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Autore: sheishardtohold    01/08/2014    6 recensioni
“Everyone thinks / that I have it all / but it’s so empty / living behind this castle walls” Regina barcolla lungo il cornicione del terrazzino. Un piede dietro l’altro – la testa si muove seguendo il ritmo delle braccia che oscillano nel vento. Non si sporge mai a guardare di sotto – tiene gli occhi chiusi.
Spinge fino all'estremo il suo corpo, sfida la sua magia. Crede che, mettendosi in una situazione di pericolo, tornerà a salvarla.
“Sembra una canzone molto triste” la voce di Robin alle sue spalle.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Regina Mills, Robin Hood
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tre mesi dopo.

Regina, nel suo pigiama bianco, resta immersa sotto le lenzuola. La testa nascosta fra le braccia, il corpo chiuso a riccio su se stesso per proteggersi dal mondo esterno. Piange - non nel senso più tradizionale del termine. A Regina non scende nessuna lacrima, non esce nessun singhiozzo. Piange immobile – la bocca schiusa appena, i nervi tesi. Non emette suoni. Piange dentro.
Si muove piano, attenta a non fare gesti incauti, mentre sente il rumore di passi percorrere la scalinata per arrivare alla sua camera. Appoggia la mano sinistra sul materasso, poi l’altra, alzandosi da quella posizione fetale e mettendosi a sedere. Le tremano le braccia, le mani. La testa pesante ciondola fino a quando non entra a contatto con lo schienale del letto. Sospira affaticata, dopo l’ennesima notte insonne. Non la lasciano stare, quei sogni. È sempre lì, ogni volta che chiude gli occhi – il volto di Marian, è sempre lì, pronto a trasformarsi in un incubo.
Il leggero tocco di nocche contro la porta la costringe a ritrovare la sua compostezza, la sua forza.
“Avanti” bisbiglia, aspettando di vedere la faccia di Henry sbucare fuori da un momento all’altro. Invece, sulla soglia compare la figura longilinea di una donna piccola dalla carnagione bianca come il latte e i capelli neri come la pece.
“Mary Margaret!” esclama Regina nella confusione più totale.
“Ciao” le trema leggermente la voce, mente fa un breve cenno con la mano per salutarla. “Possiamo entrare?” spalanca completamente la porta della camera per mostrarle il piccolo Neal che stringe le sue manine attorno al suo maglione rosa, portandoselo alla bocca.
Regina annuisce poggiando delicatamente il palmo della mano sul lato vuoto del letto, per indicare a Mary Margaret il posto a sedersi. Regina, ancora scossa, piega la testa di lato e resta ad osservare Snow che abbassa lo sguardo sul piccolo Neal, sorridendo. Istintivamente, Regina si porta una mano allo stomaco, senza però mai staccare gli occhi di dosso dal bambino e da sua madre.
“Allora” dice piano Mary Margaret. “Come stai?” le regala un candido sorriso. Regina sussulta, ritrae le gambe portandole al petto. Resta in silenzio a fissarli – i suoi occhi inchiodati in quelli di Snow.
“È da un po’ che non ti si vede in giro, Regina” Mary Margaret le posa una mano sul braccio, facendo pressione. Regina abbassa lo sguardo. Mary Margaret trattiene il respiro. Il timore di sbagliare, di superare il limite le impedisce di fare qualsiasi movimento. Non riesce a staccare la mano dal suo braccio, non riesce a riprendere a respirare. Aspetta in apnea - in attesa che Regina risponda al suo gesto.
“Sto bene, grazie” sorride limitandosi ad una risposta cortese, non tanto perché crede che a Snow non interessi realmente come sta, quanto perché non si sente al sicuro – non si sente a suo agio, né da sola, né attorno ad altre persone. Mary Margaret annuisce piano con la testa, mantenendo sempre il sorriso sulle labbra. Fa scivolare lentamente la sue dita, dal braccio di Regina fino alla sua mano. Ne accarezza il dorso, mentre i suoi occhi si staccano per un secondo dal suo piccolino e si posano su Regina. Snow sente di poter andar oltre quel limite che da sempre si erano imposte – quella linea che le divideva tra la civile convivenza e l’amicizia. Snow vuole aiutare quella donna che sembra così stanca, così disperata – quella donna che ci sta provando da così tanto tempo, con tutte le sue forze. Regina vuole solo essere migliore e lei vuole aiutarla nella sua impresa. Perché crede nel lieto fine, perché crede che l’amore può vincere su ogni cosa, perché crede in Regina – nel suo buon cuore, nella ragazza che un giorno l’ha salvata da un cavallo imbizzarrito. Vuole solo essere felice, pensa tra sé e sé, mentre Regina fa scivolare la mano fuori dalla sua, finendo col torturare la manica del pigiama.
Alla fine alza lo sguardo, notando l’espressione curiosa di Snow sul suo viso. La sta studiando, molto probabilmente. La sta infastidendo. Mary Margaret lo sa che Regina odia essere fissata, quindi tossisce appena, nel tentativo di attirare l’attenzione dell’altra donna e smorzare quel momento di tensione. Si leva dal viso quell’espressione concentrata, tornando a sorriderle.
“Vuoi tenerlo un po’ in braccio?” bisbiglia piano, continuando a cullare Neal.
Un po’ incerta, Regina allunga le braccia verso il piccolo lasciandole a mezz’aria. Mary Margaret le fa un cenno con la testa, incoraggiandola nella sua iniziativa. Regina fa scivolare piano il palmo della sua mano dietro alla testa del piccolo Neal, mentre l’altra l’appoggia dietro alla sua schiena.
“Ciao tesoro” bisbiglia al volto di Neal a pochi centimetri dal suo. Il piccolo allunga una mano tra i capelli di Regina, cominciando a tirare.
“Hey, hey, che ti ha detto la mamma a proposito del tirare i capelli?” esclama Snow, fingendo un rimprovero a Neal, che guarda la mano di sua madre mentre schiude la sua, allontanandola dalla chioma scura. “Non si fa, amore” conclude, facendo scivolare l’indice della sua mano sul naso del neonato. Neal arriccia il naso e strizza gli occhi facendo scoppiare a ridere entrambe Regina e Mary Margaret.
“Ti va un tè?” le chiede Snow appoggiandole una mano sulla spalla. Regina si volta verso di lei annuendo. Le sorride – un sorriso aperto in viso, sincero. Guarda Mary Margaret allontanarsi, la sente mentre scende le scale, mentre si mette ad armeggiare col pentolino in cucina.
Neal si guarda attorno, si porta un lembo della tutina in bocca sbavandosi le mani.
“Dev’essere proprio buona quella tutina” dice Regina, osservando divertita la scena. Come se il piccolo avesse davvero capito, allontana dalla bocca il tessuto in cotone, allungando le mani sul viso di Regina.
“Oh, sì, grazie. Un po’ di bava era proprio quello che mi serviva” dice sarcastica. In realtà ride di gusto, mentre lascia soffici baci sui palmi delle sue manine.
“La Regina Cattiva, eh?” esclama Snow, cogliendo di sorpresa Regina e il piccolo Neal che, sentendo la voce della madre, si gira per cercarla con lo sguardo.
“Già” Regina leggermente imbarazzata, si porta dietro l’orecchio una ciocca di capelli, mentre con l’altra mano culla Neal. Snow appoggia una tazza sul comodino accanto a Regina, allungando le mani per riprendere in braccio suo figlio.
“Vieni dalla mamma, amore” gli posa un bacio sul collo, mentre se lo porta al petto. “Lasciamo bere il tè a Regina” è l’ultima cosa che dice, prima di appoggiarsi allo schienale del letto, incrociando le gambe. Snow guarda con gli occhi dell’amore Neal, sfiorandogli con la punta delle dita la fronte, le guance, le manine. Sembra impercettibile agli occhi di Regina il tocco di Mary Margaret. La osserva sempre, con quel suo sguardo vigile, mentre tocca il suo bambino come fosse fatto di cristallo. Gli sorride – gli sorride perennemente. Regina si chiede se non si stanchi mai, Snow di sorridere – a lei, a suo figlio, a tutti. È sempre così posata, così solare. Lei è sempre stata l’opposto di Regina – pura, pura come la neve. Mary Margaret emanava calore solo a guardarla sorridere, mentre Regina era fredda come un inverno perenne.
Cala il silenzio – un silenzio quieto, calmo, qualcosa che non ha niente a che fare con l’imbarazzo. Sia Regina, che Snow non sentono il bisogno di parole. Sanno che è il momento di lasciarsi spazio – ognuna alle prese coi propri pensieri. Mary Margaret tira la testa indietro e chiude gli occhi nell’istante in cui il piccolo Neal cala in un sonno profondo. Regina, invece, stringendo la tazza di tè ancora caldo fra le mani, poggia il mento sulle ginocchia, circondandole con le braccia. Gira la testa di lato, fissando lo sguardo su quella coppia: una madre stremata dalle costanti attenzioni che dedica al figlio e il piccolo che dorme beato tra le sue braccia. Cerca di convincersi a distogliere lo sguardo prima che Snow riapra gli occhi e la veda lì, mentre li fissa con quell’aria così disperata, come se volesse prendere il loro posto. Smettila, si dice mentalmente, senza riuscire a voltare la faccia dall’altra parte. Sei patetica, pensa, mentre mentalmente si sta prendendo a schiaffi. La sua mente le ha già offuscato la vista portandola verso un ricordo lontano – uno di quelli soffocanti, che ti toglie l’aria.
 

 
“Mills? Regina Mills?" la voce che inizialmente proveniva dall’ambulatorio, ora si propaga lungo il corridoio, fino ad arrivare nella sala d’attesa. Regina resta immobile a fissarsi le ginocchia, incapace di fare qualsiasi movimento. Respira malapena per non turbare quella sua staticità. Il dottore entra nella stanza, cercando il volto di questa Regina Mills che si ostina a non rispondere.
Regina cerca di autoconvincersi. Lo ripete più volte nella sua testa – si ripete che può farlo, che può alzarsi in piedi ed entrare in quella stanza. Si ripete che poi non è la fine del mondo - rimanere incinta di un uomo sposato con una donna ritornata dall’aldilà dopo trent’anni. Una donna che ha ucciso lei. E poi, si sa, i test di gravidanza non sono del tutto affidabili – c’è sempre un margine di errore. Magari poi non è neanche incinta. Magari, pensa Regina, chiudendo le mani in pugni.
“Sono io” finalmente si decide a rispondere. Abbassa l’ultima volta la testa, distende le gambe e si alza in piedi. Chiude gli occhi estraniandosi dal rumore esterno delle macchine che sfrecciano sull’asfalto, dalle chiacchiere tra mamme nella stanza, dal ticchettio che produce il dottore battendo ritmicamente le dita sulla cartellina di metallo. Si gira di spalle, cercando per un secondo di staccare da quella realtà e prendere coraggio. Sospira. Avanti Regina, si dice piano. Lo puoi fare – hai fatto cose molto più difficili. Questo lo puoi fare. Camminare lungo un corridoio, lo puoi fare. Entrare in una stanza, lo puoi fare.
“Posso anche sorridere” si lascia sfuggire a bassa voce, per poi voltarsi e schiudere le labbra in un sorriso luminoso. Si muove meccanicamente, mentre segue il dottore lungo il corridoio e poi si accomoda di fronte a lui. Con calma, gli spiega il motivo della visita. Lui, dopo un cenno, la fa posizionare sul lettino.
“Dobbiamo aspettare qualcuno, oppure è da sola?” esordisce dal nulla il dottore, facendo schioccare un paio di guanti in lattice attorno ai polsi.
Regina resta spiazzata. Per un attimo divaga. Pensa all’insolenza del medico, si chiede come può rivolgersi così ad una donna come lei – una donna potente, rispettata. Si chiede cosa voglia insinuare con quella frase – con quel tono e quell’occhiata che le rivolge. Forse legge anche un po’ di disgusto nell’espressione che percepisce da sotto gli occhiali di quell’uomo. Poi si stampa il solito sorriso di circostanza sulle labbra e risponde un secco “sola”, come a dirgli che lei è fiera di quello che è. Che è una donna forte, che quello che ha è perché se l’è guadagnato dopo aver sbagliato e aver pagato per ogni singolo errore che ha commesso. Che magari anche il rimanere incinta non era stata proprio una cosa voluta, premeditata, ma che sarebbe andata fino in fondo. Che era una brava madre, comunque. Nonostante tutti la definissero cattiva. Nonostante fosse sola. Ed eccola lì, a ripetersi quella parola nella testa – a dannarsi l’anima dietro ad una stupida parola, alla sua stupida condizione di vita. Era stata pura – e le avevano portato via Daniel. Era stata cattiva – e il figlio che aveva cresciuto con affetto, aveva respinto quello stesso amore che lei gli aveva dato, per la madre che lo aveva abbandonato alla sua nascita. Era stata un’eroina – e aveva visto la sua seconda possibilità di amare svanire dietro ad donna che doveva essere morta. Perché? Perché alla morte di Daniel nessuno era riuscito a riportarlo in vita, mentre Marian era riuscita a tornare? Non era giusto, sotto tanti punti di vista. Non era giusto perché non era più cattiva – perché meritava anche lei il suo lieto fine. Non era giusto perché Robin sarebbe tornato da Marian – perché Robin avrebbe rispettato quel rapporto vincolato da un giuramento davanti a Dio. Vincolato da un figlio che aveva bisogno di sua madre – non di un surrogato, come poteva esserlo Regina. Non era giusto perché lei ci aveva messo così tanto a fidarsi di qualcuno e, puntualmente, era stata tradita. Non era giusto perché con lei la polvere di fata – la polvere di fata che non sbaglia mai – questa volta si era sbagliata di grosso. Non era giusto perché, mentre gli altri avrebbero avuto l’amore, a lei sarebbe rimasto solo un figlio da crescere da sola – solo un bambino a ricordargli dell’ennesimo rapporto che aveva perso. E se poi anche con lui le cose non avessero funzionato? Se poi anche lui l’avesse ritenuta cattiva, spietata, senza cuore? Se poi anche lui fosse tornato a cercare suo padre? Se poi anche lui avesse scelto Robin e non lei – o, peggio, Robin e la sua famiglia?
Non ce la faccio, pensa Regina, tentando di trattenere le lacrime. È troppo, non ce la faccio – non ce la faccio, non ce la faccio, non ce la faccio. Lo ripete tante di quelle volte che, alla fine, se ne convince.
“Eh sì” pausa. “A quanto pare quel test di gravidanza non si sbagliava” esclama il dottore in una risata, compiaciuto dalla sua stessa battuta. Regina resta immobile – la testa girata esattamente dalla parte opposta del monitor. Di nuovo quella sensazione, quell’essere immobilizzata. Sente solo il gel freddo sulla pancia – le sembra più freddo di prima. Effettivamente, ha i brividi. Sente che sta tremando – sente che deve uscire il più rapidamente possibile da quella stanza. Si pulisce di fretta, sfiorando appena il lembo di pelle che sta sotto l’ombelico. Non abbassa mai gli occhi. Sistema i pantaloni lungo i fianchi, chiude il bottone - la cintura al centro della vita. Stringe la mano al medico che le sta di fronte. Il sorriso che prima dominava il suo viso, è completamente sparito. Chiude dolcemente la porta alle sue spalle, percorre composta il corridoio, esce dall’edificio. Comincia a correre verso il parcheggio. Cerca frenetica le chiavi della macchina nella borsa. Non le trova. Andiamo, pensa, mordendosi le labbra per non scoppiare in lacrime. Continua la sua ricerca, finché, spazientita, finisce col rovesciare la borsa a terra. Scoppia a piangere – le lacrime che prima si erano fermate ai bordi degli occhi, cominciano a rigarle il viso.
Tira un calcio alla macchina – poi un altro e un altro ancora. Cammina freneticamente – disperatamente – lungo il perimetro del parcheggio. Tira un altro calcio. Si siede per terra. Singhiozza. Appoggia la testa contro la portiera senza riuscire a porre un freno a quel fiume in piena. E adesso?
“Dannazione” urla, non si sa bene a chi, premendosi le mani sullo stomaco. Neanche lei sa se sta cercando di soffocare quel microbo che sta già crescendo nella sua pancia o se sta cercando solo di fermare il punto dal quale parte ogni dolore. Perché non sa neanche lei dove sente più male – nelle gambe, nella testa, nel cuore. “Avevo detto che non ce la facevo. Te l’avevo detto” alza lo sguardo, forse si rivolge a Dio. “Te l’avevo detto” ripete a bassa voce, calmandosi. Tira su col naso, si asciuga gli occhi col dorso della mano e lecca le labbra secche per inumidirle. Raccoglie ciò che aveva fatto cadere, afferrando come ultima cosa le chiavi. Si siede al volante e aspetta qualche istante, giusto il tempo di ricomporsi.
“Andiamo a casa” bisbiglia, guardando verso la sua pancia. Per la prima volta l’accarezza.
 
Regina immerge il cucchiaio nella vaschetta, prima di portarselo alle labbra. Si pulisce gli angoli della bocca con la lingua e, dove non riesce ad arrivare, col dorso della mano o la manica del maglione. Ha le gambe incrociate, mentre sfoglia cataloghi di vestiti per neonati sparsi sul letto.
“Oh, guarda questa quant’è carina” esclama ad alta voce prestando particolare attenzione ad una salopette azzurra. “Ti piace?” abbassa lo sguardo rivolgendosi al suo stomaco. Non è più uscita di casa dal giorno della visita, se non per dei regolari controlli. Non ha voluto rischiare. Incontrare Robin avrebbe rovinato la felicità che era riuscita a tagliarsi nel suo angolo di mondo – il suo castello, la sua bolla rosa.
“Chissà se sarai un altro piccolo principe” sorride da sola, senza mai riuscire a staccare le mani dal grembo. Lo accarezza piano, gli parla. Vuole che senta la sua voce, che gli entri dentro, che sappia di lei – che sappia che già lo ama incondizionatamente. Vuole rassicurarlo, fargli sapere che sarà una buona madre. Non come la sua. “Mi piacerebbe tanto un nuovo principino in giro per casa” biascica sbadigliando. Distende le braccia, si stiracchia mentre appoggia la testa sul cuscino e, nel giro di qualche secondo, si addormenta.
“Regina” Robin la chiama. Si gira al suono di quella voce familiare. Si guarda attorno confusa. Fa scivolare velocemente una mano tra i capelli che, lunghi, le accarezzano la schiena. Indossa un abito bianco – lo stesso abito che aveva il giorno in cui, anziché entrare nella locanda e scoprire chi fosse l’uomo col leone tatuato sul braccio, è fuggita.
“Robin?” chiede perplessa. Non è arrabbiata, non è neanche infastidita dalla sua presenza – vuole solo andargli in contro e lasciarsi avvolgere dalle sue braccia, come se fossero stati divisi per un tempo infinito, come se si fossero rincontrati dopo un lungo viaggio. Accenna un paio di passi, mentre lui corre nella sua direzione e la stringe al suo petto. Regina si sente così piccola, mentre lui la culla in quell’abbraccio. Le sue mani le accarezzano dolcemente le spalle, i capelli, la schiena. Regina spinge il volto più in profondità nel suo petto, come per voler diventare un tutt’uno col suo corpo. S’immerge nella sua pelle, nel suo odore. Eccolo lì, il profumo della foresta incantata che si mischia al suo. Lui non riesce a vedere il suo viso, ma sa che sta sorridendo, mentre continua a strofinare la sua guancia contro al suo petto alla ricerca di carezze. Robin le prende dolcemente il viso tra le mani posandole un bacio sul naso. Regina gli butta le braccia al collo e, alzandosi in punta di piedi, raggiunge le sue labbra. Delicatamente posa piccoli baci sulla sua bocca, mentre lui fa scorrere per tutta la lunghezza dei suoi capelli le sue mani.
Ogni volta che Regina stacca il suo viso da quello di Robin, lui la guarda. È radiosa - con la sua pelle chiara, brilla. Lei è il sole e ciò che le sta attorno sembra solo riflettere la sua luce. Lei prende le sue mani e dolcemente le poggia sul suo ventre. Non ha bisogno che lei dica nulla, l’ha già capito.
“Ho una buona notizia” esclama euforica.
“Non credo proprio” una voce sinistra si alza alle sue spalle.
“Marian?” chiede perplesso Robin, mentre Regina si volta, stringendosi nelle sue braccia. Sussulta.
Più che Marian, sembra la sua versione zombie. I capelli scompigliati, gli abiti stracciati, il sangue – sulla sua bocca, nei suoi occhi rabbiosi, sui vestiti. Sulla parte sinistra del suo petto, dove stava una voragine, più che il suo cuore. In mano un arco ed una freccia puntata alla testa di Regina.
“Così mi hai lasciato morire per poter vivere la nostra vita con la donna che mi ha uccisa?” sibila a denti stretti.
No, pensa Regina. No. Lei aveva trovato Robin. Lei non era sconfinata nella pazzia, nell’odio, nella vendetta. Lei era riuscita a salvarsi. Era riuscita a rimanere pura. Non aveva ucciso nessuno – non aveva fatto del male a nessuno. Lei era riuscita ad amare ancora.
“Ma va bene, eh” continua il suo monologo, girando attorno a Robin e Regina come un avvoltoio. “Mi è passata” sogghigna. Rovescia il capo all’indietro e ride, facendo tremare Regina. “Non è vero” interrompe di punto in bianco la risata e le si avvicina, bisbigliando al suo orecchio. “Non siamo ancora pari” Robin la spinge indietro, cercando di fare da scudo col suo corpo a Regina. “Facciamo così: io adesso tolgo una cosa a te, così come tu l’hai tolta a me” pausa. “A quel punto poi saremo pari” smette di camminare in tondo. Si volta verso Regina e le sorride ancora – gli occhi pieni d’odio. “Perché non glielo dici?” accarezza con la punta della freccia la guancia di Regina, che resta immobile e trattiene il respiro. “Diglielo!” le urla contro, facendo un balzo in avanti. Regina la implora – implora di non farle male, di non fare male a Robin, di lasciarli andare via. Le promette una nuova vita – una vita fatta di lusso, una vita da reale. È disposta a cederle la sua corona, il suo potere, pur di riuscire ad avere il suo lieto fine con Robin. Pur di essere risparmiata.
“Sono incinta” bisbiglia al limite. Si volta verso Robin – il suo sguardo impaurito. Scoppia a piangere, non riesce più a reggere la tensione. Si sente indifesa, è spaventata a morte – per sé, per Robin, per il suo bambino.
“Ti prego Marian. Non far-” Robin non riesce neanche a finire la frase. L’arco che Marian aveva abbassato, improvvisamente torna ad essere puntato alla testa di Regina. Lei chiude gli occhi e aspetta il suo momento, senza riuscire a smettere di piangere.
Scocca la freccia, Robin allunga una mano per deviarla. Il colpo che Regina aspettava alle tempie, le si conficca direttamente nello stomaco.
 
Spalanca gli occhi, urla dal dolore. Cerca di riacquistare familiarità con la stanza. Era solo un incubo, pensa, ma i crampi lancinanti allo stomaco lei continua a sentirli anche nella realtà. Si rannicchia in posizione fetale, cercando di farli smettere, ma questi sembrano solo aumentare. Piange dal dolore – le lacrime scivolano via dai suoi occhi autonomamente. Si mette a sedere sul letto, allunga la mano verso il comodino, cerca l’interruttore della luce. Quando l’accende vede la mano sporca di sangue e il pigiama sporco di sangue – e le lenzuola sporche di sangue. Sta calma, si dice, mentre il pianto aumenta e, tremante, prova a comporre il numero di un’ambulanza. Aspetta. Aspetta.
Chiude gli occhi, si asciuga gli occhi con le mani, macchiandosi anche il viso di sangue.
“Fa che funzioni” lo dice a voce alta perché crede che abbia più valore quel suo desiderio detto al di fuori della sua testa – perché crede che chiunque ci sia lì ad ascoltarla, avvererà il suo desiderio. Tiene le mani unite, come in preghiera e poi le scioglie passandole a palmo aperto sul grembo. Quando riapre gli occhi non c’è niente. Nessun fumo viola, nessuna luce bianca scintillante – nessun briciolo di magia, solo sangue. Comincia a piangere così disperatamente da azzerare del tutto le sue forze e, all’arrivo dell’ambulanza, lei giace priva di sensi nel suo letto.
 
-
 
Regina prende una boccata d’aria, sciogliendosi dal suo stesso abbraccio. Distratta, si alza velocemente rovesciando la tazza di tè a terra. Sgattaiola verso il bagno, mentre Snow apre gli occhi e, confusa, la cerca nella stanza.
“Regina?” la chiama a bassa voce per evitare di svegliare il piccolo Neal, che continua a dormire pacifico nonostante il baccano attorno a lui. “Regina?” la richiama ed inizia a cercarla tra le stanze, dopo aver posizionato suo figlio tra due cuscini.
Non le ci vuole molto per capire dov’è andata a rifugiarsi Regina, quando la sente rimettere dalla stanza in fondo al corridoio. Si avvicina piano, il più silenziosamente possibile, per non spaventarla. Quando entra, la trova accucciata in un angolo del bagno con un asciugamano alla bocca. Piange di un pianto straziante. Anche Snow resta senza fiato, stanca solo a guardarla mentre piange con così tanta disperazione. Fa un passo verso di lei, si accuccia alla sua altezza. Le allontana l’asciugamano dalla bocca, provando a pulirle il viso. Il pianto di Regina aumenta, mentre lei inizia a sfregarsi nervosamente le mani e a passarsele freneticamente sulle braccia, finendo col graffiarsi.
Non riesce a raccontare a Snow di come ha perso il suo bambino. Non riesce a dirle che è successo una settimana prima di quella visita. Non riesce a dirle che si è sentita tradita dal suo stesso corpo – dall’uomo con cui era stata, dalla sua magia e dal suo corpo. Regina riesce solo a piangere sempre più forte, a tremare nel suo attacco di panico e a stringersi la mani attorno alla vita e a premere così forte da non respirare.
“Se n’è andato” bisbiglia a denti stretti, credendo di rimanere davvero senza fiato – di morire davvero di dolore. Snow si china su di lei, avvolgendola tra le sue braccia. La stringe con tutta la forza che ha – l’attira al suo petto cercando di inglobarla nel suo stesso corpo nel tentativo di calmare un po’ quella sua sofferenza che la stava facendo impazzire. Non aveva fatto domande, ma aveva capito – dai gesti, dagli sguardi. Questo c’era tra loro – una speciale connessione che non permetteva loro di essere amiche e non permetteva loro di vivere semplicemente in modo civile. Mary Margaret sentiva di doverle stare così accanto – fisicamente, così vicina.
“Regina” sussurra piano il suo nome all’orecchio.
“Mary Margaret, ti prego” Regina la guarda negli occhi e si aggrappa con tutta la forza che ha alle maniche del suo maglione. “Non lo dire a nessuno” e ricomincia a tremare.
“A nessuno” ripete a bassa voce passandole le mani sulle guance per asciugarle le lacrime, che sembra non vogliano smettere di scendere. Regina, tra un singulto e l’altro, continua a dirle frasi sconnesse, farnetica. Snow le mette un dito sulle labbra. La zittisce dolcemente, prendendo posto accanto a lei. Come fosse una bambina, prende il viso di Regina tra le sue mani e se lo porta al petto. Regina si stringe attorno a Snow, continuando a tenere saldi i pugni attorno ai suoi vestiti.
“Va tutto bene, tesoro. Tutto bene” le ripete di tanto in tanto, posandole un bacio sulla fronte.
Regina alza gli occhi sul viso di Snow e lei sa perché. “Regina, ho detto che non lo dico a nessuno” sussurra dolcemente. Ha imparato a sue spese cosa significa tradire qualcuno che crede in te, non riuscire a mantenere un segreto. “Te lo prometto”. Regina, soddisfatta della risposta ottenuta, abbassa lo sguardo e chiude gli occhi. Restano in quella posizione per alcune ore. Dorme, appoggiata alla spalla di Snow, circondandola con le sue braccia e Mary Margaret sorride – la testa appoggiata alle piastrelle in marmo e le mani tra i capelli di Regina.
  
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