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Autore: passiflora    04/08/2014    5 recensioni
[Partecipa al concorso Favole&Surrealismo di Melinda Pressywig]
Quando avevo sedici anni feci un sogno.
Ero in una stanza immersa in una lattiginosa penombra, come se tutto i apparisse velato da una coltre di fumo grigio. Nella stanza c’erano degli uccellini. Erano grigi e neri e becchettavano briciole incolore sparse su un pavimento di scure assi. Era come essere finiti in uno schizzo a matita e carboncino. Sul muro di fronte a me, spesse tende scure coprivano qualcosa, probabilmente una finestra.
Io osservavo quella stanza, così grigia e anonima da sembrare distante, fredda. Gli uccellini saltellavano sul pavimento, senza mai sbattere le ali, senza mai librarsi in volo, nemmeno per qualche istante. Era una scena così tranquilla da risultare inquietante.
D’un tratto, uno dei piccoli volatili aprì il becco ed emise un suono muto, che io non sentii ma che tutti gli altri uccellini sembrarono percepire. Lo stormo voltò all’unisono le testoline verso la parete sinistra della stanza e in quel momento io mi svegliai...
Genere: Introspettivo, Slice of life, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando avevo sedici anni feci un sogno.

Ero in una stanza immersa in una lattiginosa penombra, come se tutto i apparisse velato da una coltre di fumo grigio. Nella stanza c’erano degli uccellini. Erano grigi e neri e becchettavano briciole incolore sparse su un pavimento di scure assi. Era come essere finiti in uno schizzo a matita e carboncino. Sul muro di fronte a me, spesse tende scure coprivano qualcosa, probabilmente una finestra.

Io osservavo quella stanza, così grigia e anonima da sembrare distante, fredda. Gli uccellini saltellavano sul pavimento, senza mai sbattere le ali, senza mai librarsi in volo, nemmeno per qualche istante. Era una scena così tranquilla da risultare inquietante.

D’un tratto, uno dei piccoli volatili aprì il becco ed emise un suono muto, che io non sentii ma che tutti gli altri uccellini sembrarono percepire. Lo stormo voltò all’unisono le testoline verso la parete sinistra della stanza e in quel momento io mi svegliai.

 

A quell’epoca stavo passando attraverso un periodo della mia vita estremamente cupo. L’adolescenza, dopotutto, è cupa per definizione. Non si è né bambini né adulti, ma solo creature invischiate in un limbo incolore come mosche nel miele. Spensierati, ma pieni di pensieri oscuri. Tranquilli, ma nervosi e agitati. Abbastanza grandi, ma ancora troppo piccoli. Con le idee chiare, ma fondate solo su sogni, senza esperienza. E io percepivo dentro di me quel conflitto e il costante scontro tra correnti avverse mi dilaniava.

Mi sembrava che nulla andasse come avrebbe dovuto. Avevo indossato degli occhiali scuri e tutto aveva assunto una sfumatura nera, di disfatta e disillusione.

 

La notte successiva feci di nuovo quel sogno e di nuovo mi svegliai quando gli uccellini si voltarono verso sinistra. Lo stesso avvenne per molte notti successive.

Incuriosita, cominciai a meditare su quale significato potesse avere il sogno . Uccelli neri, in una stanza grigia... Non mi diceva nulla.

Quella notte il sogno durò più a lungo. Gli uccelli si voltarono come al solito e io mi dissi che dovevo rimanere, che non potevo svegliarmi subito. Resistetti. Fu così che vidi una mano dalle dita pallide che lanciava delle briciole sul pavimento. Interessante, pensai. Un attimo dopo mi svegliai.

 

Anche in famiglia le cose mi sembravano andare tutte storte. Mia madre mi sembrava essersi improvvisamente tramutata in un muro di gomma, refrattario a qualunque parola provenisse da me. Mio padre, più o meno, anche. Detestavo i miei compagni di classe, le ragazze della squadra di pallavolo e tutti i partecipanti al corso di chitarra, il che equivaleva ad annoverare nella mia lista nera tutti i miei conoscenti. La cosa che più desideravo fare era stare tutto il giorno chiusa in camera, a rotolarmi sul letto, senza pensare a nulla. Mi sembrava di dover compiere uno sforzo disumano anche solo per alzarmi e scendere per cena, quasi avessi sulle spalle uno zaino pieno di pietre che mi ancorava al materasso.

 

Passarono un paio di settimane e il sogno progredì ancora. Per la prima volta vidi il braccio e la spalla di chi nutriva gli uccellini, che mi sembravano sempre più numerosi.

 

La mia forza, nel frattempo, sembrava spegnersi sempre di più. Nulla, nel mio piccolo mondo, riusciva a smuovermi. Le cose avevano perso la loro luce, la loro consistenza. Non c’era niente che potesse spingermi ad agire. L’unica cosa che mi interessava era il mio placido mondo interiore, in cui mi rifugiavo continuamente. Non sorridevo, nulla mi spingeva a ridere. Avessi potuto, avrei dormito tutto il giorno.

 

Passò un mese e una notte, improvvisamente, il sogno si allungò ancora ed ecco comparire per intero la figura che lanciava le briciole. Non ne fui soddisfatta, a dire il vero. Si trattava soltanto di una ragazzina pallida e magra, con dei capelli neri, tagliati a caschetto. Come me.

Gettava a terra le briciole con gesti meccanici, a intervalli di tempo regolari. Vederla mi inquietò. Il pavimento della stanza era ormai invaso dagli uccellini, ma lei non smetteva di lanciare il mangime, come se fosse programmata per fare solo quello. Paradossalmente, nemmeno il costante movimento di lei riusciva a turbare la sensazione di immobilità della scena.

 

Passò un secondo, orribile mese durante il quale mi assentai da scuola più e più volte. Non ero malata, ma la mattina non trovavo nessun motivo valido per alzarmi. Mi chiudevo a chiave in camera e a nulla valevano gli strepiti dei miei familiare e le minacce di mandarmi da uno psicologo. Come se fosse qualcosa di cui vergognarsi, pensavo.

 

Un giorno, vidi un uccellino posarsi sul davanzale della mia finestra. In controluce, mi sembrava nero come quelli del mio sogno. Mi alzai dal letto e barcollai fino alla finestra, per osservarlo. Ormai avevo sviluppato una sorta di attenzione selettiva verso i volatili. Quando mi avvicinai, notai che le sue piume non erano nere, ma di una chiara sfumatura marrone. Un passerotto, nient’altro che un passerotto.

 

Quella notte, tornai a sognare la ragazza e i suoi uccellini. Il pavimento era letteralmente invaso da una marea di testoline nere e io sapevo che se lei avesse continuato a nutrirli, loro avrebbero continuato a moltiplicarsi, fino a non avere più spazio. A quel punto, sarebbe scoppiata la guerra e si sarebbero uccisi tra loro, beccandosi a morte. Oppure avrebbero continuato a crescere fino ad occupare tutta la stanza e soffocare me e anche la ragazza pallida.

Per la prima volta mi venne voglia di parlare. Nel sogno, provai a rivolgerle la parola. «Smettila!» tentai di esclamare. «Smettila di nutrirli.»

Ma dalla mia bocca non uscì alcun suono.

 

Dopo qualche giorno, ritentai. Oramai mi ero abituata all’idea di fare continuamente lo stesso sogno. Di giorno mi interrogavo sul perché mi capitasse sempre la stessa visione ed ero giunta alla conclusione che la mia mente mi stava inviando un messaggio. Il fatto che le vicende si sviluppassero e che il sogno progredisse mi suggerivano l’idea che io potessi influenzare la vicenda. Io potevo fare qualcosa per non venire inghiottita dalla marea degli uccellini neri, ma cosa? Quella notte, quando piombai nuovamente nel sogno, tentai di parlare con la ragazza. «Smettila! Smettila!» le urlai. Gli uccellini si erano fatti più grandi e ora mi incutevano paura. «Smettila di dargli da mangiare!». La ragazza non diede segno di avermi sentita. Sconsolata, mi svegliai.

 

Quel giorno, mi misi al computer e cercai materiale sui sogni e sugli uccelli e su qualsiasi altra cosa mi venisse in mente che potesse essere collegata alla mio personale film notturno.

Il computer era un fisso, posizionato al piano terra, in soggiorno. Pertanto dovetti scendere dal mio nido in cima alle scale e scendendo, mi imbattei in mia madre e una sua amica, venuta a prendere il tè. Non la conoscevo, ma in realtà conoscevo appena un paio delle sue amiche e quindi non mi stupii.

 

Vedendomi cercare informazioni con un’attenzione e una caparbietà che non dimostravo da mesi, mia madre mi domandò quale fosse il motivo della mia ricerca. Risposi con un sibilo svogliato che si trattava di una questione personale. Mi fecero ancora domande e alla fine, spinta da quell’ultimo accenno di buona educazione che mi rimaneva, risposi che si trattava di un sogno ricorrente. Mi chiesero di raccontarlo. Mi rifiutai più e più volte. Poi, mi resi conto che da sola non avrei potuto venirne a capo. Facevo quel sogno da quasi tre mesi e non avevo capito come risolvere la situazione e come farmi ascoltare dalla ragazza delle briciole. Pertanto, raccontai loro quello che vedevo.

«Ma mi pare evidente!» disse l’amica di mia madre. «La ragazza sei tu!».

Caddi dalle nuvole. Io? Perché io?

«Una ragazza magra, pallida, vestita di nero, con i capelli a caschetto, giusto?» domandò ancora la donna.

«Sì.»

«Ti sei appena descritta.»

Mi guardai. Vestivo con una maglietta nera su dei pantaloni blu scuro e indossavo una veste da camera nera con dei ricami di stelle argentate. E i miei capelli erano corti e a caschetto.

Sentii qualcosa smuoversi dentro di me, la stessa sensazione che si prova prima di risolvere un complicato problema di matematica. Forse avevano ragione, forse iniziavo a capire.

«Ma i miei capelli non sono neri» obiettai.

«Ma i suoi lo sono solo perché è al buio, ritengo» disse la donna.

«È al buio?» domandai.

«Ma sì, sai come si dice, no?» intervenne mia madre. «Al buio tutti i gatti sono grigi. E in questo caso, tutti gli uccelli sono neri. E anche i capelli delle ragazze.»

«Quindi...» borbottai. «Quindi pensate che la stanza sia buia?»

«Penso di sì» disse mia madre. La sua amica fece un cenno d’assenso con la testa.

«E perché dovrebbe essere buia?» domandai.

«Non lo so» rispose l’amica di mia madre. «Forse perché tu ti senti buia.»

Non mi sembrava una spiegazione molto lontana dalla realtà. Ci avevo pensato anche io, un paio di volte.

«Ma se, ad esempio, volessi accendere la luce, non potrei. Non ci sono lampadari o interruttori nella stanza...» dissi, ripensando alla conformazione della immobile, opprimente stanza grigia.

Ma mi fu subito chiaro che mi sbagliavo, mi sbagliavo di grosso. Qualcosa c’era ed era sempre stato lì senza che io lo degnassi di un minimo d’attenzione.

Salutai le due donne e corsi in camera mia. Temevo che ora che avevo un’idea su come risolvere la questione il sogno sarebbe svanito, impedendomi di venire a capo di quel piccolo mistero.

Ma cosa fare? Aspettare fino a sera? Provai ad addormentarmi, ma il sonno non venne. Mi girai e rigirai nel letto, che improvvisamente sembrava divenuto scomodo. Mi sentivo così infastidita da quella sensazione di disagio e attesa che finii per non riuscire ad addormentarmi nemmeno dopo cena. Il sonno arrivò tardi e non ci fu traccia del mio sogno.

 

Rimasi arrabbiata per giorni interi, divenendo più intrattabile ancora. Solo quando la rabbia si affievolì ritrovai la stanza grigia e la ragazza pallida. Gli uccellini erano aumentati di taglia e riuscivo a percepire l’agitazione che pervadeva le piccole creature.

Questa volta mi rivolsi a lei in tono pacato e la ragazza voltò la testa verso di me. Il cuore mi salì in gola nel momento in cui constatai che l’amica di mia madre aveva ragione. Quella ragazza pallida ero io.

Io alimentavo meccanicamente gli uccelli. Io li avevo resi grossi e inquieti. Io rendevo immobile e opprimente quella stanza. Io rimanevo ferma a ripetere lo stesso gesto all’infinito.

Mi svegliai sudata e in preda ad una strana frenesia. Mi alzai di scatto e per prima cosa aprii la finestra. Erano le tre del mattino e una ventata gelida mi fece rabbrividire. Il mondo, fuori, era immerso nella pallida luce della luna e dei lampioni. Nell’ombra, le cose erano scure e immobili. Impossibile percepirne il colore, impossibile percepire un movimento. «Al buio tutti i gatti sono grigi» ripetei. «E tutti gli oggetti sono immobili.»

Sorrisi. Avevo la soluzione.

 

Quella mattina spalancai la finestra della mia camera e mandai tutto all’aria, pulendo e riordinando. Mia madre e mio padre ne furono sorpresi.

Quella notte, quando mi addormentai, la mia mente mi portò nella stanza grigia. Non persi tempo a rivolgermi alla me dai capelli neri. Senza esitazione avanzai in mezzo ai volatili, verso le scure e pesanti tende che coprivano la finestra. Poi, con un gesto deciso, le aprii.

In un attimo, un cono di calda luce si allungò sul pavimento, colpendo gli uccelli neri. Quasi accecata mi voltai e vidi che il mare di testoline nere era sparito. Rimanevano soltanto pochi esemplari, piccoli come quelli che avevo visto la prima volta e dal piumaggio acceso di mille colori sgargianti. Quelli che rimanevano nell’ombra mantenevano il colore nero che ben conoscevo, ma appena entravano nella luce le loro piume cominciavano a brillare.

Sorrisi. Mi sentivo allegra.

Un uccellino sbatté le piccole ali e si alzò in volo, andando a posarsi sulla mano tesa della ragazza in nero. Le dita di lei entrarono nel cono di luce e sembrarono dissolversi.

Io mi voltai nuovamente e aprii la finestra. Immediatamente, sentii un frullare d’ali alle mie spalle e i piccoli volatili volarono fuori.

In quel momento mi svegliai.

 

Mi alzai da letto velocemente, quasi le coperte scottassero. Mi lavai, mi truccai e fui pronta per andarmene a scuola molto prima del dovuto, tanto che uscii da casa molto presto per farmi una passeggiata. Il mondo usciva dalla notte e riacquistava i colori perduti e io camminavo per le strade deserte sentendomi leggera. Era come se qualcuno dentro di me avesse aperto una finestra e lasciato entrare l’aria fresca di un mattino invernale in una stanza rimasta chiusa per mesi, nel buio.

Non so perché mai fossi sprofondata in quella specie di notte perpetua, ma so che aprire la finestra in quel sogno mi regalò il giorno. E io stessa mi ero fornita la soluzione, come io stessa ero il problema.

In seguito, ogni volta che mi sentivo sul punto di chiudere le tende e rifugiarmi in un angolo oscuro, ricordavo il sogno ed era come se aprissi una finestra e lasciassi passare la luce. E il problema si dissolveva, come le dita della ragazza pallida.

 

   
 
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