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Autore: Melian    04/08/2014    13 recensioni
"Olimpiade era, anche allora, una creatura selvaggia. In lei, demoni e dèi si agitavano senza posa [...]"
"Non c'era dubbio che la sua morte gli era tornata utile, accorsa nel momento più opportuno, quando la sua sorte e quella di suo figlio erano appese ad un filo smosso da una Moira capricciosa. Avrebbero potuto sparlare alle sue spalle e asserire che fosse stata lei ad armare la mano di Pausania e a sobillarlo, eppure nulla testimoniò mai un suo possibile coinvolgimento e le dicerie rimasero tali."
[Terza classificata al contest "Ci rivedremo a Filippi" di Chloe R Pendragon indetto sul forum di EFP]
[Terza classificata al contest "La vendetta è un piatto che va servito freddo" di Milla4 su EFP]
[Prima classificata al contest "As strong as a woman" di Sbasby sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
- Questa storia fa parte della serie 'Alexandros'
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LA SCELTA

 

 

“Non c'è vendetta più bella di quella che gli altri infliggono al tuo nemico.
Ha persino il pregio di lasciarti la parte del generoso.”

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 1935/50 (postumo 1952)

 

 

 

Olimpiade si affacciò alla balconata delle sue stanze, nuovamente padrona del palazzo reale di Pella dopo il lungo esilio in Epiro.
Era un'alba fosca, il cielo grigio era ingombro di nuvole e il vento secco che spirava dai monti le accatastava in una massa opprimente. La regina si strinse nel mantello: l'aria frizzante del primo mattino le lambì il viso e le sollevò i lunghi capelli scuri, lasciandoli garrire come uno stendardo.
Sembrava che anche il cielo volesse rispettare il lutto che si osservava in tutta la Macedonia per la recente morte di Filippo. La corte e l'esercito erano caduti in una improvvisa stasi, come il silenzio che precede lo scoppio di una tempesta: ben presto, infatti, si sarebbero dovuti fare i conti con la Grecia e con le tribù che si preparavano già a reclamare la propria libertà dall'egemonia macedone.
Ma, più di ogni altra cosa, presto il Consiglio si sarebbe riunito per eleggere ufficialmente il nuovo re, anche se l'esercito aveva già acclamato Alessandro, poco meno che ventenne e già fortemente amato.
L'assassinio si era consumato il giorno del matrimonio di Cleopatra, figlia di Olimpiade e Filippo, e la mano che aveva vibrato il colpo fatale era stata quella di Pausania, una delle guardie personali del re. Un delitto premeditato, senza ombra di dubbio, dato che un complice attendeva l'assassino con dei cavalli pronti per la fuga, benché Pausania fosse stato comunque raggiunto e trucidato dai soldati prima che potesse darsi alla macchia. Anche la fine dell'assassino era sembrata parte di un disegno più ampio, in cui il fautore materiale del delitto usciva di scena ed evitava che la sua scomoda testimonianza potesse rivelare più del necessario.
Era stato un crimine brutale, consumato sotto gli occhi scandalizzati di tutti, e qualcuno vociferava che Pausania avesse agito spinto dall'onta di una violenza subita da Attalo, genero del re, e mai vendicata da Filippo; altri che ci fosse lo zampino dei Greci o dei Persiani; mentre alcune voci riconducevano l'accaduto a ben altri intrighi e giochi di potere e sussurravano, con discrezione, il nome di Olimpiade.
La regina non se ne preoccupava, così come non se n'era mai preoccupata in passato quando, giovane e bella, era comparsa sulla scena e aveva rapito il cuore di Filippo, divenendo sua moglie e sovrana di Macedonia. Era stata guardata con la diffidenza che si riserva allo straniero e accolta dai borbottii dei vecchi aristocratici che inneggiavano ad un matrimonio con una donna dal verace sangue macedone. Aveva sempre combattuto quei pregiudizi a testa alta, senza mai lasciarsi condizionare, con il piglio di una vera regina.
La bella principessa epirota della schiatta dei Molossi, che si dicevano discendere dai mitici Neottolemo e Andromaca, era sempre stata volitiva e passionale, insaziabile e vorace, ammantata di un'aura di affascinante mistero per via della sua spiccata spiritualità, uno slancio religioso intriso di una profonda e conturbante sensualità. Danzava da un estremo all'altro, come se non potessero esserci zone grigie nei sentimenti, nelle relazioni, nella vita stessa. Come il fuoco che si alimenta del legno e finisce per consumarlo anzitempo, Olimpiade amava in modo assoluto, possessivo e logorante; in modo ancor più feroce, odiava. Ciò che desiderava, lo prendeva e lo legava a sé: la sua smisurata ambizione dettava senza posa il ritmo e la direzione dei suoi passi.

Era stata condotta a Pella da Filippo in persona, dopo la sua permanenza al santuario di Samotracia dove l'aveva incontrata: orfana di entrambi i genitori, ella aveva vissuto al tempio ed era stata iniziata ai Sacri Misteri fin dall'adolescenza.
Olimpiade era, anche allora, una creatura selvaggia. In lei, demoni e dèi si agitavano senza posa e tutta la sua energia e vitalità veniva appagata pienamente soltanto durante i riti dionisiaci nei boschi fuori dai recinti sacri del tempio, quando ingollava le bevande allucinogene in grado di indurre la trance, di liberare lo spirito dalla carne e farlo ascendere alle stelle, nella comunione con gli dèi e nella totale comprensione dell'essere. Allora, quando la sua mente veniva liberata dalle catene del corpo, tutto le sembrava improvvisamente chiaro e perfetto, ogni disegno assumeva la sua giusta geometria, ogni cosa acquisiva senso e lei poteva avvertire il sussurro segreto del grembo della terra.
Così, si recava nel cuore della foresta per abbandonare la propria ragione e scoprire la propria anima. A volte languiva ai piedi delle querce, immobile e assorta, senza bere o mangiare, non avendone nemmeno la necessità, e osservava il flusso incessante delle visioni che gli dèi le donavano. Altre volte, si abbandonava alle danze sfrenate dei riti orgiastici, dove i sacerdoti invasati si offrivano alla Grande Madre e si eviravano, donando alla Dea il proprio fallo perché fosse nuovamente fecondata in un ciclo senza fine. In quelle notti di fervore mistico, Olimpiade era una donna libera: giaceva con uomini di cui non sapeva nulla, si abbandonava con loro al parossismo fino a che finivano stremati in un groviglio di corpi ansanti. Ma lei non apparteneva a nessuno, se non a se stessa; come la Dea, padrona di tutti gli uomini, e sottomessa a nessuno.

Quando aveva incontrato Filippo, giovane e focoso re dei Macedoni, era cambiato tutto. Erano stati colpiti da una freccia scoccata da un arciere portentoso e che si era piantata profondamente nei loro cuori. Il loro era stato amore vero, un amore selvaggio e inconcepibile come possono essere solo gli amori giovanili e che li aveva arsi fin dal primo istante, unendoli in una spirale di desiderio tormentato e caotico. Lui l'aveva strappata dal tempio e l'aveva sposata.
Il matrimonio assolveva, però, anche ad una funzione meramente politica: si intrecciavano gli intenti di Macedonia ed Epiro e Filippo si assicurava in Arriba, zio di Olimpiade, non solo un nuovo parente, ma anche un nuovo alleato.
Olimpiade, che possedeva la scaltrezza e l'ingegno delle donne di potere, questo lo sapeva benissimo e ne tenne sempre in gran conto: Filippo non era solo un uomo innamorato, ma anche un uomo scaltro e avvezzo alla politica, un guerriero lungimirante e privo di scrupoli, un calcolatore capace di una risoluta freddezza. Era una belva della sua stessa risma, una di quelle che cercano anime ugualmente forti, che vogliono dominare sugli indomabili e piegare ai propri intenti ogni situazione.
I primi anni di matrimonio, comunque, furono felici: Filippo la amava e lei lo trascinava in torbide danze di passione, lo irretiva con il proprio corpo e la propria piacevole compagnia, gli offriva il proprio consiglio sugli affari di stato e lo aspettava al ritorno delle campagne di guerra.
Infine, gli aveva dato un figlio: Alessandro, legittimo erede al trono, e una bambina, Cleopatra.

Purtroppo, anche simili grandi amori sono destinati ad estinguersi. La freccia che ne aveva infilzato i cuori, ora li aveva trafitti con un veleno infido che segnava la loro intima separazione. Divennero, senza quasi accorgersene, nemici. Olimpiade non aveva mai abbandonato la sua religione e, anzi, partecipava ai riti orfici e dionisiaci con cadenza regolare. Amava i serpenti e se ne circondava, tanto che ne teneva in gran numero nelle proprie stanze, in ampie ceste o liberi di strisciare sul pavimento. Qualcuno insinuava anche che la regina con quelle bestie vi giacesse, che in realtà lei fosse una strega e che con le sue malie poteva operare prodigi o fatture a proprio capriccio, servendosene per eliminare coloro che osavano osteggiarla.
Filippo non amava i serpenti e ancora meno amava il piglio ribelle che, con gli anni, non solo in Olimpiade non si era attenuato, ma si era addirittura accresciuto. Forse, il motivo vero per cui prese ad evitare il suo letto e ad esautorarla dell'autorità e del potere, fu proprio il fatto che Filippo non era riuscito a domarla. Lui, che era stato nominato comandate supremo degli eserciti di Macedonia e della Lega di Corinto, quindi di tutte le città greche unite contro il Gran Re di Persia, non aveva avuto ragione di una donna dall'ambizione smisurata quanto la sua e pericolosa quanto i serpenti che si portava dietro come collane.
Il re, inoltre, scorgeva chiaramente quanto ascendente avesse Olimpiade su Alessandro. Negli occhi del figlio vedeva la madre, la sua stessa brama: un daimon che smaniava, il desiderio di andare oltre ogni limite, una mente instancabile e mille domande in cerca di risposte che lui non sapeva offrirgli per poterlo placare. Eppure, Alessandro aveva ereditato anche la maggiore propensione alla ragione e alla strategia di suo padre, e il risultato era una personalità singolarmente bilanciata, fatta di un raffinato sistema di contrappesi, corde che se tese ed equilibrate, lo avrebbero trasformato in un uomo straordinario capace di cambiare il mondo. O avrebbero potuto farne il suo distruttore. Fu per questo che Filippo lo aveva spedito a Mieza, da Aristotele, perché venisse educato lontano dalle influenze della madre.
Il rancore di Olimpiade nei confronti del marito, quindi, crebbe, covato come un germe oscuro nel silenzio delle notti trascorse da sola, in un letto che un tempo vedeva audaci giochi d'amore e negli splendidi cortili dove aveva giocato con suo figlio, quel figlio che per lei era il bene più prezioso e di cui le avevano predetto il grandioso destino prima ancora che nascesse. Filippo le aveva portato via l'amore, il potere e anche Alessandro. Eppure lei restava la regina e la madre dell'erede al trono, e questo nessuno poteva toglierglielo, almeno così credeva. Un errore di valutazione fatale.


Il re, infatti, dopo anni, aveva deciso di prendere una nuova moglie, una donna che faceva vacillare la terra sotto i piedi di Olimpiade, perché era di sangue macedone e, inoltre, discendente da una delle famiglie più potenti e antiche di Macedonia, aveva dunque l'apprezzamento delle famiglie aristocratiche e conservatrici: Euridice, nipote di Attalo, uno dei comandanti dell'esercito che avrebbe dovuto lanciarsi con Filippo alla conquista della Persia.
Olimpiade sentì lo strale della gelosia colpirla con inaudita potenza e, inaspettata, la colse persino paura: sarebbe stata definitivamente messa da parte e, inoltre, se il figlio che Euridice portava in grembo fosse stato un maschio, Alessandro non sarebbe mai diventato re.
Quella ragazza che non aveva, a conti fatti, nessuna particolare ispirazione o dote, a parte un visino grazioso e un corpo fresco, mero strumento nelle mani dello zio avido di potere, le stava costando tutto ciò che aveva faticosamente costruito.
La regina si scoprì colma di risentimento che, ben presto, divenne odio cocente. Tutto le stava sfuggendo dalle mani per una stupida cotta di Filippo. E Filippo come poteva farle questo? Quante umiliazioni le avrebbe ancora inflitto? Con quanta ferocia le avrebbe fatto ancora la guerra?
Olimpiade non riuscì mai ad accettare quello smacco, poiché – in cuor suo – non accettava di poter essere messa in discussione o, peggio ancora, rifiutata e sostituita. Il suo orgoglio non poteva nemmeno prendere in considerazione quell'eventualità. E se Filippo voleva davvero distruggerla, Olimpiade non si sarebbe certo lasciata sopraffare senza lottare.
I suoi timori, però, divennero più neri quando, al matrimonio di Filippo ed Euridice, Attalo ed Alessandro vennero agli insulti e lei dovette sopportare ancora una volta l'umiliazione di essere trattata come una straniera nelle terre che governava da vent'anni e il dolore di Alessandro nell'essere considerato un figlio bastardo. Quell'affronto fu, probabilmente, la goccia che fece traboccare il vaso della sua pazienza.

Ma ormai Filippo non c'era più. Non c'era dubbio che la sua morte le fosse tornata utile, occorsa nel momento più opportuno, quando la sua sorte e quella di suo figlio erano appese ad un filo smosso da una Moira capricciosa. Avrebbero potuto sparlare alle sue spalle e asserire che fosse stata lei ad armare la mano di Pausania e a sobillarlo, eppure nulla testimoniò mai un suo possibile coinvolgimento e le dicerie rimasero tali.
Certo, Pausania era stato lo strumento che aveva consumato anche la vendetta di Olimpiade contro Filippo, il che la rendeva vincitrice su tutta la linea. Non solo non aveva le mani sporche di sangue, ma adesso aveva un ostacolo in meno da aggirare per perseguire i propri scopi.
Olimpiade, comunque, quella mattina, mentre osservava la lontana e sfumata linea dell'orizzonte, si sentiva incredibilmente leggera. Niente e nessuno avrebbero potuto fermarla, adesso.
Sul trono di Macedonia avrebbe visto sorgere la luminosa stella di Alessadro, il figlio di Zeus, il Ricettacolo di Amon. In lui, Olimpiade avrebbe potuto appagare la sua smania: Alessandro avrebbe realizzato anche i suoi sogni di gloria, avrebbe conquistato il mondo che gli spettava di diritto e si sarebbe innalzato al di sopra di tutti gli uomini del suo tempo, scalzando persino la memoria dello stesso Filippo. Alessandro ignorava ancora i meccanismi del potere e della politica che, invece, Olimpiade conosceva magistralmente, avendoli coltivati per anni con una ricca rete di influenze e risorse. Se lui non concepiva la possibilità di tradimenti e congiure in seno alla propria famiglia e al consesso di amici, Olimpiade teneva i piedi per terra e sapeva perfettamente che il tradimento più grande poteva venire proprio da chi gli fosse stato maggiormente vicino.
Avrebbe fatto semplicemente quello che doveva per mettere una definitiva ipoteca sulla salita al trono di suoi figlio e per consolidare la sua posizione di regina madre: intimamente, assaporava già il gusto succoso della vendetta.

Di colpo, si riscosse dai suoi pensieri, lasciò che il chitone si gonfiasse al vento e che esso le infilasse le dita sotto la stoffa, facendole scorrere fredde e corroboranti lungo il suo corpo ancora desiderabile, procurandole un fremito. Assaporò la sensazione di libertà e sorrise.
Sapeva che di lì a poco il palazzo si sarebbe svegliato, i servi avrebbero acceso i forni nelle cucine e avrebbero attinto l'acqua al pozzo, che ci sarebbe stato il cambio della guardia e che, soprattutto, la nutrice sarebbe corsa al capezzale di Europa, la figlia di Euridice, per darle la poppata del mattino.
Tornò nelle sue stanze; dietro di lei i veli sottili dei tendaggi ondeggiarono. Si chinò su una delle ceste e tolse il coperchio: due occhi brillarono sul fondo scuro, poi il serpente si sollevò, sibilando. Si fece raccogliere dalle mani calde della sua padrona senza opporsi, dolcemente.
Pochi istanti dopo, un lamento di donna risuonò negli appartamenti poco lontani, destinati a Euridice. Quello era il momento che stava aspettando.
Olimpiade, ome se nulla la toccasse, si infilò nella stanza della donna e chiuse la porta a doppio battente alle proprie spalle, senza far rumore.
Europa giaceva nelle sue fasce, gli occhi chiusi e i pugnetti stretti, morta. Euridice era accanto alla bambina, muta, gli occhi arrossati e gonfi di lacrime.
I passi lenti e sinuosi di Olimpiade echeggiarono nella camera ed Euridice la fissò con un odio profondo e una paura immensa, tremando accanto alla culla della figlioletta senza vita. «Sei stata tu», la accusò.
Olimpiade accennò ad un sorriso amabile, tuttavia non rispose, se non con uno sguardo intriso di consumata malizia. «Povera bambina sprovveduta, pensavi davvero che senza la protezione di Filippo avresti anche solo potuto pensare di intralciare il mio cammino?» le chiese alla fine, in tono retorico.
Sul suo collo, il meraviglioso aspide dalle scaglie lucenti sollevò il capo e fissò Euridice con i suoi occhi penetranti e gelidi; fece saettare la sottile lingua biforcuta, saggiandone l'odore come se fosse una comunissima preda. Olimpiade gli accarezzò il capo con la guancia, piegando vezzosamente il capo di lato, senza remore.
Euridice rimase muta, rimase inerme, inginocchiata sul pavimento a fissarla come se Olimpiade stessa fosse una serpe. «Strega, hai ucciso la mia bambina con uno dei tuoi malefici!», lamentò di nuovo, con la voce tremante. «Cosa vuoi adesso? Uccidere anche me?»
Olimpiade sorrise indulgente e si strinse nelle spalle. «Ucciderti? Mia cara bambina, non mi sono mai sporcata le mani di sangue in vita mia e non comincerò adesso», fece una pausa calcolata, mentre sollevava il serpente e si faceva scorrere le sue spire tra le dita. Poi, con la ponderatezza di una regina magnanima davanti al più misero dei suoi sudditi, allungò l'aspide e lo porse alla sua giovane rivale.
«Io ti offro la scelta», sentenziò.
Euridice non osò fiatare, ma lesse nello sguardo della donna che aveva di fronte una determinazione assoluta: non le avrebbe mai lasciato scampo. Le strappato la figlia e già solo quel dolore era insopportabile. Filippo non poteva proteggerla e suo zio Attalo era troppo lontano, impegnato in guerra, per garantirle la sopravvivenza. Anzi, lei non lo sapeva, ma un medesimo destino sarebbe calato anche su Attalo, accusato di alto tradimento. Un disegno terribile prendeva man mano forma, una rete dalle maglie strette era stata tessuta e circondava, soffocandoli, i nemici della regina di Macedonia.
La scelta che Olimpiade le offriva era tra accogliere la morte con le proprie stesse mani o consumarsi nell'attesa e nella paura di venire uccisa da qualcun altro, nell'indifferenza e nella brutalità, quando meno se lo sarebbe aspettata e di impazzire contando i giorni che la separavano dall'Ade. Allora, scelse. Scelse almeno l'onore di porre fine al suo dolore con le proprie mani, comprese che non avrebbe potuto rivaleggiare con una donna simile o sperare di vincerla: le sembrò che Olimpiade fosse altissima, una Gorgone dal cuore ardente che nulla avrebbe potuto spegnere e che avrebbe consumato chiunque avesse provato a fermarla. Allora, vedendo di non avere scampo, afferrò tra le dita tremanti il serpente; l'animale avvertì la sua paura, arrotolandosi rapidamente attorno al suo braccio, in una presa ferrea.
L'aspide fece dondolare la testa, strisciò su di lei fino alla spalla e, nel tempo di un respiro della donna tremante, fece saettare il capo come una freccia e inflisse il suo morso. Fu come la trafittura di una freccia scoccata a folle velocità ed Euridice provò l'orrenda sensazione del veleno che si insinuava in lei, come olio bollente. La donna lanciò un gemito soffocato e cadde preda delle convulsioni, la schiuma alla bocca, gli occhi sbarrati.
L'ultima cosa che vide fu il volto della spregiudicata Olimpiade, un volto meraviglioso e austero, dove troneggiavano occhi accesi da un incredibile fuoco interiore e un sorriso compiaciuto, il sorriso generoso di chi, le mani ora e sempre linde da quell'ennesima morte che aveva istigato e desiderato, assapora la propria rivalsa.

 

 

 


 


 


 


 



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Note dell'autrice:

questa storia è stata scritta per il concorso: “Ci rivedremo a Filippi”, indetto da Chloe R Pendragon sul forum di EFP ed è la vincitrice del TERZO POSTO.

Il pacchetto utilizzato è: “Freccia-->Non c'è vendetta più bella di quella che gli altri infliggono al tuo nemico. Ha persino il pregio di lasciarti la parte del generoso.

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 1935/50 (postumo 1952)”

Il racconto riprende alcuni eventi della vita di Olimpiade, moglie di Filippo II di Macedonia, e madre di Alessandro Magno, anche se non tutti, in quanto ebbe un'esistenza piuttosto lunga e sopravvisse persino al figlio, imbastendo lotte di potere contro i generali che si erano spartiti l'enorme territorio conquistato da Alessandro stesso.
Ancora oggi, non è stato chiarito con accuratezza il ruolo di Olimpiade nell'assassinio di Filippo, malgrado si siano avanzate diverse ipotesi e, dunque, non mi sono arrogata il diritto di dare per valida nessuna teoria, per quanto ritenga che senza dubbio Olimpiade abbia ampiamente beneficiato della morte del marito.
Quel che è certo, comunque, è che abbia fatto uccidere la figlia di Euridice e Filippo, Europa, e che abbia voluto la morte della sua rivale. Anche qui, le teorie non sono certe e c'è chi ritiene l'abbia fatta uccidere o ne abbia indotto il suicidio. Ho optato per la seconda teoria, in questo caso.
Per amor di precisione, la morte di Euridice avviene dopo l'anno 336, quello della morte del re, ma anche qui non c'è assoluta certezza e ho preferito incastrare l'evento in un periodo relativamente più vicino alla morte stessa di Filippo.

Nella speranza di avervi offerto una lettura piacevole,


Melian

 

   
 
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