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Autore: Graine    31/07/2014    3 recensioni
Una visita al cimitero in una calda mattina d’estate, quando tutto sembra calmo e il profumo dei fiori disfatti permea l’aria, mentre i volti immobili delle statue paiono vigilare sui passi di chi percorre quei viali silenziosi. La malinconia del ricordo che accompagna dolcemente i pensieri finché l’eco vaga di un lamento non cattura l’attenzione, per raccontare una storia di cui si ignorava l’esistenza.
Dalla storia:
I cimiteri, dopotutto, sono per i vivi, non per i morti.
Questa storia partecipa al Pizza! Contest indetto da _Maisha_ sul forum di EFP
Genere: Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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C'è stato un problemino con l'html nel momento in cui ho postato la storia e che non sono riuscita a risolvere, per questo motivo l'intero testo risulta in corsivo anche se io l'ho usato soltanto per alcune parole o frasi. 
 
Titolo: Antica ruggine
Autore: Graine (su EFP); Graine_EFP (sul forum)
Pacchetto: Carrettiera
Rating: Giallo
Genere: Soprannaturale
Coppia: Nessuna
Avverimenti: Nessuno
Introduzione: Una visita al cimitero in una calda mattina d’estate, quando tutto sembra calmo e il profumo dei fiori disfatti permea l’aria, mentre i volti immobili delle statue paiono vigilare sui passi di chi percorre quei viali silenziosi. La malinconia del ricordo che accompagna dolcemente i pensieri finché l’eco vaga di un lamento non cattura l’attenzione, per raccontare una storia di cui si ignorava l’esistenza.
Dalla storia:
I cimiteri, dopotutto, sono per i vivi, non per i morti.
NdA: È mia abitudine scrivere con una colonna sonora, una canzone o un brano musicale che mi ispiri, e questa storia non fa eccezione, motivo per cui ecco il link da youtube: https://www.youtube.com/watch?v=AeHknDFKy4U mi farebbe piacere lo ascoltaste durante la lettura.
 

 
 
 
 
Antica ruggine
 
 
Le fronde dei cipressi gettavano ombre di piacevole frescura lungo tutto il viale, attenuando la calura impietosa di quella mattina. Sollevò il viso e prese un respiro profondo, annusando l’aria che in quel punto del cimitero portava solo un vago sentore di fiori, gradevole e scortato dalla fragranza più fresca e pungente delle foglie sottili e squamose degli alberi, privo dell’aroma dolciastro e appiccicoso dei petali stantii lasciati a decomporsi davanti alle tombe più recenti. Mentre percorreva il lungo viale d’ingresso, posò come d’abitudine lo sguardo sulle solenni file di sepolcri vecchi di più di un secolo circondati da piccole cancellate screziate di ruggine che, come un confine sacro, parevano voler sottolineare ulteriormente la distanza tra il mondo dei vivi e quello dei defunti; sulle statue d’angeli e sui mezzibusti in marmo il cui candore, una volta, forse intendeva rievocare quello dell’eterno riposo e che adesso recavano aloni scuri dello sporco del tempo. Benché non potesse certamente considerarlo un luogo di svaghi e divertimenti, le era sempre piaciuta quella zona del cimitero, con le sue tombe antiche, le foto in bianco e nero sulle lapidi risalenti agli inizi del Novecento e le sculture e i mausolei commemorativi delle famiglie nobili in stili architettonici ormai in disuso ma resi eterni dalla loro elegante bellezza. Le piaceva camminare per le stradine costellate da quegli edifici votati al ricordo, silenziosi. Le piaceva soprattutto il verde che lì abbondava, la natura viva che attenuava il senso di distacco tra quella realtà fatta di antiche memorie e il resto del mondo in perenne mutamento.
Giunta in fondo, all’incrocio davanti la camera mortuaria, che a sinistra portava all’antica chiesa normanna e a destra proseguiva tra le sepolture, si schermò il viso dai raggi del sole che ora picchiavano indisturbati, non più nascosti dietro il verde scuro dei cipressi. C’era poca gente quella mattina, constatò mentre voltava la testa al sole, una smorfia di lieve fastidio che le contraeva i tratti del viso. Non ne era sorpresa, in realtà; i vivi riservano ai morti momenti rubati, quando gli impegni non reclamano con prepotenza la loro attenzione. Lei stessa si recava di rado al cimitero durante la settimana, e non lo avrebbe fatto nemmeno stavolta, se non fosse stato per la particolare ricorrenza.
Una vecchina, i cui occhiali avevano lenti tanto spesse da farle sembrare gli occhi due volte più grandi del normale, le sorrise gentile con un movimento delle labbra chiuse, per poi piegare appena il capo in un cenno di saluto quando le passò accanto. Nemmeno quello la sorprese: le era capitato altre volte. Alcune persone si animano di una simpatia istintiva verso chi sembra vivere situazioni simili alle loro o provare le stesse emozioni, tanto da abbattere senza fatica le barriere che si è soliti alzare fra estranei. I cimiteri, dopotutto, si era ritrovata spesso a pensare, sono per i vivi, non per i morti – i ricordi servono a chi resta, il bisogno di mantenere intatto un legame, la ricerca di rassicurazioni, come se ciò accordasse ai vivi una rivincita sulla morte.
Proseguì lungo la strada tra i piccoli mausolei e davanti una distesa di lapidi bianche; infine, arrivò alla sua destinazione e – adesso sì – contrasse la mascella in segno di disagio. Di fronte a lei si ergevano le sistemazioni mortuarie più nuove e moderne, palazzine dove file e file di tombe uguali, chiuse in claustrofobici loculi incassati nelle pareti, si ripetevano su più piani, nella macabra e mal riuscita imitazione di condomini, dove la razionalità di quella disposizione, solo in apparenza ordinata, riusciva a sparpagliare più che a unire. Tramutando la commemorazione in archiviazione.
Comprendeva la loro funzione, non per questo dovevano piacerle.
Salì le scale del primo edificio con l’odore acre e pesante dei fiori disfatti, accentuato dal caldo, che le si attaccava alla pelle e si fermò al terzo piano. Superò alcuni corridoi fino a quello che le interessava e, finalmente, trovò l’immagine di quel volto che il tempo, nella sua mente, non era ancora riuscito a scalfire.
«Ciao, nonno», disse posando un bacio sulla punta di due dita e, con quelle, carezzando il profilo dell’uomo nella foto. Immaginò di sentire sotto i polpastrelli la consistenza morbida della sua pelle rilassata, invece del vetro freddo, e gli sorrise con affetto. «Buon compleanno», aggiunse.
Riempì d’acqua il piccolo vaso davanti la lastra di marmo e vi dispose il mazzo di rose che aveva portato, e nel frattempo chiacchierava, aggiornando suo nonno sulle ultime novità come si fosse trovato accanto a lei in quel momento.
«Probabilmente non ci sarebbe nemmeno bisogno di farlo, non è vero? Tanto lo so che sai già tutto, ti sento accanto a me ogni giorno».
Rimase lì per un po’, parlando di qualunque cosa le venisse in mente; colmando il silenzio di quel luogo, finché un suono improvviso non attrasse la sua attenzione. All’inizio appena udibile, come un’eco vaga lasciata a galleggiare nell’aria, le parve poi via via più forte, fino a quando non lo distinse chiaramente: era un lamento. Si affacciò alla ringhiera che dava fuori dalla palazzina, ma non vide nessuno; immaginando si trattasse del pianto di chi non riusciva a dire addio al proprio caro, tornò indietro voltando rispettosamente le spalle a quella manifestazione di dolore – c’era qualcosa di atavico in quel tipo di sofferenza, che ispirava un riguardo discreto, impossibile da rifiutare. L’occhio le cadde, così, sull’orologio che aveva al polso e, piegando appena le ginocchia, riprese la borsa lasciata sul pavimento. «Nonno, adesso vado», disse. «Torno a trovarti dopo la fine della sessione». E posò un altro bacio sulla foto, indugiando qualche secondo così, col braccio teso e i polpastrelli poggiati sul vetro, prima di andare via.
Ripercorrere a ritroso il tragitto era sempre la parte più difficile; le dava la sensazione di dire addio una seconda volta e poi un’altra ancora, all’infinito. Costringendola a concentrarsi per allontanare la commozione e il nodo alla gola. Fu quasi un sollievo accorgersi che, lungo la strada che fiancheggiava le lapidi da un lato e i mausolei dall’altro, continuava senza sosta a udire quel lamento sofferente e disperato – e si detestò per questo: non c’era forse un che di crudele nel mal comune, mezzo gaudio? Eppure, benché si guardasse intorno, continuava a non vedere nessuno.
L’aria, intanto, pareva farsi più calda a ogni passo, pesante come una coltre che toglieva il respiro. Un capogiro improvviso la costrinse a fermarsi per non perdere l’equilibrio e fu allora, quando risollevò il viso sbattendo le palpebre, che notò una figura rannicchiata a lato di una delle lapidi più distanti. L’istinto le disse che il caldo doveva aver avuto su qualcun altro effetti peggiori che su di lei, e subito si avvicinò. Da alcuni dettagli – i capelli che le ricadevano in morbide onde sulle spalle e le braccia e quella che sembrava una gonna molto lunga – comprese si trattava di una donna, eppure la sua immagine le pareva, a tratti, sfocata; vaga nella calura fattasi densa e opprimente.
«Signora», disse piegandosi alla sua altezza. «Si sente male? Vuole un po’ d’acqua?».
Le dita strette sulla nuca e il corpo accovacciato, quando quella sollevò lentamente il viso, si accorse che era una ragazza all’incirca della sua età.
«È insopportabile», le disse, la voce bassa e disperata e il volto stanco, come di chi era arrivato a grattare il fondo delle proprie energie. «Non riesco a farlo smettere».
«Cosa?», domandò allora lei, preoccupata.
«Il dolore», rispose l’altra aumentando la stretta sui capelli. «Il dolore… non se ne va», continuò chiudendo gli occhi, le labbra contratte in una smorfia, e, di nuovo, lei ebbe la sensazione che la sua immagine fosse poco nitida per alcuni brevissimi istanti. Tanto che sbatté più volte le palpebre, credendo di avere la vista annebbiata.
Ancora il lamento nell’aria, stavolta lontano; l’eco indistinta che aveva attirato la sua attenzione la prima volta.
«Come posso aiutarti?». Le parole le uscirono di bocca come non avesse alternativa, senza darle il tempo di pensare.
La ragazza sollevò la testa di scatto e le si aggrappò alle braccia con tanta forza da sorprenderla, mentre la sua mente registrava con un secondo di ritardo il gelo di quelle mani – delle dita che parevano volerle scavare nella carne – così impossibile con le temperature di quel giorno.
«Davvero vuoi aiutarmi?», fece la ragazza, gli occhi liquidi e disperati, quasi folli. «Ti prego… ti prego, fallo smettere. Non ne posso più».
Ora il lamento era più forte e vicino; le girava attorno, come qualcuno che si burlasse di lei.
«Cosa vuoi che faccia?», domandò ancora, la voce tremante, improvvisamente spaventata. Il lamento che le rimbombava nelle orecchie, stordendola e provocandole la pelle d’oca.
«Trovala», ordinò l’altra, a un soffio dal suo viso.
«Cosa?». Un sussurro che sembrò perdersi nell’aria.
Il lamento sempre più forte finché, in un attimo in cui la fanciulla le apparve di nuovo accovacciata e col viso contratto, come due immagini sovrapposte, non comprese che era lei a emetterlo.
«La foto», rispose quella. «Trova la foto», ripeté stringendole con più forza le braccia. «Oh, ti prego… ti prego…».
L’attimo dopo era sparita.
 
*****
 
Nonostante le previsioni dei meteorologi, il caldo non aveva concesso tregua un solo istante in quelle ultime tre settimane, avvolgendo la città in una cappa soffocante e all’apparenza impenetrabile. Le autorità ripetevano di continuo di uscire di casa solo se necessario e di evitare le ore di punta, in cui il sole era più forte. La sessione estiva, tuttavia, era terminata e lei aveva mantenuto la promessa, sfidando il clima disumano per andare a trovare suo nonno. In realtà, non erano state le temperature impossibili a farle ritardare di alcuni giorni la visita al cimitero. Quanto accaduto l’ultima volta le aveva lasciato addosso una paura mai provata prima; un’inquietudine che sentiva strisciarle sulla pelle come qualcosa di viscido e sempre presente, facendola tremare al solo ricordo. A nulla era servito cercare di convincersi che era stata colpa del caldo, tutto un mero parto della sua immaginazione. Per quanto si sforzasse, il ricordo del gelo di quelle dita e della disperazione di quel lamento le ripeteva il contrario. Eppure, benché si trovasse al cimitero già da parecchio, ancora nulla di anormale si era verificato. Perché, quindi, l’ansia che avvertiva con una morsa dolorosa alla bocca dello stomaco e le provocava la nausea non accennava a diminuire?
Trasalì quando il cellulare vibrò nella tasca dei pantaloni e subito si diede dell’idiota.
«Chiara?», la voce di sua madre le sembrò la cosa più rassicurante del mondo e sospirò di sollievo. Idiota, ripeté.
«Dimmi».
«Ti dispiace prendere un po’ di pane, prima di tornare? Giusto un paio di rosette e un toscanino per tuo padre».
«Sì, va be…», ma s’interruppe di colpo, l’orecchio teso verso quel suono che aveva temuto di sentire nelle ultime tre settimane e un brivido che la gelava sul posto.
«Tesoro, tutto bene?».
«Sì, tranquilla, al pane penso io», e riattaccò senza dare a sua madre il tempo di replicare.
Ogni muscolo era teso, il suo corpo tremava e sapeva di non riuscire a muovere un passo. Il cimitero pareva vuoto e persino il cinguettio dei passerotti era cessato. L’unico suono che riuscisse a udire era il lamento.
«D’accordo», disse allora, cercando di limitare il tremore dei denti che cozzavano fra loro. «Che cosa vuoi?», ringhiò. Una rabbia improvvisa che si mischiava alla paura. Non le giunse risposta, soltanto quell’eco, adesso più forte, vicina, sopra di lei. Assordante. Poi stranamente distante, come si fosse spostata di lato, chiamandola a sé. Inspiegabilmente la seguì, camminando tra un labirinto di lapidi e tombe antiche sempre più vicine all’ingresso, finché di colpo si fermò. Davanti a lei una sepoltura spoglia, dei primi del Novecento. Una delle poche con intorno terra anziché marmo.
Il lamento era di nuovo forte, tormentato, e lei si piegò sulle ginocchia. Sporse le mani sulla tomba e, senza sapere perché, iniziò a scavare. Prima lentamente, coi palmi, e poi con forza, sentendo le unghia spezzarsi nella terra indurita dal tempo. L’eco disperata che non cessava un istante.
Sfiorò qualcosa coi polpastrelli sporchi di terriccio e sangue: un tessuto annerito che avvolgeva dell’altro. La testa le girava mentre lo tirava fuori dalla piccola buca che aveva creato, il lamento nelle orecchie che le impediva di pensare e il caldo sempre più forte, asfissiante, che pareva gravarle addosso come una bolla spessa e intenzionata a schiacciarla. Scostò la stoffa rivelando una fotografia in bianco e nero, molto vecchia eppure in perfette condizioni. Riconobbe senza difficoltà il volto della ragazza in quello della figura che sedeva composta, sorridendo appena all’obbiettivo; nella zona della fronte e del capo, però, la foto era attraversata da una decina di chiodi sottili e arrugginiti. Quando ne sfiorò uno, l’eco gemette più forte. Prese, allora, le capocchie tra due dita e, con un unico movimento, li tirò via.
Il lamento cessò all’istante, sostituito da quello che le sembrò un lungo sospiro di sollievo, e la bolla d’afa, quella cappa opprimente che aveva avvolto la città, parve spezzarsi annullando la pressione sulle sue spalle e nell’aria. Alcune gocce di pioggia picchiettarono, allora, sul terreno e le bagnarono la fronte, mentre il rombo di un tuono spezzava il silenzio. L’istante successivo, la foto le si sgretolava tra le dita.
Esausta, Chiara si rimise in piedi e tornò verso il viale d’ingresso, grata di quell’acqua che la inzuppava, lavandole l’animo dall’ansia e le mani dalla terra e dal sangue. Poco prima dell’uscita, però, si fermò davanti una delle lapidi in marmo; una di quelle che tante volte aveva osservato camminando sotto l’ombra dei cipressi.
 
Rosalia Randazzo
 
Diceva l’iscrizione sotto una fotografia uguale a quella che si era tramutata in polvere nelle sue mani.
 
1881-1903
 
Ti ringrazio.
La voce della ragazza galleggiò nell’aria vicino a lei e Chiara sorrise, non più spaventata. «Non c’è di che».
Ancora una lieve risata, poi soltanto il suono della pioggia.
I cimiteri, dopotutto, sono per i vivi, non per i morti.
 
 
 
FINE
 
 
 
 
 
Angolo autrice:
Questa storia è nata per partecipare al contest Pizza! Contest di _Maisha_ sul forum ( http://freeforumzone.leonardo.it/d/10893023/Pizza-Contest/discussione.aspx ).
Normalmente le mie ambientazioni sono rigorosamente di due tipi: straniere (con una certa predilezione per il mondo anglosassone) o fantasy. Questa è la prima volta che scrivo qualcosa di così… casalingo – passatemi il termine – ma nel momento in cui ho letto il contenuto del mio pacchetto, ho capito subito che non poteva essere altrimenti. Alla fine ho voluto fare un piccolo omaggio alla mia città, che tanto critico ma che in realtà adoro: Palermo. Per questo motivo ho inserito determinati dettagli nostrani, dal pane al nome della ragazza della foto (Rosalia Randazzo, della serie che più palermitana di così si muore! Rosalia è il nome della santuzza patrona della città, mentre Randazzo è un cognome molto tipico).
Sono sempre stata attratta da ciò che è diverso e lontano e questo interesse ha motivato il mio campo di studi, ma, proprio grazie all’università, negli ultimi anni ho imparato ad apprezzare anche ciò che mi è vicino culturalmente e che, in realtà, conosco ben poco. Un motivo in più per amare ciò che studio.
Il cimitero è essenzialmente il S. Orsola, con i suoi pro (il viale di cipressi, le tombe antiche, la chiesa normanna) e i suoi contro (i “condomini”), anche se, per quello che ricordo, le tombe sono solo in marmo e non ce ne sono in stile anglosassone, con la terra intorno; quelle si trovano ai Rotoli, l’altro cimitero di Palermo, ma ai fini della storia mi sono concessa una piccola libertà artistica xD c’è da dire che io volevo tornarci, al S. Orsola, per osservare bene la sua struttura e descriverla al meglio (sono leggermente ossessivo compulsiva, I know), ma quando ho proposto a mia sorella di accompagnarmi, mi ha risposto di andare a quel paese (lei, invece, è un pelino scaramantica).
Per quanto riguarda la foto e la fattura con i chiodi, be’, anche qui mi sono ispirata al repertorio della nostra magia popolare (e anche a un aneddoto che si racconta in famiglia, ma, shhh!, non dovrei dirlo). In fine, ringrazio le mie sorelle per la pazienza, l’una per avermi aiutata a ricostruire la pianta del S. Orsola (risparendo a tutte le mie ossessive domande) e l’altra (quella che mi ha mandata a quel paese e che mi ha chiesto se, ultimamente, mi fossi sentita per caso trascurata quando mi ha trovata a cercare foto dei due cimiteri su internet) per avermi aiutata con il titolo, anche questo un piccolo tributo a casuccia e che personalmente adoro. Con “antica ruggine”, infatti, in dialetto si intende un rancore di vecchia data e considerando che qua si parla di una povera fantasmina che non ha trovato pace finché la fattura per cui è morta non è stata sciolta, direi che calza a pennello (e si lega pure alla ruggine materiale dei chiodi e dei cancelli).
A questo punto non credo di avere altro da aggiungere, a parte che spero vi piaccia.
Un bacio.
 
Graine
   
 
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