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Autore: ValentinaRenji    03/08/2014    3 recensioni
Continuazione di Madness & Despair (per comprenderla non è necessario leggere la precedente).
Dal testo:
“Nnoitra … non ce la faccio più …”
“Rimani ancora un po’.”
Doveva essere un ordine.
Un fottutissimo ordine di un superiore diretto a qualcuno meno forte di lui.
Ed invece suona come una supplica, una preghiera, una nenia ripetuta più volte fra le labbra screpolate e tremanti.
Rimani …. Rimani .
“Va bene, rimarrò … ancora un po’.”
Non è pronto a svanire nel nulla.
Non è pronto a veder dissolvere la persona che ama fra le proprie braccia simile ad una folata di polvere.
Non è pronto a morire.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Crack Pairing | Personaggi: Neliel Tu Oderschvank, Nnoitra Jilga, Szayel Aporro Grantz
Note: Lime, Missing Moments, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Violenza
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Breve introduzione (importante): Questa one shot è il seguito di Madness & Despair (anche se può essere compresa ugualmente senza leggere la storia precedente). E' ambientata dopo la sconfitta di Nnoitra Jilga e Szayel Aporro, il primo contro Kenpachi, il secondo contro Mayuri. Nonostante ciò sopravvivono entrambi: lo scienziato riesce a rigenerarsi ma viene catturato dagli exequias, la stessa cosa accade per la quinta espada.



Black Tears

 
 
Sto morendo.

Gocce d’acqua scivolando lungo le umide pareti di pietra, porose, crepate da lunghi sfregi, scalfite da unghie e denti. Ricadono al suolo in piccole pozze algide, rompendo il silenzio con il loro ritmato canto di solitudine, illuminate solo dalla scarna luce di una Luna morente, alta nel cielo cupo dello Hueco Mundo. Placida estende i suoi raggi eterei fra le grate delle celle vuote, accantonate le une accanto alle altre in due lunghe file, baciandole con quel fioco alone di vita, donando loro una briciola d’umanità, l’ultima, prima dell’oblio eterno.
 
Sto morendo.
 
Le prigioni sotterranee di Las Noches sono un posto angusto, ghermito dal gelo, escluso dal mondo, una bolla di sapone inodore, insapore, intrisa unicamente di paura, panico, dannazione, terrore. Chi vi entra non ne esce più ed ogni recluso la sa bene ancora prima di accedervi. Talvolta gli exequias sono clementi, uccidono subito il traditore con le proprie mani, lasciandolo ridurre in polvere per poi disperdersi fra le dune dell’immenso deserto di sabbia grigiastra, come le nubi che solcano la cappa scura che lo sovrasta perennemente. Altre volte, invece, nessuna pietà alberga in quegli animi assassini: ed ecco che le vittime vengono torturare, strappate alla razionalità, ridotte in brandelli respiranti per poi essere abbandonate in una stanza vuota dove il freddo regna sovrano, a perire lentamente soffocati dal dolore.
 
Sto morendo.
 
Lo avevano trascinato con la forza, incuranti della profonda ferita lungo il torace impregnato di sangue, disinteressati alle numerose abrasioni inflitte sul resto del corpo alto e snello; lo avevano braccato non appena rimasto solo in una pozza vermiglia, le palpebre socchiuse, la mente incosciente, il respiro fievole. L’hanno raccolto come un cucciolo ferito, per portarlo verso un impervio sentiero la cui meta è il patibolo.
Aveva sentito le loro braccia forti sollevarlo dalla sabbia bagnata dal suo sangue, stringerlo con determinazione, le gambe penzoloni, l’iride ametista annacquata, la vista sfocata, fitte lancinanti nel ventre, nello stomaco, fra le vertebre.
All’inizio non aveva compreso nulla, semplicemente credeva di sognare. Si sarebbe svegliato di lì a poco nel suo letto, fra le lenzuola bianche come il resto del vasto palazzo; avrebbe afferrato la sua arma, avrebbe mietuto vittime, le avrebbe divorate leccandosi le labbra sottili al gusto di quelle anime inferiori.
Eppure sotto ai piedi non sentiva il materasso scricchiolante, né sotto al capo pesante il cuscino dalla fodera candida. Quelli che indossava non erano abiti lindi ed integri, bensì una veste devastata dalla battaglia, logora, frammentaria.
Muove lentamente la mano, cercando di riprendere sensibilità almeno sulla punta delle dita magre, tastando l’aria alla ricerca di Santa Teresa, inutilmente: lei giace spezzata al suolo, una lama completamente sgretolata, il manico frantumato; solo una mezzaluna rimasta intatta, seppur scheggiata, riflette i raggi del sole fittizio, sovrano dell’effimero manto azzurro e terso, emanando scintille di luce che si perdono nel ciano.
Ciò che ricorda del poi rimane vago nella sua mente. Rimembra unicamente il respiro mozzato nei polmoni, l’eco dei passi della squadra in quello che pareva essere un corridoio infinito dimenticato dalla realtà. Sobbalzi, simili a scalini, anche se non riesce davvero a scommettervi. Il rumore di una porta che si apre, massiccia, pesante, ingombrante e subito un tonfo, dopo averla richiusa. Il cigolio d’una grata che si apre, il sordo suono di un corpo morente che viene lanciato sul pavimento, un rantolo agonizzante, il suo.
Il freddo delle piastrelle zozze sotto la sua pelle lattea, i capelli corvini sparsi sul volto affilato e magro.
Poi una fitta alla caviglia, una stretta d’acciaio che la cinge tanto da provocare un moto di nausea nell’espada riverso a terra, quasi privo di lucidità. Il tintinnio di una catena, i sensi che lentamente svaniscono, lasciando spazio solamente ad un abisso profondo, senza fine.
 
Sto morendo.
 
Quando riapre gli occhi non si rende subito conto di dove si trova, né di non essere solo. Sbatte più volte la palpebra, cercando di focalizzare al meglio la vista dell’unico occhio, scrutando le grate nere stilate di fronte a sé, una lontana falce lunare dall’aspetto malinconico, le celle vuote. Il suo respiro affannoso invade l’aria smorta, viziata, dall’olezzo tipico di quei luoghi chiusi per troppo tempo.
Cautamente si rialza, poggiando i palmi tagliati per tentare di imprimere in essi della forza, quanto basta per sollevarsi da quell’inferno; una scarica di dolore lancinante lo attanaglia lungo le costole, un urlo disumano risale la gola espandendosi nella desolazione totale.
Con rabbia si lancia di schiena, lasciandosi cadere sul muro, finalmente seduto, la gamba incatenata insensibile a qualsiasi stimolo, gli altri arti stancamente molli lungo i fianchi scheletrici.
Ed ecco che, finalmente, si accorge di una figura seminuda distesa su una fianco poco lontano da lui, la schiena chiara completamente ricoperta da graffi ed escoriazioni, il respiro talmente fievole da appare inesistente.
Lo fissa per qualche istante, convinto di condividere quella cella malandata e gelida con un cadavere lì abbandonato da chissà quanto tempo: gli era infatti parso di scorgerlo quando anch’egli è stato sbattuto dietro le sbarre ossidiana, eppure non ha idea di quanti minuti siano trascorsi da quel momento. Potrebbe trattarsi di attimi, come d’ore o di giorni.
L’iride violacea scorre sul confine di quella figura esile, un senso di familiarità lo assale non appena incrocia le ciocche rosate aderenti al collo incrostato di sangue come il resto del fisico martoriato, gli hakama bianchi distrutti in più punti tanto da ridursi ad un mero straccio striminzito.
Sgomento ingoia una manciata di terrore, tentando di riacquisire un minimo di controllo, di calmare i palpiti intrepidi di un cuore spaventato dal panico più crudele.
 
Szayel Aporro?
 
Con fatica allunga la gamba libera, titubante. Avvicina il piede nudo, privo della bizzarra calzatura, al fianco dell’octava, pungolandolo appena, senza ricevere alcuna risposta. Ed in quel momento un dolore più forte di una lama nel petto lo squarcia nelle viscere.
 
Non può essere.
 
Gli tira un calcio più sostanzioso, poi un altro, ed un altro ancora. Ad ogni spinta la carne pare lacerarsi, i muscoli dolgono atrofizzati, stretti nella morsa di una guerra persa; ma a lui non importa, deve vincere almeno la disperazione che porta nell’animo da quando è nato: deve farlo, almeno in questi ultimi istanti di vita.
Raccoglie l’intera forza rimasta, sferrando un colpo abbastanza cospicuo da svegliare il compagno, scuotendolo con un colpo di tosse.
 
“Szayel.”
 
Lo scienziato continua a tossire, interamente scosso da prepotenti brividi, continui sussulti incontrollabili.
Un rivolo porpora scende lungo le labbra, macchiando di rosso il pavimento ad ogni singulto.
Tenta di sollevarsi malamente ma ricade al suolo squarciando il silenzio con un rantolio sofferente.
Nnoitra Jilga riesce a percepire il respiro affannoso dell’altro, i tremiti, gli pare persino di poter annusare l’odore acre del suo sangue, pozza vermiglia ogni secondo più larga sotto a quel corpo inerme.
Con enorme forza di volontà riesce a protendere la mano ferita verso la quinta espada, mostrando senza pudore il buco creato dalla spada di Kurotsuchi, ancora contornato dal temibile veleno bluastro.
Un’altra spinta e finalmente riesce a rotolare sull’altro fianco, le iridi ambrate incontrano quella distrutta dell’arrancar appoggiato alla parete di pietra.
Muove le labbra sottili cercando di pronunciarne il nome, ma non esce altro che un sussurrio incomprensibile.
Sorride mestamente, trasformando il perenne ghigno beffardo in una smorfia follemente triste.
 
“Come … ti sei ridotto … Szayel …”
 
Non riesce a crederci , eppure è quasi certo di aver sentito l’altro ridere.
Esatto, ridere.
Non una delle sua scenate in cui si sgola di fronte ad una vittima nel palmo della sua mano.
No. Un semplice verso, un suono sommesso, una luce diversa in quello sguardo vitreo.
Schiude la bocca, inspirando profondamente, prima di rispondergli fievole:
 
“Nnoitra …. Anche tu … non sei preso … meglio di me.”
 
Poggia il palmo ferito sulla caviglia del corvino, assaporandone il contatto insperato.
Ed una nuova consapevolezza si fa strada nell’hollow dalla chioma d’ebano: una lacrima calda scende lungo la guancia pallida, una serie di singhiozzi si fa strada dal petto alla gola, scuotendolo come una foglia strappata dal vento di una tempesta.
Piange in  silenzio, osservando l’octava riversa al suolo, le iridi dorate puntate su di lui, gli angoli della bocca inclinati in un’espressione rammaricata.
Non riesce a parlare, stringe solamente la presa sull’arto spoglio della quinta, trasmettendogli una folata di calore umano.
Il moro se lo ricorda ancora la prima volta in cui l’ha amato.
L’aveva desiderato come un oggetto, aveva celato il suo istinto dipingendo un quadro sfalsato, progettando insieme una congiura contro una donna innocente, avvicinandosi a quello strano individuo dalla chioma pastello e lo sguardo perverso. Era la sua ossessione, quel corpo magro avvolto nella divisa bianca, quel collo candido da mordere e gustare con scie di baci bollenti.
Credeva di volerlo come una bestia ambisce alla preda, come l’istinto ricerca la sua espiazione.
Ed invece le sue idee erano mutate all’improvviso, non appena in quegli occhi impenetrabili aveva scorto la paura. Quando, stringendolo fra le sue braccia, s’era appoggiato sul petto liscio ed aveva udito, per la prima volta in tutta la vita, il battito di un cuore.
 
Un arrancar non ama.
Un arrancar vive per combattere ed uccidere.
 
Non l’avrebbe mai ammesso a se stesso.
Mai avrebbe urlato al mondo di non desiderare solamente il suo fisico slanciato, bensì di voler sfiorare dolcemente quell’anima impura, più furba della morte.
Ne aveva assaggiato le carni, notte dopo notte, aspettandolo davanti alla porta del laboratorio, appoggiato allo stipite della porta come al solito, l’usuale ghigno divertito dipinto sul volto, la lingua affilata pronta ad inumidire le labbra. Su di essa tatuato un otto, poi un cinque. E nonostante ciò le abitudini non cambiavano: talvolta si incontravano in quell’ala di pazzia, talvolta nei corridoi, altre volte ancora nelle rispettive stanze. Ma a loro non importava, perché nessuno dei due era in grado di descrivere l’immenso calore che solo l’unione dei corpi sapeva donare. Né Nnoitra né Szayel erano capaci di spiegarsi cos’era quell’istinto di rimanere vicini, di rimanere stretti fra le lenzuola ad ascoltare la pioggia cadere impetuosa dal cielo denso di nubi o anche solo semplicemente a bearsi del silenzio rotto dai rispettivi respiri.
Nessuno voleva ammettere di amare l’altro.
Eppure, ormai, è palese ad entrambi.
 
“Sto morendo, Szayel.”
 
“Anch’io, Nnoitra.”
 
Imprime maggior forza nella stretta alla caviglia, aggrappandosi ad essa, trascinando il corpo pesante maggiormente vicino a quello del compagno, riuscendo finalmente a raggiungerlo.
Ora sono l’uno accanto all’altro, dal basso del pavimento l’octava alza lo sguardo ambrato verso quello più alto della quinta, ancora appoggiata al muro umido.
Le ciocche corvine ricadono sulle spalle nude e ferite, imbrattate di polvere e sangue coagulato.
 
“Nnoitra … cosa … cosa ti hanno fatto?”
 
“Chiudi la bocca.”
 
Gli porta una mano affusolata sulle labbra, cercando di sigillarle, tremante.
L’iride ametista si proietta su di lui, caotica, afflitta dalla disperazione, orgogliosa, assassina.
 
“Parli sempre troppo.”
 
Lo scienziato sorride, portando le sue dita sul dorso di quella mano, accarezzandola per la prima volta.
Una scarica tiepida li avvolge, invadendoli di calore, tanto da fargli scordare per un secondo gli aghi algidi conficcati nella carne.
Preme dolcemente con il palmo trapassato dalla lama, beandosi di quel contatto sulla guancia, socchiudendo le palpebre.
Rimane in silenzio, attento ai singhiozzi sommessi dell’espada che digrigna i denti dalla rabbia e dalla frustrazione.
La mano si divincola dalla sua presa, due braccia esili lo cingono dolcemente fino ad appoggiarlo nel grembo magro e spoglio del corvino. La fronte aderisce al ventre scultoreo, percependone il ritmo del respiro rotto dal pianto, le dita sottili di Jilga si perdono in infinite carezze fra le ciocche rosate, percorrendo talvolta la guancia, talvolta il collo.
 
“Nnoitra … non ce la faccio più …”
 
“Rimani ancora un po’.”
 
Doveva essere un ordine.
Un fottutissimo ordine di un superiore diretto a qualcuno meno forte di lui.
Ed invece suona come una supplica, una preghiera, una nenia ripetuta più volte fra le labbra screpolate e tremanti.
 
Rimani …. Rimani .
 
“Va bene, rimarrò … ancora un po’.”
 
Non è pronto a svanire nel nulla.
Non è pronto a veder dissolvere la persona che ama fra le proprie braccia simile ad una folata di polvere.
Non è pronto a morire.
 
Ho sempre creduto che l’unica morte degna di questo nome … fosse quella in battaglia.
Sono stato ferito combattendo.
Ho seguito i miei ideali, la mia linea di pensiero. Semplice, rude, efficace.
Ho dato retta all’istinto, sono sfuggito allo spettro della disperazione. L’ho metabolizzato ed ora mi scorre nelle vene.
E allora perché mi trovo qui , ora?
Perché la mia fine è questa?
 
Szayel Aporro, perché non capito prima … di amarti?
 
Amore …
Amore.
 
Io sto morendo.
 
E solo ora mi pare di capire cosa significa questa parola a me lontana e sconosciuta. Adesso, solamente adesso, potrei giurare di veder rispecchiato in te il suo significato.
In te che ora stai morendo fra le mie braccia.
In te che non sei fuggito quando ti ho vomitato addosso fiumi di parole infuocate e terribili, minacce gravide d’astio, ingiurie, derisioni.
Non sei mai scappato.
Forse eri troppo arrogante e sicuro di te, pieno della sua alterigia, superbia, quella smania di perfezione che ti ha condotto ad una gravosa sconfitta.
Ma a me non importa.
Ti ritenevi un genio, lo eri davvero.
E per me eri davvero la perfezione. Lo sei ancora. Lo rimarrai.
 
Inspira malamente, i bronchi fischiano rovinosi, simili a mura che si sgretolano. Una lacrima cade sulla guancia del rosato, che la raccoglie sull’indice con dolcezza, come per accertarsi della sua reale esistenza.
Schiude le labbra sussurrando piano:
 
“Sai … ho sentito quando … sei stato sconfitto.”
 
“Anch’io … ti ho percepito e …”
 
Sospira, portando la mano sulla fronte dell’altro, stringendolo ulteriormente a sé, come una madre che abbraccia il proprio figlio al grembo, come un amante triste, come un lupo con il suo cucciolo appena sbocciato alla vita ed alle insidie del mondo.
 
“…E?”
 
“Temevo di non vederti più.”
 
“Forse … sarebbe stata la cosa migliore.”
 
“Non dire cazzate, idiota.”
 
“Non …”
 
Tossisce, interrompendo la frase, macchiando di sangue gli hakama bianchi dell’arrancar. Una smorfia di dolore si apre sul volto liscio, le sopraciglia corrucciate, le perle ambrate imploranti, stremate.
 
“… non … non volevo … farmi vedere così … da te.”
 
Stupido, sei uno stupido.
 
Mentre cadevo a terra ho visto LEI.
 
Lei, la donna che ci ha permesso di unirci. La donna che ho sempre odiato e sempre odierò. Quell’infido essere che, in fondo, ci ha portati alla rovina. Lei ora è salva, noi siamo al patibolo.
 
Per quanto ancora respireremo?
 
Quanto manca prima di divenire polvere e dissolverci nel nulla?
 
Perciò non dire cazzate … quando ci si trova di fronte alla fine del tuo tempo … non ha più senso nascondersi dietro inutili maschere. Non ha più valore fingere di non amarti, dissimulare ciò che provo per te.
 
Ecco perché … vederti è per me una doppia lama nello stomaco. La mia pelle è già ferita, sento che non resisterò ancora a lungo. Speravo sopravvivessi, almeno tu. Ma almeno siamo insieme, in fin dei conti lo siamo sempre stati.
Nel bene e nel male.
Sono felice, Szayel. Di perire accanto a te.
 
“Ehi … Nnoitra…”
 
“Che c’è?”
 
“Stavo … pensando. Ti ricordi quando … guardavamo la luna … dalla finestra … della tua camera?”
“Sì … perché?”
 
“Era bello.”
 
Jilga sussulta, stringendo istintivamente una ciocca rosata fra le dita.
 
Perché mi stai dicendo questo?
Vuoi davvero lasciarmi proprio ora?
 
Una fioca luce fucsia, piccolo alone rotondo, si estende dall’indice dell’octava, che lo avvicina al petto dell’espada.
La ferita lentamente inizia a rimarginarsi, lasciando spazio alla pelle liscia, chiara come la neve dell’inverno terreno.
Inizialmente non comprende cosa gli sta accadendo: lo vede rantolante, immerso in uno sforzo estenuante, solo per produrre una piccola fiammella della tinta del suo manto. Poi percepisce un senso di benessere, una maggiore forza negli arti, nel ventre, una crescente lucidità nella mente.
Ed ecco che la consapevolezza, amara e pungente, si fa strada in lui.
 
“Fermati idiota! Cosa stai facendo!”
 
Gli scosta malamente il braccio, incrociando il sorriso compiaciuto sul volto magro e sfregiato, accorgendosi solo ora della ferita sul cuore talmente fonda da trapassarlo interamente.
 
“Sono felice … che tu stia meglio … ora.”
 
“Perché l’hai fatto! Potevi curarti! Potevi salvarti! Hai sprecato … tu hai …”
 
Hai sprecato le tue ultime energie … per me ?
 
“Nnoitra … so che hai capito quanto me … che non abbiamo più tempo … per seguire l’odio … che ci ha creati. Almeno una volta … una sola volta … nella mia vita … volevo fare qualcosa … di buono … per qualcuno.”
 
“Sei uno stupido.”
 
Posa le labbra umide sulle sue, abbassandosi sul volto intriso di sofferenza e dolore; le sfiora delicatamente, non le assalta con la consueta foga, con quella fame mai sazia, né con quei morsi che lo facevano sospirare di beatitudine. Imprime un bacio corroso da lacrime salate e silenziose, quel genere di singhiozzi che precedono un addio.
 
“Nnoitra … per tutta la vita … ho tratto piacere dal torturare gli altri. Ho sacrificato tutto per i miei esperimenti … la mia stessa umanità … li vedevo morire e non provavo nulla … erano oggetti … tutt’ora lo sono … non sono pentito. Non mi voglio redimere … però tu … tu non eri … una cavia da laboratorio … mi importavi … veramente.”
 
“Stai zitto … stai zitto.”
Lo bacia di nuovo, stringendo le spalle fragili e scricchiolanti sotto quell’abbraccio affranto.
 
“So che puoi farcela a uscire da qui … vai via da Las Noches, vattene via … finchè puoi.”
 
Perché non vuoi lasciarmi morire insieme a te?
Perché ti sei sacrificato senza nemmeno esitare?
 
Piccole gocce irrompono nel silenzio improvvisamente, il canto malinconico della pioggia prende forma riecheggiando fra le celle vuote, ancora più fredde, con il suo scroscio perpetuo sempre più denso, compatto; il cielo prima sovrastato dalla Luna lattea è ora affollato da nuvole coatte e grigiastre, rombanti, scure.
 
L’octava sorride, leccando una goccia precipitata dal soffitto umido proprio sulle sue labbra screpolate.
Quel gesto consueto, lascivo, felino, riporta alla mente della quinta miliardi di emozioni,sensazioni, ricordi passati che lo colpiscono come un’onda in una burrasca: la frescura della tempesta esterna al castello, il fruscio delle lenzuola, il corpo dell’amante assopito accanto al suo, il profumo ancora impresso nella pelle, uno strano calore nel petto.
E quella cantilena, quel suono così meraviglioso della pioggia che li accompagnava nel sonno, entrambi nello stesso letto, uno dei due in una stanza che non era la sua, le vesti sparpagliate sul pavimento di lucide piastrelle.
 
Ti è sempre piaciuta la pioggia, eh, Szayel?
Me lo ricordo il tuo sguardo assorto, proiettato fuori dalla finestra alta e minuta. Ricordo come guardavi quelle gocce sfracellarsi sulla sabbia, mentre rimanevi steso impassibile con le braccia dietro la nuca.
Ogni tanto sospiravi, non mi hai mai detto il motivo.
Ma d’altronde non te l’ho nemmeno mai domandato. Lo sai, non sono un tipo di molte parole.
Tu invece … tu parli anche troppo. Blateri spesso, sempre indaffarato nelle tue congetture geniali comprensibili solo a te stesso.
Ma non importa, sapevi quanto me che non le capivo, eppure me le spiegavi lo stesso.
In fondo, come ti ho sempre ripetuto, “l’importante è che funzionino. Chi se ne frega del resto.”
E tu ridacchiavi beffardo, sistemandoti gli occhiali con quel ghigno stampato sulla faccia.
A volte ti avrei affettato con la mia Santa Teresa, lo sai?
Quei tuoi occhiacci gialli e superbi che ti scrutano dall’alto in basso, quella voce melliflua ed arrogante che sputa divertita frasi controverse.
Così perverso, così folle.
 
Dei passi lungo il corridoio semibuio spezzano i suoi pensieri, riportandolo alla realtà.
Szayel Aporro giace addormentato fra le sue braccia, per un momento ha temuto il peggio.
Sospira di sollievo, portandolo più stretto a sé, cercando di scaldare il suo corpo più freddo dell’inverno.
Una figura femminile si profila di fronte alle grate nere, lunghi capelli verdastri, un teschio sul capo, due iridi tenui come la sabbia del deserto.
 
“Neliel.”
 
“Nnoitra Jilga.”
 
L’istinto gli urla di avventarsi contro quel mostro e dilaniarlo, sbranarlo in miliardi di brandelli, stringere la gola fino a soffocarlo ma il tintinnio della catena alla caviglia lo riscuote dalla feroce ira, ricordandogli di proteggere l’octava riversa inerme sulle sue gambe.
 
“Puttana. Cosa vuoi.”
 
Rimane seria, avvolta nelle sue nuove vesti d’espada, divisa che ben esprime il suo rango riacquisito.
Allunga la mano affusolata fra le sbarre, porgendo un bicchiere allungato colmo d’acqua.
 
Le labbra del moro s’inarcano in una smorfia di puro disgusto, le dita stringono automaticamente il corpo algido privo di sensi.
 
Lei lascia scorrere le perle cristalline sul corpo seminudo di entrambi, coperto da stracci logori ed imbrattati di porpora, percorsi da brividi e ferite, lasciando trasparire un velo di stupore e commiserazione fra quei lineamenti gentili.
Loro l’hanno uccisa una volta, eppure ciò che prova dentro di lei è pietà.
Perché nonostante tutto non li ha mai odiati, neppure un secondo.
E probabilmente ha capito che a legarli è qualcosa che trascende le semplici congiure e gli interessi reciproci.
 
“Mi dispiace Nnoitra. Dico sul serio.”
 
“Muori!”
 
Le sbraita contro, ringhiando, la voce scossa dalla rabbia.
 
“Per favore. Se non la vuoi per te … almeno per lui.”
 
Indica lo scienziato, appoggiando all’interno della cella il bicchiere grigiastro.
Si allontana dando loro le spalle esili, il manto lungo ed ondulato ondeggia sinuoso sulla schiena femminile, oscillando passo dopo passo finchè anche il loro eco si spegne fra gli scrosci del temporale.
 
Alla fine hai vinto, Neliel.
Hai vinto e ancora non te ne importa nulla.
È per questo che ti odio, donna. Le tue ostinate convinzioni … no … c’è ben altro. La tua semplice presenza … mi fa vomitare.
 
Allunga una mano per afferrare il bicchiere, i bracciali ad anello al polso tintinnano metallici, ricordandogli il suono delle battaglie passate.
Anche quello contro di lei.
Strappa un lembo di stoffa dalla divisa smembrata, immergendolo nell’acqua fresca, per poi passarlo sul volto spento del compagno.
Lo pulisce piano, attento a non fargli male, tamponando la fronte, le guance, il naso, il collo.
Posa l’indice sulle labbra schiuse, assicurandosi di percepire ancora il suo respiro sempre più debole.
 
Stai morendo.
 
Un ultimo bacio, al sapore ferreo del sangue, al retrogusto del dolore.
Lo osserva profondamente, imprimendo nella mente il suo viso, i ciuffi dallo strano colore confetto, le scapole pronunciate, le costole appena accennate, la pelle chiarissima, gli occhiali dalla montatura bianca.
Inspira, assaporando quell’aria gravida d’umidità, riempiendosene i polmoni per salvarsi dall’oblio di disperazione che, lentamente, lo sta divorando.
 
Stai morendo.
 
Che grande bugia, è questa.
 
Solo ora mi accorgo …
 
D’essere già morto anch’io.



 
   
 
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