assieme. Piego la testa di lato, poggiando la guancia sul braccio piegato,
chiudendo gli occhi quando le sue dita mi sfiorano piano lo zigomo, con la delicatezza
riservata di solito ad una cosa di cristallo, già mezza scheggiata, già con
qualche crepa. Forse mi addormento di nuovo, forse passa davvero troppo tempo,
perché quando parla di nuovo, quando mi accorgo della luce che ha cominciato a
diventare più chiara, mi sembra che siano passati solo qualche secondo.
“Voglio
stare con Serenity. Fino all’alba…” mormora in tono di scusa, la sua mano sulla
mia guancia trema un po’. Sussulto, chiudendo le spalle e sollevandomi,
restando in ginocchio sul materasso. Lui mi imita, sedendosi di fronte a me,
prima di afferrarmi il polso, sfiorandomi con il pollice l’interno del palmo
della mano. Sussurra lieve: “Vuoi… venire con me?”. Torno a guardarlo in viso,
la sua espressione è autenticamente spezzata in due, ancora gemella della mia. Non vuoi lasciarmi. Ma al contempo sai che
questa notte e questa vita devono finire… e hai bisogno anche di stare con tua
figlia.
Chiudo le
dita sulle sue, sorridendo forzatamente e rassicurandolo: “No, tranquillo. Posso
stare da sola. Ti… aspetto giù…”.
La sua
espressione si addolcisce un po’, come se avesse compreso che voglio lasciarlo
da solo libero di salutare la sua bambina, in pace. Qualcosa gli passa negli
occhi, qualcosa che ruggisce nel fondo dei suoi occhi, passione, odio, rabbia, dolore, rimorso, desiderio, e la mano che è
ancora nella mia trema un po’, si distende e si contrae. Apre le labbra,
fissando le mie, come se stesse per dire qualcosa, come se stesse di nuovo per
provare a baciarmi. Ma la paura ancora di non riuscirci, la paura di affrontare
di nuovo quel demone che è la coscienza di non amarci più come prima, lo fa
desistere, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Mi scopro a chiudere le
labbra che avevo già dischiuso involontariamente, serrandole in una morsa.
La sola cosa
che fa, prima di uscire, è di prendere la mia mano tra le sue, stringerla
forte, quasi a fermarmi la circolazione del sangue. Annaspo, gliela stringo a
mia volta, cercando di fugare le domande nei suoi occhi e a renderle certezze
inoffensive.
“Granger…”.
“Dimmi”.
“E’ per
Alex…”.
“E’ per
Alex…”.
Un capitolo un po’
più piccolo del solito, ma un capitolo che è un ringraziamento come sempre, a
tutti coloro che mi hanno consolato e spronato con i loro commenti nello
scorso, dopo lo spaventoso ritardo. Io davvero ho i lettori migliori del mondo.
Ho risposto a tutti singolarmente stavolta, anche nelle fic
Missing moments di Halft, ma ancora e sempre… grazie.
Un abbraccio speciale
lo do ad Emme e Francesca. Sempre i miei generali, e sempre prodighe di
consigli quando ne ho bisogno. Siete le mie rocce…J