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Autore: nuvolenere_dna    04/08/2014    1 recensioni
[ E ora piangi, piangi perché non riesci a smettere di amarmi. Perché sei mio. Il tuo sangue è mio, la tua carne è mia. Piangi le mie lacrime, piangile tutte mentre io ti osservo, mentre la mia pietà ride di te. ]
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Seimei Aoyagi, Soubi Agatsuma
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Introduzione

E’ tanto che non scrivo una fanfiction, davvero tantissimo tempo. Mi sono concentrata su originali mai pubblicate su EFP, ma ora sono tornata con LOVELESS. Mi chiedo spesso perché la figura di Soubi mi piaccia così tanto dal momento che è difficile empatizzare seriamente con lui, con il suo modo di concepire l’amore. Penso che sia perché, in fondo, mi identifico molto con lui, con la sua abnegazione, con il suo sentirsi un rifiuto indegno di tutto, con il suo sapere che non potrà mai essere amato per ciò che è. Avevo già scritto una fanfiction su Soubi/Seimei ma a distanza di tempo non la trovo affatto soddisfacente. Penso che ci siano degli errori sull’IC dei personaggi, ma se le leggerete entrambe forse ve ne accorgerete.

E’ ambientata nel periodo in cui Soubi e Seimei formavano la coppia BELOVED, antecedente all’anime e al manga. Spero sia di vostro gradimento.

IPOVOLEMIA

Il rosso è il colore della vita. Si espande sgargiante sui prati di primavera, grida da ogni vestito, sciarpa, minuscolo particolare umano, è il colore delle labbra, del sesso, della furia, del pericolo. E’ il colore del sangue, delle vene, della supremazia del cuore. Rompe le iridi e le affonda, non esiste un colore più furioso, più impetuoso.

La porpora giaceva sul letto di Soubi, un oceano di terrore. Le lenzuola candide private della loro purezza, insozzate dal lago scuro sempre più esteso. Le molecole rosse conquistarono tutto, come un virus letale che repentinamente miete le sue vittime. Soubi ansimava, i capelli biondi intrisi, mescolati al sangue, incollati gli uni agli altri in una morsa umida sul petto e le spalle.

Il suo viso femmineo era contratto in una smorfia, mentre i suoi occhi marini erano torbidi per la paura, asciutti dall’ansia.

- Un taglio per ogni minuto in cui hai disobbedito. – una voce piana muoveva la stanza, una voce a pochi centimetri da lui. Seimei sorrise gentile, i lineamenti sempre più delicati, fini. I suoi occhi gelidi, divertiti, concentrati sulla lametta che Soubi teneva nella mano destra, fra le dita tremanti.

- Siamo solo ad undici. Continua. – lo esortò, colmandosi di un’elettricità frenetica nel gustare il potere di cui era dotato. Seimei lo fissava ancora cominciando a spazientirsi per la sua esitazione, sempre più irrequieto per il colorito pallido del suo corpo, sfibrato dalla perdita di sangue.

A causa di un malfunzionamento del cellulare, era stato impossibile per Soubi ricevere la chiamata di Seimei, che aveva potuto contattarlo solo dopo diverse decine di minuti. Ma allora era stato troppo tardi. La mente del Sacrificio imperversava già fra le punizioni più severe, totalmente sordo rispetto alle sue giustificazioni deboli, infantili.

Le iridi di Soubi sottostavano alle sue, immobili, sepolte dalla vergogna. Il suo campo visivo era confuso, turbato, limitato da fantasmi neri che mangiavano ogni contorno come cannibali di colori, tutto diventava nero, sempre più scuro, solo gli occhi di Seimei gli sembravano puri, luminosi, gremiti di una calma rabbiosa.

Chiedere perdono era inutile. La sua bocca aveva smesso di sforzarsi nell’elaborare delle scuse molto tempo prima. Le punizioni arrivavano che lui ne capisse il motivo oppure no.

Non riusciva più a tagliarsi, i movimenti gli erano difficili, neutralizzati dal sonno di morte che lo stava divorando lentamente. Le sue dita lasciarono la presa sulla lama, la quale scivolò ignobilmente, insieme al suo capo, sempre più basso, ancora alzato per non mancargli di rispetto.

- Non ce la faccio. – mosse appena le labbra, mormorando le parole come un eco lontano, pentendosi immediatamente per aver parlato. Seimei odiava quel genere di frasi. Le fitte acute provenienti dal braccio sinistro erano sempre meno intense.

- Supplicami. Se mi supplichi a dovere potrei farti smettere. – Seimei lo sorprese con uno dei suoi sorrisi smaglianti, mentre si allontava di scatto da lui, inorridito dal suo sangue sporco, sudicio, sempre più vicino.

Soubi tacque, esausto. Supplicare Seimei aveva il solo risultato di compiacerlo, divertirlo, accendere il suo cuore di una rara gioia, ma nient’altro.

Era giusto, dopotutto. Se lo meritava. Aveva disobbedito al suo padrone e Seimei aveva ogni diritto di vendicarsi. Si inginocchiò con fatica, le ginocchia caricate di uno sforzo immane, mentre protendeva le braccia in avanti, verso di lui, come se volesse toccarlo. Soubi avrebbe voluto abbandonarsi al suo abbraccio, fantasticava da sempre la morbidezza della sua pelle, dei suoi capelli, la sagoma delle sue spalle contro il petto, ma quel piacere gli era sempre stato negato. Si fermò a debita distanza da lui, con cura a non sfiorarlo neppure.

Soubi si specchiò nelle sue iridi liete e abbassò lo sguardo, infranto dentro.

- Uccidimi. – sussurrò con le labbra contro il materasso fradicio del proprio sangue – Me lo merito. –

- Io non voglio affatto liberarmi di te. – ribatté Seimei, contrariato – Voglio vederti piangere... Voglio vedere tutte le tue lacrime graffiarti il volto. –

Lo stupore invase quel poco che restava della mente di Soubi: Seimei odiava vedere le persone piangere, odiava quel liquido unto, sporco, colante dagli occhi, odiava il suono dei singhiozzi, del naso ansimante. Uno dei primi ordini che aveva ricevuto era stato quello di non piangere mai in sua presenza, cosa che Soubi aveva rispettato senza fiatare. Era sempre stato inibito nell’esprimere i suoi sentimenti.

Ricordava vividamente il modo in cui Ritsu era solito picchiarlo quando piangeva.

Ricordò quando si era nascosto in uno sgabuzzino abbandonato, fra le scope e le scatole polverose.

Convinto di essere solo e inascoltato si era abbandonato ad uno dei quei pianti disperati, in cui si smette di respirare e si prova soltanto dolore e formicolio in ogni parte del corpo. I singhiozzi erano così forti che erano diventate urla, si era piantato le unghie nei palmi fino a lasciare segni rossi. Le lacrime gli erano colate sui vestiti, sui pantaloni. Non poteva tacere oltre la sua angoscia. Si sentiva solo, inesistente, negato da chiunque.

Non si era nemmeno accorto dell’entrata di Ritsu, della sua ira mentre lo afferrava per una spalla e lo portava via. Aveva steso a terra il suo corpo assente, lo aveva spogliato bruscamente e lo aveva preso a frustate con una tale veemenza da aprirgli la schiena, le natiche, le gambe, le braccia in voragini così rosse da divenire nere. Ricordava come lo aveva stretto dopo, urlandogli nelle orecchie che non doveva mai più piangere, mai più.

Ritsu aveva toccato le sue membra tremanti con delicatezza, abbandonandosi sul pavimento con lui, disperdendosi nel suo sangue e nel suo silenzio. Ricordò come aveva avuto di nuovo voglia di piangere, stretto a lui in quel modo dolce, con il viso premuto contro il suo collo e il corpo nudo carezzato dalle sue dita. Non provava dolore, non in quel momento in cui il tocco di qualcuno non era inteso a provocargli sofferenza ma quella strana sensazione sconosciuta.

Invece Seimei non lo toccava mai, aveva una tale repulsione di lui da mantenersi sempre a distanza, anche per punirlo. Odiava il suo respiro, la sua saliva, l’odore della sua pelle, il suo essere essere umano, corporale. Lo fissava con insofferenza, come se fosse un escremento maleodorante. Questa volta voleva divertirsi con le sue lacrime. Sapeva quanto difficile fosse per lui. Era un nuovo modo per insultarlo, per umiliarlo, per fargli dissipare l’ultimo briciolo di dignità.

- Avanti, piangi... Piangi per il fatto di essere un rifiuto. Nemmeno il tuo Sensei, il tuo amato Sensei, ha voluto tenerti con sé. Scommetto che ha sempre aspettato il momento in cui avrebbe potuto disfarsi di te. Chi ti vorrebbe mai? – gli domandò, raggiante, componendo un ghigno che incupì la grazia del suo volto.

Soubi non rispose, quei pochi frammenti integri dentro di lui si stavano incrinando pericolosamente.

- Sperava di ucciderti con tutte quelle punizioni. Ma l’ostinazione, la tenacia nel vivere quando nessuno ti desidera, nella tua persona sono così elevate da vincere anche la morte. E così ti ha venduto a me. Comunque lo capisco, sei come un fardello inutile, uno zero, una carcassa che non ha ancora finito di infastidire il prossimo. –

Piangere per Soubi era ancora più difficile che continuare a tagliarsi. Implicava un movimento del cuore, quello stesso muscolo duro che lui aveva ghiacciato nelle profondità, compresso in una scatola di paura e solitudine, avvezzo alle vergate. Afferrò di nuovo la lametta e si incise profondamente nel braccio, provocandosi così tanto dolore da sperare di indursi il pianto. Non si fermò, premendo la lama contro le vene, strappandole.

Ma quelle bastarde non scendevano mai, incastonate fra le sue palpebre socchiuse, incastrate dall’abitudine e dal terrore. La disperazione lo mangiò spietata, inducendolo ad una furia verso se stesso che non seppe più frenare. Si lacerò ancora, un taglio dopo l’altro, senza lasciare un centimetro di pelle nuda. Non riusciva a piangere di fronte a lui. Vedeva soltanto più il rosso della sua fine e la calma degli occhi di Seimei, lambiti dalla delusione.

- Trentasette. La tua punizione è finita, Soubi. – la sua bocca si aprì in un sorriso amaro - Ma io non sono per niente soddisfatto. Voglio ancora vederti piangere... –

Soubi cadde rovinosamente, svuotato di tutto.

- Quando incontrerò il mio vero combattente, tu non sarai che un ricordo. Uno schiavo disgraziato che ha perso il senso della sua vita. Penso che sarebbe più gentile eliminarti che farti assistere ad un tale spettacolo. Ma io non sono gentile. – disse piano, delicatamente.

- E ora piangi, piangi perché non riesci a smettere di amarmi. Perché sei mio. Il tuo sangue è mio, la tua carne è mia. Piangi le mie lacrime, piangile tutte mentre io ti osservo, mentre la mia pietà ride di te. Piangi perché la tua vita è consacrata a me. Piangi perché ami anche questo di me: il dolore, la morte. Piangi perché non esisti al di fuori di me, solo dentro di me, in me. Piangi perché hai paura, perché mi temi. Piangi perché non sei altro che un simulacro e il tuo dolore non vale nulla per me. Piangi perché mi ami, Soubi. –

Dentro di lui tutto si frantumò. Le iridi cerulee di Soubi si inabissarono nelle sue, scure e crudeli, incatenandosi irrimediabilmente. Non si accorse neppure che lacrime calde avevano cominciato a scendere lungo i lineamenti sottili del suo viso. Lo amava così forte da morire per lui, annientato dalla sua forza. Si sentiva dissolvere, i contorni del suo corpo erano sempre più sfumati. Il dolore era acuto e indistinto, quasi una sirena tattile sotto la sua pelle straziata.

- Piangi perché sarai mio per sempre. Ti possiederò sempre. – lo cullava su un letto di aghi, la sua voce era diventata un ritornello lontano, un refolo di vento gelido.

- Io non ti lascerò mai. – gli bastava questo per lasciarsi andare all’oscurità, la certezza che Seimei non lo avrebbe mai dimenticato, mai lasciato al suo destino. Ora il suo volto scavato era candido, screvro di tutto, scavato dal pianto convulso, travolgente per l’essere stato trattenuto per così tanto tempo.

- Giuramelo. – la voce di Soubi era uno spettro, un soffio nero.

- Io sono il tuo padrone, Soubi. – le labbra carminie di Seimei si curvarono in un sorriso dolcissimo. I suoi lineamenti danzavano aggraziati, incoronati da quei capelli corvini e setosi.

Soubi morì d’amore, abbandonandosi alla dolcezza di quelle parole, alla sicurezza che gli davano, chiudendo gli occhi turgidi. Era stato punito e nulla era in grado di rassicurarlo di più.

Il senso di vuoto lo ripuliva dal senso di colpa, da ogni suo peccato.

- Ti prego. – sussurrò, pensando all’ombra di Seimei, al suo sguardo freddo. Immaginò di stringersi a lui e le ultime lacrime lambirono il suo volto. Si dissolse con quelle immagini nella mente, cullato dalla sua violenza, dal suo essere brutale.

Svenne in un sonno profondo, mentre Seimei lo guardava di nuovo serio, corrucciato.

Pensò che Soubi sarebbe sopravvissuto. Nel sonno la sua magia avrebbe lenito le sue ferite e sarebbe presto guarito. Non era altro che un gioco. Un gioco di potere, una dimostrazione di forza che lo divertiva immensamente: giocare con la vita di Soubi fino al punto limite, fino al momento precedente alla sua fine. Non si poteva che comportarsi così con quel genere di persone, patetiche e vuote come Soubi.

Non erano persone, dopotutto, solo bestie senza dignità. Era divertente vederlo contorcersi, dimenarsi nel tentativo di farsi amare, di farsi rispettare. Lo disgustava al punto che lo avrebbe soffocato con le sue stesse mani se non avesse avuto paura di contaminarsi, di lordarsi con quella sua pelle sporca, ipocrita. Se ne andò annoiato. “Il gioco è bello quando dura poco”, così dicono, ma Seimei adorava lo stillicidio del sangue, il suono della porpora sul pavimento, una goccia dopo l’altra fino all’ultima, fatale. Ma purtroppo questi impostori, questi sedicenti umani rischiano troppo facilmente la morte. E Seimei non voleva certo liberarsi del suo giocattolo più divertente.

Un vero peccato.

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