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Autore: SallyLannister    04/08/2014    2 recensioni
Carter era un uomo insensibile e a tratti crudele. Non si curava del prossimo nemmeno per attimo, quando però nella sua vita accadde l'impensabile. Diverse vicende si abbatterono su di lui, rendendo la sua vita diversa da come in realtà il giovane aveva sempre voluto.
Questa è la storia di tradimenti, inganni, menzogne, crimini e sì, anche d'amore.
___ Dal Testo ___
[...] Pianse in singhiozzi mentre il ragazzo la guardava senza la minima espressione sul volto. Aveva visto tante donne piangere, lei era una di loro, non aveva nulla di particolare.
Senza degnarla di uno sguardo la lasciò sul letto a piangere e infilandosi un paio di pantaloncini si diresse verso la finestra, arrampicandosi per ritrovarsi sulle scale antincendio del palazzo.
Dopo vari istanti i singhiozzi cessarono e la porta di casa sbatté.
Carter trasse un lungo e intenso sospiro, finalmente era finito tutto.
Genere: Drammatico, Erotico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO 9
 
 


Luglio, San Pietroburgo.
4 anni prima.
 

Quel periodo dell’anno era il momento che Carter meno amava, il fatto che ci fosse il sole per ventidue ore al giorno, non era quello che preferiva. A dire il vero, in Russia, non sapevano nemmeno cosa significasse l’estate vera e propria, poiché a Giugno c’erano ancora delle persone che giravano con le giacche, per via della temperatura mai stabile.
La parte della giornata che preferiva era la notte, poiché era libero di girare indisturbato per le strade e comprare la droga.
Si era avvicinato a quel mondo quando aveva diciotto anni; il suo percorso non era stato facile, poiché inizialmente si era visto costretto a spacciare per racimolare qualche soldo. Aveva perso il conto di tutte quelle volte che aveva dormito per strada, avvolto in spesse coperte prese nei cassonetti, per cercare di salvaguardarsi dal morire assiderato durante la notte. Quando capì che non potette più dormire per strada, grazie ai diversi gradi sotto zero che vi erano nel periodo invernale, decise che era giunto il tempo di darsi da fare.
Con quel “lavoro” i soldi erano facili, non doveva sforzarsi più di tanto, riusciva tranquillamente a mettersi una grossa somma di denaro da parte e addirittura comperare una specie di casa.
Sfortunatamente per lui, quel richiamo era troppo forte, che aveva spinto il giovane a provare, fino a diventarne dipendente a tutti gli effetti. Ciò che aveva fatto per permettersi la droga non era tra le cose più oneste che un uomo potesse fare. Si era visto complice di molte rapine a mano armata e diverse aggressioni in proprietà private; tutto per acquistare un bene che era così superfluo ma così indispensabile.
 
Sciolse il laccio emostatico che aveva fermato al bicipite, rilasciandolo piano piano, in modo che il sangue riuscisse a defluire e che spargesse in tutti i condotti venosi la dose che si era appena iniettato nel braccio. Una sensazione di torpore lo avvolse, facendolo sentire l’uomo più felice del mondo. Lentamente sfilò anche l’ago dal braccio, facendo fuoriuscire una gocciolina del suo sangue ormai troppo infettato da tutta quella roba.
«Questa è già la terza dose in cinque ore. » Gli fece notare Ostroff.
«Shhh… fammi godere questo momento. » Socchiuse gli occhi e poggiò la testa sullo schienale della propria auto.
Si erano fermati in un parcheggio, in modo che Carter potesse farsi una dose, mentre il suo migliore amico lo guardava con rimprovero.
Ostroff lo aveva conosciuto diversi anni prima, quando il suo capo Severin, lo aveva tolto dalla strada per offrirgli un posto nella banda. Lì aveva conosciuto tutti coloro che nel giro di poco tempo, era diventata la sua famiglia.
«Cazzo, devi essere lucido. Se quello tira fuori una pistola come cazzo facciamo? » Ostroff gli tirò una sberla dietro la testa e lo scosse da quel momento di totale assuefazione.
Carter lo guardò male. In quei momenti non aveva nemmeno la voglia di tenere gli occhi aperti, voleva solo sentire silenzio e crogiolarsi nella sua amata droga.
«Sta tranquillo. » La sua voce era così bassa che si perse quasi in un sussurro.
Poi fu tutto buio.
 
Non seppe dire cosa stava sognando, ma era qualcosa di veramente bello. Come un caleidoscopio di colori, dove ogni tono cambiava in continuazione e un susseguirsi di forme che velocemente cambiavano natura. Si ritrovò a sorridere fra sé e sé a quel senso di felicità imminente che lo aveva colpito. In un attimo, una fortissima luce irruppe quel bellissimo sogno e l’immagine sfocata di un’ombra, un’ombra in mezzo alla luce che lo chiamava.
Lentamente aprì gli occhi, si sentiva le palpebre così pesanti e quando finalmente riuscì a mettere a fuoco la vista, intride di nuovo quelle luci bianche che non era altro che una lampada al neon, situata sopra al soffitto. Dopo aver discostato l’attenzione dalla lampada intravide due occhi ambrati che lo guardarono spaventati.
«Grazie al cielo. Mi hai messo una paura fottuta. »
Sbatté diverse volte le palpebre per capire dove fosse. Quella certamente era la voce di Ostroff, poteva riconoscerla fra mille.
Cercò di mettersi a sedere, ma come una forza invisibile lo teneva inchiodato a quello che sembrava un letto d’ospedale. Doveva capirlo da quegli interni azzurrini e la luce forte, che era posta sulla struttura sopra al suo letto.  Solo quando provò a parlare, si rese conto che indossava una mascherina per l’ossigeno.
Ostroff che capì immediatamente la sua domanda silenziosa, si sporse sul letto e gli spiegò:
«Hai avuto un arresto cardiaco. Per fortuna che sono riuscito a chiamare in tempo aiuto. Ti ho salvato le chiappe anche questa volta. »
Sapeva che le intenzioni di Ostroff erano buone, ma perché non l’aveva lasciato morire? Un senso di nausea attanagliò il suo stomaco, portando anche un senso di smarrimento e di delusione.
Ogni volta che si drogava era ben consapevole che si avvicinava di un passo alla morte, non si curava che poteva perdere la vita, poiché quella era la sua intenzione.
Sprofondò nel cuscino, in preda all’amarezza di essere ancora vivo, mentre il suo amico festeggiava per avergli salvato la vita. Che bella merda.
«Volkov è sveglio? Devo misurargli la pressione. » Si sentì una voce femminile che provenne dalla porta d’ingresso alla camera.
Ostroff dovette fare un cenno di assenso con la testa, perché subito gli si avvicinò quella che gli sembrò una dottoressa e delicatamente gli prese il braccio, scostando il lenzuolo che lo ricopriva.
«Sono in paradiso. » Quella frase uscì strana fra le sue labbra, tutta colpa della mascherina che aveva su. La ragazza si ritrovò a sorridere e Carter notò i suoi capelli rossi, che ricedevano a piccole ciocche fuori dalla cuffietta che indossava.
«Volkov non si agiti. » Ridacchiò lei quando gli prese la pressione, segnandola su un blocchetto quasi come quello degli appunti, dopo di ché uscì accompagnata da un leggero fruscio degli abiti.
«Quella ragazza me la farei, seduta stante. » Ostroff pronunciò quelle parole guardando il suo amico sul letto, con uno sguardo d’intesa.
 
 
***
 
 
Passarono i giorni e la situazione di Carter si stabilizzò, non usò nemmeno più l’ossigeno, scampato il pericolo. Per tutto il tempo Ostroff e Tim erano stati a vegliare su di lui, facendogli compagnia il più delle volte tutta la giornata, quando il loro capo ovviamente non gli aveva assegnato compiti.
Carter si sentì sollevato nel sapere che Severin aveva chiesto della salute del giovane, non affatto adirato con lui per non aver adempito uno dei compiti che gli erano stati assegnati.
Il ragazzo era stato sempre scaltro e furbo, nessuno eseguiva i compiti meglio di lui, anche perché Severin considerava Carter suo figlio, al punto da permettergli di adottare il suo stesso cognome.
Quando Carter uscì dall’orfanotrofio a sedici anni, era ancora sprovvisto di un cognome, che quelli dell’istituto avevano rilasciato sulla sua scheda il nome “Carter Kirov” poiché era il cognome che affidavano ai bambini meno fortunati, che come lui non avevano trovato una famiglia.
Carter Volkov era ciò che compariva sulla sua scheda, ai piedi del suo letto d’ospedale.
Da quel giorno, quasi due settimane prima, non aveva più rivisto quella dottoressa con i capelli rossi che aveva colpito la sua attenzione. Era bellissima e aveva qualcosa di familiare, che proprio non riusciva a dire dove l’avesse vista. Probabilmente si era portato a letto anche lei, alcuni mesi prima o semplicemente assomigliava a qualcuna che aveva portato a letto mesi prima.
Stava addentando un pezzo di carne in padella, seduto sulla sedia accanto al tavolino situato nella stanza dell’ospedale, quando entrò di nuovo quella ragazza, lei era vestita di rosa e spingeva un carrello delle pulizie.
«Non sei una dottoressa allora. » Disse il giovane appena ventiduenne tanto forte da far sobbalzare la ragazza che gli stava rifacendo il letto.
«No, sono un’infermiera. Veramente sto facendo tirocinio. » La sua voce era dolce e melodiosa. Parlava con calma e con un enorme sorriso stampato sul volto.
«Sembravi tanto una dottoressa. »
«In realtà volevo esserlo, però ho deciso di specializzarmi in infermeria. Mi piace prendermi cura delle persone. » Disse l’ultima frase volgendo il viso verso Carter e un bagliore s’intravide nei suoi occhi, che erano contagiati dal sorriso.
Carter si ritrovò a corrugare la fronte e visto che erano argomenti che non tanto gl’interessavano, si dedicò nuovamente al suo pranzo, finendolo tutto in tre bocconi enormi.
La ragazza spinse il carello verso di Carter e si affrettò a ripulire anche sul tavolo, raccogliendo il contenitore con il suo pranzo, quando la targhetta appuntata sul camice, catturò la sua attenzione.
Annabeth Blacknight.
Carter afferrò il polso della giovane e la costrinse a girarsi, in modo da guardarla bene in viso. Quegli occhi, quegli occhi che non avrebbe mai dimenticato.
«Anna, sei tu? » Gli chiese con una voce così stupita che si meravigliò anch’egli del tono che aveva avuto.
La giovane per un attimo apparve stranita da quella domanda, ma poi quando lo guardò negli occhi lo riconobbe.
«Oddio! Come ho fatto a non capirlo prima. » Scosse la testa e senza avere un attimo di tentennamento si gettò al collo dell’uomo e lo strinse a sé forte. «Carter, come ho potuto non riconoscerti prima. »
 
 
***
 
Dicembre, San Pietroburgo.
4 anni prima.
 
 
«Questo è per te. » Anna gli porse un regalo avvolto in una spessa carta da regalo rossa con dei campanellini d’oro.
Carter guardò il pacchetto e storse il naso. Non aveva mai avuto regali a Natale e quello era sicuramente insolito per lui. Era una delle festività che odiava, non che amasse tutte le altre, semplicemente quella era la più orribile, poiché gli riportava a galla tanti episodi spiacevoli.
Anna lo guardò con uno sguardò penetrante ed era una delle cose che più gl’incutevano timore.  Sbuffò e afferrò il regalo fra le mani della ragazza e si apprestò a scartarlo.  Vi trovò un modellino di una moto che amava più di tutte. Era stato un regalo davvero carino da parte sua, poiché da quando avevano cominciato ad uscire insieme, lei sapeva benissimo che era il suo sogno riuscire a comprare quella moto.
«Non posso comprartela, ma pensavo che fosse carino comprarla in miniatura… così puoi ricordare quali sono i tuoi scopi. » Disse lei prendendo dalle mani di Carter la moto e girandosela fra le mani, per prendere un bigliettino arrotolato nel piccolo tubicino di scappamento della moto, che porse poi all’uomo.
Lo raccolse fra le mani delicate della giovane e lo srotolò mostrando a Carter una pagina di un libro che lei gli leggeva quando si trovavano a Kirov.
Lui la guardò e sentì nuovamente il suo cuore battere come quel giorno che erano fuori in giardino esattamente il giorno che lei gli prese la mano e lo strinse forte.
Da quando aveva ritrovato Anna in ospedale, i due si erano rivisti diverse volte, per uscire e per parlare. Carter non aveva mai provato a portarsi a letto la ragazza, poiché ogni qualvolta che si prefissava di farlo, uno strano sfarfallio nel cuore lo faceva sentire a disagio. Così aveva completamente abbandonato l’idea e seppur non credeva nell’amicizia fra uomo e donna, i due erano diventati amici.
«Ehi, va tutto bene. » Sussurrò lei, inginocchiandosi ai suoi piedi.
Si trovavano nell’appartamento di Anna, al centro della città e avanti a loro c’era l’albero di Natale addobbato a festa. Ogni tanto si vedevano per parlare e per mangiare insieme, poiché lei era una cuoca bravissima.
Il ragazzo deglutì e cercò di alzarsi dal divano, ma si sentiva tutto un formicolio nelle mani e nei piedi, avvertendo anche un desiderio strano e assurdo di catturare le labbra di quella ragazza fra le sue.
Aveva avuto tante di quelle esperienze sessuali che ormai aveva perso il conto, però i baci erano una cosa tabù per tutti, forse perché inconsciamente gli ricordavano che Anna lo abbandonò subito dopo averlo baciato, anche se allora non capì quanto lei fosse in realtà importante per lui. In quel momento, avendola avanti agli occhi, capì quanto lei fosse indispensabile.
Era stata la persona che non l’aveva mai abbandonato in quel maledettissimo posto, era stata l’unica che nonostante sapesse della sua vita e delle sue azioni illegali, non era scappata via, ed era l’unica a fargli sentire quelle sensazioni.
Lei lo guardò negli occhi senza dire nulla, sorridendogli e mentre il suo sguardo era fisso sulle labbra carnose del ragazzo. Incerta alzò una mano, per posarla con cautela sul viso di Carter, senza distogliere lo sguardo dal suo.
«Va tutto bene. Sono qui. Sono qui. » Sussurrò lei sempre più vicina alle sue labbra, i capelli rossi che le incorniciavano il viso e il suo profumo che gli annebbiava i sensi.
«Promettimi che domattina sarai ancora qui. » Sussurrò il ragazzo dopo aver socchiuso appena gli occhi.
«Fin quando lo vorrai. Nessuno mi porterà via da te. »
Lui non aggiunse altro che ridusse le distanze e si avvicinò del tutto a Anna, poggiando le proprie labbra su quelle della ragazza, in un bacio che lo coinvolse in tutti i sensi. Quel bacio a distanza di tredici anni, era ancora come lo ricordava, come ricordava le labbra morbide di lei.
In un attimo quel bacio tenero si trasformò in foga, portando la ragazza a salire sulle gambe di Carter, assaporando ogni istante di quel bacio che via via si stava trasformando in mera passione.
Carter le afferrò i glutei con le mani e li strinse forte, facendo aderire completamente il petto della ragazza al proprio. Con un gesto, capovolse la situazione, portando la ragazza sotto di se. Le loro labbra ancora incollate, le lingue che si cercavano girando in tondo e una volta trovate non smettevano di giocare e allacciarsi. Carter era preso dall’eccitazione e dalla voglia di avere quella ragazza tutta per se, di sentire il suo respiro nel momento in cui avrebbero unito i loro corpi e sentito gli ansimi di lei, diventare sempre più rumorosi fino a quando insieme avrebbero solcato la soglia del piacere.
«Aspettavo da tredici anni questo momento. » Sussurrò lei con un sorriso e si abbandonò completamente all’uomo sopra di lei.
«Odio ammetterlo, ma anch’io. »
«Shh… fammi tua. » Sussurrò lei prima di catturare di nuovo il labbro inferiore di Carter e lasciare che le emozioni di quel momento facessero il loro corso.
 
 
***
 
 
Novembre, New York.
Today.
 
 
«Allora signori cosa pensate di questa casa? » Quella voce era così sicura di sé che Carter la odiò. Sbuffò mentre guardò fuori dalla finestra la strada trafficata al centro di NY, dove Kim aveva pensato – sotto comando di suo padre – di affittare casa, in modo da trovarsi nello stesso quartiere dei suoi genitori.
«Mi piace, è davvero carina. » Disse lei tutta contenta, poggiando una mano sulla sua pancia, che ormai era ben visibile. Si voltò verso Carter e lo chiamò per catturare la sua attenzione.
«Carter, allora cosa dici? »
Lui si strinse nelle spalle e guardò l’agente immobiliare in piedi davanti Kim, con la faccia speranzosa e quell’odiosa espressione cordiale che lo faceva risultare ancora più antipatico di quanto in realtà volesse sembrare.
«Basta che ci sono quattro mura. Non m’importa. » Tagliò corto il giovane, girovagando per l’appartamento che era vuoto. Le pareti erano rivestite di un’orribile carta da parati giallina, mentre sul pavimento vi era il parquet.
Guardò Kim che invece era felice di quella casa e immaginò che alla fine l’avrebbero affittata.
Erano passate tre settimane da quando Josh lo aveva tirato fuori dalla cella e d’allora era sotto stretto controllo, tanto che Josh aveva chiamato la padrona di casa di Carter dicendole che non avrebbe rinnovato il contratto d’affitto. Era praticamente fottuto.
Quelle erano le condizioni, finire in cella tutta la vita oppure passare il resto dei suoi giorni a fingere d’importarsene qualcosa di quella donna e di suo figlio.
«Bene allora avvierò le pratiche e in settimana vi faccio firmare tutto. Intanto queste sono le chiavi, la padrona di casa non ha problemi a cedervela prima. » L’agente allungò la mano porgendo le chiavi a Kim che le prese felice come una pasqua.
«Allora vi lascio. Buona serata signori Blacknight. »
«Non siamo sposati. » Lo corresse Carter con quella sua voce odiosa e dura, facendo rimanere un attimo in silenzio l’uomo e anche Kim che si fissò la punta delle scarpe.
Carter si avvicinò velocemente alla porta e la aprì, esortando l’uomo a uscire, che in quel momento prese al balzo l’invito e uscì senza aggiungere altro. La porta si richiuse dietro l’uomo con un sonoro rumore e il silenzio regnò fra i due giovani.
«Hai detto che eravamo sposati? » Domandò lui tagliente.
«No. Lo sai che non lo farei. » Sussurrò lei con una vocina piccola piccola.
«Bene. Sai che non lo faremo mai. Non ci sposeremo mai. Questo è sicuro. Meglio che se lo metta in testa anche tuo padre. » Proferì lui mentre si dedicò a fare un ennesimo giro per casa, guardando in tutte le stanze e convincendosi di farsela piacere, che poteva farcela.
«D’accordo. » Acconsentì lei e intanto lo seguì per casa, fin quando entrambi raggiunsero la stanza da letto.
«Carter, devo dirti una cosa. »
Lui si fermò al centro della stanza e la guardò in attesa, chiedendosi cosa mai avesse da dirgli.
«E’ un maschietto. » Lo disse con la gioia sul volto, che in un attimo si tramutarono in lacrime che fecero per un attimo sbuffare Carter. Lei si girò nascondendosi il viso con le mani.
Carter pensò che quella d’ora in poi sarebbe stata la sua vita, che quel bambino che lei portava in grembo era suo figlio e in un modo o nell’altro doveva prendersi cura di entrambi. Era sicuro che non sarebbe stato in grado di fare il genitore in alcun modo. Buttando all’aria tutti buoni propositi si avvicinò a lei e cinse la vita con le braccia, poggiando incertamente la sua testa sulla spalla della ragazza.
La sentì irrigidirsi per quel gesto improvviso, forse non credendo che lui avesse fatto qualcosa di carino per confortarla. Si girò per guardarlo negli occhi e ne approfittò per un attimo di poggiargli il viso sul petto, sentendo il suo respiro farsi sempre più irregolare. Carter s’irrigidì lui questa volta, non amava quelle effusioni gli sembrarono decisamente strane e fastidiose sotto un certo senso.
«Sono dispiaciuta. Io sono felice per questo bambino, ma sono dispiaciuta di aver rovinato la tua vita. Tu non lo vuoi e la tua infelicità non mi permette di essere felice. » Sussurrò le con le labbra premute contro il petto di Carter, potendo sentire anche la sua maglietta farsi via via bagnata dalle lacrime salate della ragazza.
Non poteva farci nulla, un bambino era ciò che lui non voleva. Non voleva quella vita e per quello che ne sapeva non ne avrebbe mai voluta una. In un attimo si permise di rompere la sua corazza e permettersi un unico pensiero positivo, dispiacendosi che la ragazza avesse fatto ciò ad un uomo così insensibile come Carter.
I suoi pensieri cambiavano natura così velocemente che un attimo dopo si riprese e pensò che chi fosse causa del suo male, doveva piangere se stesso.
Se quella era la vita che la ragazza voleva, che avesse incastrato l’uomo affinché lui la desiderasse con lei. Un’idea gli balenò in mente e decise di coglierla al volo. Avrebbe accolto i desideri della giovane, ma apportando le dovute modifiche. Il padre gli aveva imposto di stare con la figlia, non aveva specificato che nel frattempo doveva stare solo con lei.
Quel pensiero gli costò meno fatica di promettere alla donna di essere l’unica nella sua vita. Quasi si sentì più sollevato a meno restio a quell’idea, dopotutto avrebbe avuto sempre una scopata assicurata.


                                                         

 
 Questo capitolo è stato terribile perdonatemi. Prometto di fare di meglio la prossima volta. ç_ç
Sono partita bene e ho concluso malissimo.
Ad ogni modo, ringrazio di cuore:  niky_nylon; Khaimee95 e Hicetnunc95 che leggono tutti i miei capitoli e mi danno la spinta (?) giusta per continuare. Ringrazio anche tutti coloro che si limitano a leggere e anche chi ha inserito questa storia fra le liste! Grazie di cuore.

 
   
 
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