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Autore: habanerossosangue    06/08/2014    3 recensioni
«Diamine, che sorpresa!»
«Kiba.»
Quattro lettere, due sillabe, un nome. Le bastò che pronunciasse solo un nome per riconoscere quella voce, più grave, più strisciante, ma pur sempre la sua. Afferrò la maniglia della porta, reggendosi ad essa. Poggiò la fronte sullo strato di legno che la separava da lui. Trattenne il fiato, mentre ascoltava quella tonalità di voce che ogni notte la cullava. Un macigno nella bocca dello stomaco la stava schiacciando. Voleva svuotarsi da quel dolore, voleva rimettere tutta quella sofferenza che si era assopita e che stava ancora cercando di superare. Ricordi lontani si fecero largo nella sua mente, ancora nitidi, ancora palpitanti nel suo cuore.
Genere: Erotico, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Choji Akimichi, Ino Yamanaka, Kiba Inuzuka, Shikamaru Nara, Yoshino Nara | Coppie: Kiba/Ino, Shikamaru/Ino, Shikamaru/Temari
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
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«Non possiamo. Smettila!»
Una risata uscì dalla rosea bocca quando sentì la lingua del ragazzo farsi largo tra l’incavo dei suoi seni. Gli afferrò i capelli spettinati, cercano di rimanere con la mente lucida. Era sempre rimasta impotente a quel desiderio che traspariva dal suo corpo e da quello del compagno.
«Ba…sta!» disse spingendolo con forza.
Lo guardò rossa in volto e trovando quel poco di lucidità per riuscire a pronunciare correttamente una parola dietro l’altra.
«Di cosa ti preoccupi? Se entra qualcuno lo sapremo dal campanello nella porta e poi…» continuò avvicinandosi al suo orecchio «…c’è Akamaru che controlla se qualcuno entra in negozio…»
La sua voce divenne più rauca e quando le succhiò lobo dell’orecchio Ino non riuscì più a trattenersi. Gli saltò addosso con prepotenza, cingendogli i fianchi con le gambe ed aggrappandosi alle spalle. La fece sbattere la schiena contro lo scaffale pieno di piante facendo tremare qualche vaso. Gli graffiò la schiena nuda che pochi minuti fa era coperta dalla maglietta bianca finita da qualche parte in quel magazzino di fiori; sentì le zanne canine morderle il collo sensualmente facendole inarcare la schiena; posò una mano sul suo sedere scolpito, premendo vogliosa di qualcosa di più; sentì la sua erezione premere sotto la gonna. Lo guardò per un attimo negli occhi scuri, rispecchiandosi in essi e trovando il desiderio che stava logorando il ragazzo davanti a lei. C’era qualcosa in quello sguardo che la fece vacillare prima di sprofondarsi nelle sue labbra. Trovò una certa familiarità in quella luce nei suoi occhi che già prima aveva incontrato, ma non ricordò quando. Erano pronti a consumare quel desiderio assopito, ma il guaito di Akamaru li ridestò dal piacere crescente.
«Te l’ho detto sin da subito che era inutile.» ribadì divertita e ansimante.
-
Erano anni che non metteva piede in quel villaggio, eppure era stato lui stesso a giurare, durante la guerra, che sarebbe stato tra le prime file per mandarlo avanti come fece suo padre. Perché aveva cambiato idea? Perché ad un certo punto partì senza più farsi rivedere?
«Nara Shikamaru! Fermati immediatamente!»
Sobbalzò quando sentì una voce squillante dietro di sé. Ricordi gli si inondarono la mente al suono di quella voce e un brivido gli percorse la schiena. Aveva sperato fino all’ultimo momento di non incontrare nessuno dei suoi vecchi amici o conoscenti. Voleva svolgere silenziosamente il suo compito per ordine del Kazekage per poi riandarsene. Come se non ci fosse mai tornato.  Ma come ha potuto dimenticarsi dell’unica donna che gli ha donato la vita? Si voltò col viso colpevole che nascondeva però la felicità di rivederla dopo tutti quegli anni.
«Mamma…» sussurrò al vento, con un sorriso sincero sulle labbra.
Vide il suo solito cipiglio severo trasformarsi in un ampio sorriso. La madre buttò a terra incurante le buste della spesa e corse ad abbracciarlo. La strinse forte, sentendo le costole contro le braccia, si fece travolgere da quell’ odore di cucinato e pulito, appoggiò il viso sulla spalla cullandosi, come faceva da ragazzo, da quell’ affetto materno che solo lui riceveva. Un pugno gli arrivò in piena schiena facendolo scoppiare a ridere prima di staccarsi dall’ abbraccio per vederla in volto. Yoshino stava invecchiando. Fu costretto a dimenticarsi per il momento del suo vitale compito, come lo definiva la madre, per dedicarsi a lei. Fu sovrastato di rimproveri per averla lasciata da un momento all’altro, senza avere sue notizie se non il giorno stesso della sua partenza, ripetendo che era un disgraziato di figlio, per aver abbandonato l’eredità di suo padre, per averla lasciata con la responsabilità di una parte degli affari del clan e della cura dei cervi. Arrivati a casa però cambiò decisamente umore e sistemando la spesa cominciò ad inondarlo di domande sulle sue condizioni a Suna, del suo lavoro, se sopportava il clima, se mangiava correttamente, persino della sua vita sentimentale cosa che non volle rispondere nemmeno in vie generali. Al contrario Shikamaru non fece alcuna domanda se non per sapere se stesse bene e se fosse riuscita a gestire senza di lui le questioni del clan. Non aveva intenzione di venire a conoscenza di nulla di Konoha e dei suoi abitanti e il motivo era ben nascosto in una remota parte della sua mente. Si sentì in colpa per quello che si era lasciato alle spalle, da cosa era fuggito, cosa aveva abbandonato così su due piedi, senza lasciare il tempo alle persone care a metabolizzare la notizia. Perché? Ancora il suo cervello non riusciva a trovare la risposta.
Per volere del destino, del fato o solo coincidenza Choji quel giorno passò da casa Nara per visitare la signora Yoshino e i due vecchi amici d’infanzia si riunirono dopo cinque anni. 
«Shikamaru?! Sei proprio tu?!» esclamò entrando in cucina.
«Choji!» Rispose sorpreso tanto quanto l’amico.
Si guardarono qualche secondo meravigliati dall’ inaspettato incontro prima di salutarsi con un sincero abbraccio.
«Quanto tempo! Non sei cambiato di una virgola!»
«Nemmeno tu, vecchio mio!» disse divertito, dandogli qualche pacca sulla pancia.
Dovette rispondere nuovamente alle stesse domande che la madre gli porse poco fa, mentre bevevano tutte e tre una tazza di thè caldo. Dileguò anche il discorso del perché tanta distanza da parte sua, perché non si era fatto sentire nemmeno con una singola lettera. Non conosceva lui stesso la risposta.
«Non hai incontrato ancora nessuno dei nostri vecchi amici?»
«No. sono arrivato più o meno due ore fa e non posso fermarmi a lungo. Domani mattina – al massimo pomeriggio – sono di ritorno a Suna.»
«Non so che questione urgente devi fare, ma un giorno in più potresti rimanere sicuro! Ne parlerò col maestro Kakashi più tardi, così possiamo organizzare qualcosa insieme agli altri. Sicuramente saranno felici di rivederti!» si propose immediatamente Choji.
«No Cho…»
«Choji, prima che me ne dimentichi!» lo interrupe la madre «Tieni un po’ di questa frutta! Ieri Ino è passata e ne ha portata così tanta che da sola non la posso finire e sarebbe un peccato! Portala a casa. »
Gli si congelò il sangue al sentire pronunciare quel nome, e gli divenne la testa improvvisamente pesante immaginando che in quella stessa stanza, esattamente il giorno prima, lei ci aveva messo piede e magari si era anche accomodata nello stessa sedia in cui era seduto lui. Abbassò lo sguardo sulla sua tazza, stringendo le mani intorno ad essa come per sorreggersi, affogando in dei ricordi offuscati sulla superficie della bevanda.
«Come sta?» sentì chiedere, rimanendo perplesso.
«Bene. La conoscete, la solita attiva -iperattiva -, chiacchierona Ino. Meno male che si è tolta dalla testa di fare tutte quelle stupide diete! Sta proprio una favola adesso! Se non era per lei e te, Choji, mi sarei sentita molto sola in questa casa.» concluse evidenziando l’ultima frase e fulminando con lo sguardo il figlio.
Shikamaru però non ci fece caso in quanto immerso nei suoi pensieri annegati, morti in quella tazza che continuava a stringere tra le mani. Alzò poi lo sguardo verso l’amico e a quest’ultimo non sfuggì il suo turbamento.
«Come mai lo chiedi?» domandò con voce controllata.
«Non è più come prima Shikamaru.» rispose solamente l’amico facendo intendere che era tutto cambiato dalla sua partenza. Per rispetto, non volle approfondire cosa stesse succedendo nel suo animo. Potevano essere passati anni, ma Shikamaru rimaneva pur sempre il suo migliore amico e sapeva leggergli dentro con la stessa facilità di un tempo.
«Vi saluto. Non posso più oziare. Il lavoro chiama.» disse atono per poi uscire da quella casa diventata troppo soffocante.
L’unica sua destinazione doveva essere il palazzo dell’Hokage per poi andarsene, fuggire da quel villaggio opprimente. Persino l’aria di quel luogo gli faceva bruciare i polmoni. Con passo veloce attraversò le strette vie di Konoha col proposito di non incontrare nessuno, mentre estraeva una sigaretta dall’apposito pacchetto. Se la portò alle labbra assaporando quell’ossigeno che non respirava da prima di intraprendere il viaggio. Un immagine sfuggente di una lunga coda di cavallo gli fece cambiare strada. Doveva incontrarla.
-
«Diamine. Lo sapevo. Te-»
«Me l’avevi detto si, si Ino lo so. Adesso trova quella cannoniera che indossavi sotto questa specie di maglione chilometrico.» disse tra una risata e l'altra.
«Si chiama cardigan, cardigan santo cielo.» scoppiò a ridere inciampando poi in una pianta a terra e facendola cadere. Fece uscire dal magazzino prima Kiba, dicendogli di intrattenere il cliente in modo che avesse più tempo per sistemarsi.
«Diamine, che sorpresa!»
«Kiba.»
Quattro lettere, due sillabe, un nome. Le bastò che pronunciasse solo un nome per riconoscere quella voce, più grave, più strisciante, ma pur sempre la sua. Afferrò la maniglia della porta, reggendosi ad essa. Poggiò la fronte sullo strato di legno che la separava da lui. Trattenne il fiato, mentre ascoltava quella tonalità di voce che ogni notte la sognava. Un macigno nella bocca dello stomaco la stava schiacciando. Voleva svuotarsi da quel dolore, voleva rimettere tutta quella sofferenza che si era assopita e che stava ancora cercando di superare. Ricordi lontani si fecero largo nella sua mente, ancora nitidi, ancora palpitanti nel suo cuore.
«Non capisco proprio perché ti sei ritirato. L’avevi praticamente sconfitta. Potevi dimostrare che noi della Foglia siamo più forti della Sabbia.»
«Non tormentarmi. Sarebbe stata una seccatura vincere contro una donna.»
 
«Se non fosse stato per Temari, sarei stato nelle stesse condizioni di Choji se non peggio.»
«Shikamaru Nara che si innamora follemente della sua eroina!»
Disse Ino in modo teatrale, ma il compagno ignorò quella punta di ironia.
 
«Shikamaru! Vuoi fare colazione con noi?»
Chiese Choji, in compagnia di Ino, quando incontrò l’amico per strada.
«No, grazie. Ho già mangiato insieme a Temari.»
 
«Devo proprio andare. Domani mattina devo partire per una missione.»
«Fammi indovinare, destinazione: Villaggio della Sabbia.»
«Si. Come fai a saperlo? Solo in pochi ne sono a conoscenza.»
«Fortuna.»
Rispose tranquillamente la compagna, rivolgendogli un sorriso tirato.
 
Si impose di respirare regolarmente, mentre le vorticavano davanti agli occhi tutti quei ricordi. Ricordi che non disseppelliva da tempo, troppo tempo, ma che facevano male come se fosse tornata indietro in quel periodo. Serrò gli occhi e strinse i denti per darsi coraggio. Abbassò la maniglia pregando che Kiba le sarebbe rimasto accanto.
-
Entrò nel negozio di fiori titubante, con le mani tremati e la prima cosa che vide fu Akamaru che un secondo dopo gli saltò addosso leccandolo in viso. Passò qualche minuto prima che da dietro il bancone della cassa comparisse Kiba decisamente cambiato, decisamente più robusto, più muscoloso, più allenato, più bello – perché si, Shikamaru aveva sempre invidiato quella sua naturale bellezza canina – e decisamente in disordine: maglietta bianca stropicciata e sporca di terriccio, capelli alla rinfusa con una foglia verde attaccata, labbra arrossate e tracce di rossetto sul collo. Lo squadrò di sfuggita da capo a piedi cercando di non aggrottare le sopracciglia quando vide il cavallo dei pantaloni leggermente alzato. Non ci vollero più di due secondi a capire quello che stava succedendo prima che entrasse, quello che aveva interrotto prima che entrasse. Kiba cercava di essere amichevole facendogli domande sulla sua vita al Paese del Vento, ma lui era così accecato dal pensiero che quel cane l’abbia anche solo sfiorata con quelle zanne da rispondere a monosillabi e far cadere la conversazione in un attimo. Poi ecco il diavolo, l’odiosa tempesta, che entra in scena tranquillamente, appoggiandosi con i gomiti sul bancone della cassa. La guarda, la osserva, la fissa mentre ancora Kiba parla, rivolgendosi ad entrambi ed entrambi persi nei loro pensieri, nei loro ricordi. Non hai avuto nemmeno la decenza di sistemarti dopo aver fatto porcherie nel tuo stesso negozio. Canottiera fuori dalla gonna, una manica del cardigan arrotolata al contrario dell’altra, il rossetto rosa quasi consumato su quelle labbra sottili e sbavato ai lati; i capelli corti, sciolti arruffati come se si fosse svegliata in quel momento. Capelli corti. Ino si era tagliata quella chioma bionda con cui un tempo si avvinghiava per assaporarne la morbidezza e il profumo. Incontrò i suoi occhi chiari – l’occhio che non era coperto dal ciuffo -, quelle pozze in cui un tempo annegava e moriva con tanta facilità. Più la guardava più vedeva i tuoni divampare attorno ad Ino attraendolo da tanto rumore, da tanta forza, da tanta energia che emanava. E mentre la osservava folgorato, i ricordi legati a lei gli vorticavano davanti agli occhi allontanandosi dalla realtà e abbandonandosi al passato ancora una volta.
Era sempre stato affascinato da lei, sin da bambino, sin da quando metteva quel ridicolo fermaglio a forma di fiore fra i capelli. Era un uragano, una tempesta che trascinava e distruggeva qualunque cosa toccasse, ma aggraziato ed elegante allo stesso tempo. E  tutte le immagini di lei, che cresceva di anno in anno, che diventava sempre più bella, gli si sovrapponevano nella mente, fin ad arrivare ai ricordi di loro due prima come compagni di squadra, poi come amici e amanti e per finire come dei perfetti estranei senza cercarsi, senza parlarsi, senza nemmeno guardarsi. Ebbe un leggero capogiro quando diversi ricordi delle notti passate con lei nella sua camera, tra le sue lenzuola, tra le sue gambe, gli offuscarono la mente. Ricordò la finestra che si apriva lentamente ogni volta che bussava in equilibrio dall’ albero di fronte, il suo pigiama viola attillato, i suoi capelli lunghi – esageratamente lunghi – che le coprivano la schiena; le sue mani sul suo corpo nudo che lo carezzano, che lo graffiano, che lo torturavano; le sue gambe lunghe e snelle che si avvinghiavano alla vita come fosse un felino; le sue labbra morbide che gli donavano piacere in ogni parte lo toccasse; i suoi ansimi quando entrava in lei con prepotenza e il calore che gli trasmetteva ogni volta; il suo viso accaldato, rosso con gli occhi serrati per godersi quegli incontri segreti, ignoti al resto del mondo; il sapore della sua pelle diafana quando la leccava estasiata; la sensazione di stringere i suoi seni, i suoi glutei, le sue cosce, di stringere tra le mani quei capelli lisci, stupendi, che gli sembravano brillassero al chiarore della luna quando stava arrivando l’amplesso; i loro baci mai stati casti, mai stati dolci, ma prepotenti, passionali, dolorosi; i succhiotti che puntualmente le lasciava vicino ai seni o sulle cosce e quelli che lei puntualmente, di ricambio, gli mollava dove le capitasse, persino nel polso. Si ricordò di tutte quelle volte che entrò in quella stanza, arrabbiato, confuso, stanco, annoiato, triste, sofferenze, per sfogarsi, per svuotarsi, per scaricare ciò che provava su di lei, sul suo corpo. Come la prima volta quando era morto il loro maestro, quando usurpò la sua verginità, senza meritarselo perché non l’amava, perchè non si amavano. Da quella notte si abituò alla sua essenza, alla sensazione e al piacere che gli procurava quando gli donava tutta se stessa e non riuscì più a farne a meno. La sfruttava per egoismo, per essere in pace con se stesso, per liberarsi dei suoi tormenti momentanei o semplicemente perchè aveva voglia di fare sesso. E nonostante si sentisse in colpa, ritornava da lei bisognoso del suo odore, del suo sapore, dei suoi baci, del suoi gemiti, dei suoi occhi che lo fissavano ogni volta che si rialzava silenzioso dal letto o dal pavimento per  recuperare i vestiti sparsi per la camera. Quegli occhi che lo giudicavano –  perché si, sapeva perfettamente che lo giudicavano – per quello che ricercava ogni volta: una semplice scopata. E il senso di colpa rinasceva, sempre più pesante da reggere, ma mai abbastanza da rinunciare a lei.
Continuò così, a lungo- o forse no -, fino a quando non si rese conto che cominciarono a mettersi in mezzo i sentimenti. I sentimenti non verso Ino, ma verso un’altra donna, un’altra bionda, più grande di lui, provocatrice, seducente, astuta, serena, silenziosa. Di giorno c’era Temari, il sole delle sue giornate che ogni volta che si incontravano i sentimenti verso di lei crescevano senza controllo; di notte c’era Ino, la tempesta che lo investiva, lo turbinava, lo travolgeva, lo sconvolgeva ogni volta che posava le labbra sulle sue. Lo trascinava via da ogni pensiero, dalla realtà per poche ore portandolo in un modo innaturale, fatto solo di lei, perfetto.
Strinse i pugni per poi posare una mano sulla fronte come per attutire il dolore. Alzò gli occhi nuovamente verso di lei, notando che fece la stessa cosa sempre poggiata al bancone. Gesto spontaneo per entrambi. Gesto che serviva a far tornare entrambi alla realtà ad allontanarsi nuovamente da quei ricordi. 
-
«Ino, ti senti bene? Sei pallida.» le domandò Kiba, avvicinandosi.
«Si. Non ti preoccupare. E’ solo un capogiro.» rispose flebile, cercando di impastare saliva.
Non accontentandosi di quella risposta, il ragazzo le mise un braccio intorno alla vita guardandola preoccupato. Cedendo, accettò il suo suggerimento di mangiare ciò che sarebbe andato a comprare.
«Sarò di ritornò subito!» le disse scoccandole un bacio sulle labbra.
Non riuscì a trattenere un sorriso da tanta premura e velocemente gli tolse la foglia che gli si era incastrata tra i capelli imbarazzata. Ridendo sotto i baffi, Kiba uscì dal negozio seguito da Akamaru sotto lo sguardo attento di Shikamaru.
Ritornò a posare gli occhi sulla sua figura snella e pacata cercando di non cedere di nuovo al dolore di quei ricordi. Pregò con tutta se stessa che non dicesse un parola fino al ritorno del fidanzato, che rimanesse lì inerme, con lo sguardo perso nel vuoto – canche lui immerso negli anni passati - , senza più guardarla veramente negli occhi, facendola ancora una volta stare male, farle mancare le forze, il fiato. Era consapevole che solo il suo sguardo profondo, analizzatore l’avrebbe fatta cadere nel burrone, nel precipizio che lui stesso anni fa l’aveva portata tenendola per mano, passo dopo passo fino a lasciarla nel bordo, in bilico tra il buio e la luce, tra la morte e la vita. Perché per Ino, Shikamaru era stato tutto, gli apparteneva in un modo indissolubile anima e corpo, era dipendente dalla sua presenza, dalla sua esistenza. Ino se non era con Shikamaru non era Ino, non si sentiva se stessa, perché Shikamaru era Ino in un modo strano, contorto, malato. E si considerò un stupida quando capì che il ragazzo non ricambiava gli stessi sentimenti, che li provava per un’altra. Si sentì una stupida quando continuava ad assecondare quella sua voglia di lussuria per qualche notte quando era consapevole che il giorno dopo si sarebbe riunito a Temari, la sua metà. Perché questi erano i commenti di tutti: Shikamaru e Temari erano fatti per stare insieme, erano anime gemelle. Com’era possibile allora che Ino si sentiva completa solo ed esclusivamente quando stava con lui?  Perché provava quell’amore così doloroso, sbagliato, perfetto?
«Così…ti sei messa con un mastino.» tremò quando lo sentì rivolgerle la parola.
«Mi dispiace per tua madre, davvero mi dispiace.»
Le disse all’età di 8anni con un piccolo fiore in mano.
«E’ davvero gentile con me, Kiba.» disse semplicemente a voce bassa, come un sussurro.
«Allora se è gentile bisogna per forza scoparselo nel magazzino del negozio.» rise.
«Mentre guardi le nuvole posso provare a farti una treccia?»
«No.»
«Allora falla a me!»
Il compagno di team dovette obbedire quando gli arrivarono i capelli biondi in pieno viso.
«Che ci fai qui?» chiese irritata, ma non voleva sentire la risposta.
«E’ una cosa seria?» le domandò schietto.
«Non sono obbligata a risponderti.»
«Quella sera. Dopo la morte di Asuma. Non dovevamo. E’ stato un errore.»
Erano in camera sua, seduti nel letto a notte inoltrata.
«Dimentichiamocelo e basta.»
Disse, ma le labbra di Shikamaru erano già sulle sue.
Le si avvicinò velocemente posizionandosi davanti ad un passo di distanza.
«E’ seria?» chiese questa volta con voce tremante e le sopracciglia aggrottate.
«Mi ama. Mi ama veramente.» Non cedere, non farlo solo perché ti rivolge quello sguardo.
«Ti amo.»
Glielo aveva detto, mentre si rimetteva i pantaloni,
prima che si avvicinasse ad accarezzarle i capelli,
prima che se ne andasse in punta di piedi.
«Sicura? Probabilmente sta con te solo per quello che tieni in mezzo alle gambe.»
Si aggrappò con le mani al bancone, indifesa. Prese un grosso respiro cercando di cacciare ogni sua debolezza e rivolgersi senza esitazioni.
«Perché tu che facevi quando venivi a notte fonda in camera mia? Non era solo per quello che tenevo in mezzo alle gambe?!» disse in preda alla rabbia.

 
Erano passati giorni da quando era tornato al villaggio.
Si era proposto di riaccompagnare Temari a casa,
anche se sarebbe stata una scocciatura.
«Che ci fai qui? E’ successo qualcosa?»
Chiese Ino assonnata, mentre Shikamaru si chiudeva la finestra alle spalle.
«Ino…»
«Tu non sai assolutamente nulla! Non sai niente!» gridò.
Rimasero in silenzio per qualche secondo mantenendo lo sguardo sull’altro.
«Lasciala stare. Si vede che vuole stare sola.»
Sentì dire da Temari, da dentro la tenda.
«La conosco. Ha bisogno di me. Ha appena perso il padre.»
«Anche tu l’hai perso.»
«Non puoi capire. E’ diverso.»
Uscì dalla tenda a testa alta, sorpassando gli altri,
incapace di accettare di essere considerata un ninja debole.
«Ino…»
«Shikamaru, sto bene. Vado a vedere se c’è bisogno di una mano con i feriti.»
«Sono in missione, devo far rapporto di un proble-»
«Non mi interessa.» lo interruppe guardandolo in modo freddo, impassibile «Non mi interessa, Shikamaru.» ripetè, rabbrividendo al pronunciare il suo nome.
Le si avvicinò al volto, percependo il suo respiro sulla pelle e annegando in quegli occhi scuri come quando faceva le notti in cui veniva a farle visita.
«Non era solo sesso. Non lo è mai stato.»
«Perché me lo stai dicendo proprio adesso? La tua amata non ti soddisfa più?»
Secondo giorno dalla morte di Shikaku e Inoichi.
Shikamaru e Ino si stavano rivestendo,
dopo aver consumato il loro dolore in mezzo al bosco.
Shikamaru si voltò verso di lei con sguardo serio.
«Cosa c’è?»
«Nulla. Non è importante.»
Forzatamente si allontanò da quel volto diventato adulto e si avvicinò alla porta per guardare i passanti.
«Te ne devi andare. E non intendo dal negozio, ma dal villaggio.»
«Riparto domani. Ma prima ho bisogno di parlarti, di chiarire.»
«Ero completamente tua. Ti appartenevo e hai scelto lei. Questo mi basta. Adesso vattene.»
La guerra era appena finita.
Avevano vinto.
Poteva stare con lui.
Poteva baciarlo liberamente.
«Shika-»
Ma non era lei chi voleva baciare.

 
Prese un sospiro di sollievo quando vide Kiba rientrare in negozio. Gli afferrò la mano libera dalla piccola busta per trovare quella sicurezza che sempre le trasmetteva. Quel ragazzo, chiacchierone più di lei, era diventato il suo pilastro, il suo scoglio per non cadere nel buio dei ricordi, per non cadere nuovamente nella sofferenza. Gliela strinse, assicurandosi che fosse tutto vero, che quello non fosse solo un sogno, che realmente aveva trovato qualcuno a cui potesse affidarsi, con cui potesse essere felice.
Kiba notò il turbamento della ragazza e le cinse la schiena con un braccio avvicinandola a sè.
«Akamaru, accompagna Shikamaru dall’Hokage.» ordinò.
«Non ho bisogno di un cane da guardia.» rispose a tono Shikamaru per poi andarsene.
Si strinse a lui trattenendo le lacrime e sentendo un sospiro tra i capelli. Venne allontanata leggermente per poi ritrovandosi tra le mani la busta con dentro una ciambella zuccherata.
«Mangiala, ti sentirai meglio.» le spiegò, per poi andare dentro il magazzino.
«Aspetta che-»
«Abbiamo lasciato un bel casino. Pulisco.»
Lo conosceva troppo bene per ignorare quel comportamento distaccato. Era seccato, se non arrabbiato. Akamaru le sfiorò col naso la gamba nuda, guardandola compassionevole. Sorrise a quel cane diventato ormai un amico e gli accarezzò delicatamente la testa. Aspettò che finisse di ordinare nel magazzino, mentre mangiava la ciambella appena fatta. Lo vide uscire con la maglietta più macchiata di prima con una pezza in mano per pulirsi il più possibile le mani. Se la mise sulla spalla, passando poi ad occuparsi della cassa per contare le entrate del giorno. Era da mesi che l’aiutava con la gestione del negozio quando non gli venivano affidate missioni, e persino a casa, che ormai ci viveva da  sola – madre morta in missione quando era piccola e il padre in guerra qualche anno fa -, qualche volta le dava un  mano a fare le pulizie, a cucinare o a fare la spesa. Praticamente quando aveva la possibilità, le stava sempre accanto facendole compagnia. Era il ragazzo che tutte avrebbero desiderato: premuroso, divertente, maturo e bello. L’intelligenza certo non gli mancava, ma non era paragonabile a quella di Shikamaru.  Abbassò lo sguardo quando lo paragonò al suo primo amore e di certo non si riferiva all’Uchiha.
«Kiba, io-»
«Hai mangiato? Come ti senti adesso?» le chiese facendo finta di non sentire.
«Meglio. Senti Kiba, mi dispiace per -»
«Ino» la guardò dritta negli occhi quasi perforandola «non mi devi alcuna spiegazione. Ho capito.» le disse semplicemente per poi chiudere la cassa.
Si diresse verso la porta, si guardò in giro per vedere se fosse tutto in ordine, prese le chiavi del negozio dentro un piccolissimo vaso azzurro per poi fare un sospiro chiudendo gli occhi. Li riaprì verso di lei con un dolce semisorriso sulle labbra, porgendole una mano.
«Ci facciamo una passeggiata prima di cena?»
Con le lacrime agli occhi le sfuggì una risata. Non avrebbe sopportato perderlo.
«Prima devi cambiarti quella maglietta.»
Finirono di cenare e in silenzio venne riaccompagnata a casa. Prese le chiavi dalla borsa, aprì la porta e fece cenno a Kiba di entrare prima di lei. Il ragazzo però aveva gli occhi socchiusi e guardava circospetto intorno a sé.
«C’è uno strano odore.» sussurrò in fine.
«Che intendi dire?»
«Niente. Non ti preoccupare. E’ solo una bistecca bruciata.» disse facendo un mezzo sorriso per poi aggiungere «E’ meglio che non rimanga stasera.»
«Perché?» chiese quasi sconvolta a sentire pronunciare quelle parole. Non aveva mai rifiutato di dormire con lei. «Se è per oggi, Kiba ti giuro che mi dispiace, lo sai che ormai-»
«Non provi più niente per lui? Questo vorresti dire?» domandò retoricamente con le sopracciglia alzate  «Non prendermi in giro. Lo sappiamo entrambi che non è vero.» concluse in fine
«In realtà, volevo dirti che ormai non posso stare senza di te. Ma ovviamente non mi hai fatto finire di parlare!» gli disse col cuore in mano e con sguardo offeso.
Ino non aveva mai parlato apertamente dei propri sentimenti o emozioni, sin da piccola aveva preferito tenersi le cose per sè e cavarsela per conto proprio. Nemmeno con Sakura e Choji e né tanto meno con Shikamaru che si era limitata a sussurrargli un ‘ti amo’ strascinato, quasi ad averlo fatto forzatamente, solo perché non si sentiva a proprio agio a pronunciare quelle parole tanto nuove, tanto strane, tanto sbagliate per la relazione che vivevano. E nonostante si sentisse impotente di fronte a quell’ atteggiamento distaccato del giovane Nara, del sentimento non ricambiato, era in pace con se stessa: aveva ammesso la sua colpa di essersi innamorata del suo segreto amante ed ebbe la forza di continuare ad accettare quella relazione strana, inopportuna, malsana.
Ma con Kiba era diverso, completamente diverso. Poteva parlare apertamente di ogni cosa, senza avere la paura di un suo giudizio, di perderlo da un momento all’ altro. Perché le rimaneva accanto nonostante le sue stranezze, le sue paranoie, nonostante il suo passato pieno  di giudizi negativi come essere una zoccola o gatta morta che cadeva ai piedi del primo ragazzo carino che passasse; nonostante l’amore, anche se seppellito, provava per Shikamaru. Accettava tutto di lei e sorprendentemente lei riusciva a fare la medesima cosa. Non le importava se si comportasse come un bambino la maggior parte delle volte, facesse il prepotente quando si arrabbiava, entrava in casa sua sempre sudato e sporco dopo essersi allenato con Akamaru più sporco del padrone. Tutti i difetti che poteva avere quel ragazzo non la turbavano minimamente. E con il passare del tempo cominciava ad affezionarsi a quell’Inuzuka tanto arrogante quanto dolce, ad avvicinarsi impercettibilmente, così piano che nemmeno si rese conto che si legò tanto da non riuscire nemmeno a considerare l’idea di non averlo accanto.
«Sei diventato una presenza costante nella mia vita e …» prese un grosso respiro «… non ho intenzione di perderti. Sei davvero importante. Grazie a te-»
«Ti amo...» lo bisbigliò più a se stesso che alla ragazza. «Mi sono innamorato perdutamente di te, Ino. Ti amo!» continuò con voce più alta per poi scoppiare a ridere «Ti amo alla follia, non ho occhi che per te. Sei il centro di ogni cosa!» si arruffò i capelli rosso in volto «Sono ridicolo.»
Ino era venuta a conoscenza da tempo che il ragazzo si fosse innamorato di lei, lo riusciva a capire dal modo in cui la guardava, dai suoi gesti delicati quando erano soli, dal modo in cui pronunciava il suo nome quando facevano l’amore. Perchè anche lei era stata innamorata perdutamente di un’altra persona. Ugualmente schiuse le labbra dall’ inaspettata dichiarazione, cercando di pronunciare qualche parola. Le si attorcigliò lo stomaco subito dopo aver visto che persino le orecchie cominciarono di diventargli rosse dall’ imbarazzo. Il cuore le balzò in gola quando punto gli occhi canini sui suoi attraversandola, perforandola, facendola sentire un cucciolo abbandonato davanti al suo salvatore pronta a seguirlo dovunque andasse. Perché si sentiva legata a lui in modo permanente, come se avesse firmato un contratto che dichiarava che sarebbe stata di sua proprietà per il resto della vita. Solo in quel momento si rese conto della sua dipendenza da Kiba, del sentimento che era cresciuto silenzioso, confondendosi con quelli di gratitudine e felicità, confondendosi con il semplice desiderio carnale che aveva ogni qual volta lo baciasse. E non sapendo cosa dire, lo baciò col sorriso sulle labbra, col cuore che voleva uscire dal petto per incontrare il suo. Lo baciò ripetute volte cercando di esprimere ciò che provava per poi poggiare l’orecchio sul suo petto desiderosa di ascoltare il battito del cuore accelerato. Le alzò il viso, le diede un dolce bacio prima sulle labbra e poi sul naso.
«Me ne vado. Qualunque scelta farai, ci sarò per te.»    
«Cosa stai dicendo?»
La domanda venne ignorata e Kiba cominciò ad allontanarsi dal vialetto di casa.
«Kiba, aspetta!» quasi urlò «Volevo dirti che…» le parole le morirono in gola mentre il ragazzo aspettava che continuasse «Nulla. Ci vediamo domani!»
-
Ascoltò la conversazione proveniente dal piano di sotto, trattenendo il fiato. La motivazione per cui Kiba non le disse nulla della sua presenza in casa lo lasciò senza parole, ma dedusse che aveva qualcosa in mente a sua favore. Poco dopo infatti, sentì a malapena una dichiarazione smielata, vomitevole che gli fece rivoltare le viscere. Aspettò con ansia che quei cani se ne andassero sin da quando Ino cominciò a rivolgergli parole dolci. Qualche minuto dopo percepì qualcuno salire le scale, si tastò i capelli cercando di scoprire se fossero in disordine, passò le mani sulla maglietta per stirarla al meglio, scocciato infine, per la sua preoccupazione senza senso – si era già intrufolato nella sua stanza altre volte in passato – decise di fumarsi una sigaretta, poggiato al davanzale della finestra aperta. La porta alle sue spalle si aprì e incapace di voltarsi rimase a fissare il fievole rossore della sigaretta appena accesa. Aspirò nuovamente, cercando quella calma che scomparve appena mise piede dentro il villaggio. La consumò velocemente, lasciando gli ultimi due tiri per poi buttarla fuori in strada. Non percepì nulla dietro di sé se non il silenzio pesante della stanza. Prese un grosso respiro per poi voltarsi lentamente. La vide ancora sulla soglia della porta in tutta la sua suprema bellezza che si aggrappava alla maniglia con gli occhi azzurri spalancati.
«Posso spiegarti…»
«Ti avevo detto di andartene!» disse sconvolta «Ecco perché…» entrò nella stanza chiudendo la porta quasi sbattendola «…ecco perché Kiba non è voluto rimanere! Che deficiente!» concluse rabbiosa togliendosi la giacca.
«Volevo parlare con te!»
«Hai già parlato abbastanza.» gli ribatté sorpassandolo per poi incitandolo con le braccia ad uscire da dove era entrato.
«Lo ami? Lo ami come ami me?»
Non era un caso che pronunciò quelle parole, le stesse parole che anni prima lei stessa gli aveva rivolto, il giorno prima della sua partenza, quando le comunicò la sua scelta di lasciare il villaggio. Era stata l’unica a cui l’aveva comunicato ed era stata l’unica a comprendere la motivazione di tale decisione, perché ne era coinvolta. Lui non poteva vivere in mezzo a due persone, a due donne. Doveva abbandonare qualcuno per sentirsi a proprio agio, sereno, anche se avrebbe comportato portare dolore.
«La ami? La ami come ami me?»
«Lo amo. Lo amo sul serio. Ma è diverso dall’amore che provo per te.»
«La amo. La amo sul serio. Ma è diverso dall’amore che provo per te.»
«Non è lo stesso…»
«Non è lo stesso…»
«No, per niente.»
«No, per niente.»
«Ti appartengo, in un modo contorto, ma ti appartengo Ino e sono destinato ad amarti nonostante tutto.»
«Ti appartengo, in un modo contorto, ma ti appartengo Shikamaru e sono destinata ad amarti nonostante tutto.»
«Lo so, Shikamaru.»
«Lo so, Ino.»
Stessi personaggi, stesso copione, stessa scenografia, ma ruoli invertiti.
Si avvicino alla sua figura esile girata di spalle, si chinò sul collo nudo dai capelli corti per annusare il suo profumo, poggiò delicatamente le labbra sulla pelle liscia assaggiandone poi il sapore con un bacio. Un brivido percorse la schiena ad entrambi.
«Siamo destinati ad amarci incondizionatamente, fino alla morte. Ma-»
«Ma non siamo destinati a stare insieme.» concluse lui.
La fece girare verso di lui per guardarla negli occhi e il senso di appagamento, di completezza che provava anni fa si insinuò nel suo petto. E solo un pensiero gli balenò nella mente: non è più mia. Una fitta gli venne all’altezza dello stomaco prima di precipitarsi sulle labbra morbide per ricordarsi  della sensazione che gli procurava. Ed ecco che la lingua bruciava, veniva fulminata al contatto con la sua; il sangue si congelò quando affondò una mano tra i capelli non più di una lunghezza smisurata, ma corti, troppo corti per essere quelli della sua amante; la strinse a sè desideroso di toccare la sua pelle nuda, quella pelle che scottava al solo tocco. Infilò una mano sotto la maglietta per arrivare all’ aggancio del reggiseno e lo sganciò per poi spogliarla del tutto, senza nessuna sua opposizione. Ammirò quella bellezza naturale da cui sempre veniva accecato, incontrò il suo sguardo pieno di desiderio, si immerse nuovamente nel sapore delle sue labbra, mentre l’aiutava a togliergli la maglietta. Chiuse gli occhi quando sentì la sua lingua percorrergli il petto, fino all’altezza dell’ombelico e sorrise quando gli lasciò il segno di un forte morso, incurante del  reale dolore che gli provocò. Gli era mancato quella sua aggressività che esibiva ogni volta che facevano l’amore – perché si, anche se non lo voleva ammettere, lui e Ino avevano sempre fatto l’amore -, quella sua superiorità, quella sua potenza, passione che metteva in ogni gesto. Lei era una regina. Lei era fatta per governare, per mettere tutti sotto i piedi, per comandarli a suo piacimento, per tormentarli, torturali con la sua bellezza elevata, troppo elevata, quasi sovrumana; o per riempirli di quell’affetto che in pochi potevano ricevere, facendoli godere anche per poche ore o semplicemente con un gesto dolce, sensuale, malizioso. Lei gioiva a vederli agonizzanti perché non potevano averla, perché fondamentalmente non era al loro stesso livello, lei non era umana, era un essere sovrannaturale che andava oltre al semplice aspetto umano. In realtà lei era un angelo, un angelo in veste umana per nascondere le ali nere con cui avvolgeva chi si innamorasse di lei; quelle ali che trascinavano la vittima nell’oscurità con un caldo, fiammante abbraccio facendolo passare come un semplice piacere carnale e riuscendo a spingere quel folle innamorato ad impossessarsi di lei, entrandole dentro, ritmicamente. E ad ogni spinta che Shikamaru faceva in lei, coricati nel letto, col le coperte ancora intatte, con i vestiti sparsi per la stanza, sentiva scottare, bruciare ogni singola cellula del suo corpo come se la sua parte più intima fosse la porta dell’inferno e lentamente stava entrando, pronto a scontare i suoi peccati. La osserva, completamente immerso nella sua persona, mentre continuavano quella violenta ma dolce danza, mentre ascoltava incantato il suono dei suoi gemiti strozzati, mentre le stringeva sopra la testa la mano per reggersi, per non schiacciarla col suo peso, con il suo desiderio, col suo amore, troppo grande per riuscire a regolarlo per non farle male, per non ferirla come fece anni prima. Le posizioni si invertirono, si mosse sopra di lui in modo sensuale, lentamente, appoggiandosi con le mani sul suo petto. Le afferra per i fianchi favorendo le spinte e proprio in quel momento vide le sue ali nere spiegarsi in uno scatto veloce e la luce dei fulmini la circondarono rendendola più maligna, più oscura. Poi la guardò in viso e rimase incantato dalla sua grazia e delicatezza. I suoi occhi e capelli corti brillarono al chiarore della luna e più guardava quell’angelo nero, più gli sembrava di cadere, di entrare, in un oblio profondo senza più ritorno. Gli sembrava di ritornare indietro nel tempo a quando in quelle poche ore in cui stavano insieme, avvinghiati l’un l’altro, uniti in un eterno simbolo d’amore, aveva l’impressione di essere stretto nella morsa di quelle ali e di essere investito, travolto, sconvolto da quella tempesta da cui era fatta. E veniva trascinato in quel mondo strano, complicato, tanto diverso da quello reale in cui vivevano ogni giorno, fatto solo di quella rara creatura, fatto solo di lei. Un mondo perfetto. La vide alzare la testa all’indietro, pronta all’amplesso. Si mise seduto, affondando una mano tra i capelli e costringendola ad aprire maggiormente la bocca per far insinuare la lingua e godersi del suo sapore. Le strinse i glutei affascinato per poi accarezzarle la schiena e invertendo nuovamente le posizioni. Appoggiò la testa sul petto prosperoso, dando le ultime spinte e dopo che sentì un ultimo gemito soffocato dal suo bacio, venne anche lui col fiato corto. Si sdraiò accanto esausto e con un sorriso sulle labbra, finalmente appagato. Si girò a guardarla, ma lei gli voltò le spalle mostrandogli la schiena nuda, priva di ali, priva della scarica elettrica di poco prima, priva di tutta la potenza che possedeva. La vide stringersi di più a sé come una bambina, ferita nell’orgoglio. L’altro lato della sua personalità: fragile come vetro. Prese un grosso sospiro, consapevole che il loro ultimo momento insieme era finito. Si alzò dal letto intento a recuperare i suoi vestiti, convinto che la scena si sarebbe ripetuta: si sarebbe rivestito, si sarebbe messo una sigaretta tra le labbra, le avrebbe carezzato i capelli e poi se ne sarebbe uscito in silenzioso. Questa volta però una mano gli bloccò il braccio.
«Almeno questa volta, rimani ancora un po’»
Se solo tutte quelle volte in cui si alzava per andarsene lei gli avrebbe chiesto di restare come in quel momento; se solo lui invece di raccogliere i vestiti da terra si fosse sdraiato accanto a lei per stringerla tra le braccia come fece in quel momento; se solo l’avesse cullata nel suo petto dopo che facevano l’amore invece di pensare a fumarsi una sigaretta lungo la strada di ritorno come fece quella volta; se solo lei gli avesse baciato prima il collo poi le labbra dolcemente invece di chiudersi in se stessa e pensare che non ci sarebbe stato nessun altro a renderla felice come fece in quel momento; se solo entrambi si sarebbero amati anche dopo il piacere di quei pochi istanti di sesso come in quel momento, magari sarebbe andato tutto in modo completamente diverso, il loro rapporto, il loro futuro; magari Shikamaru non si sarebbe mai innamorato di Temari, non se ne sarebbe mai andato dal villaggio perché non sarebbe riuscito a convivere col pensiero di vedere l’altra donna che amava ogni giorno, mentre avrebbe stretto la mano della sua ragazza. Lui aveva fatto una scelta: Temari. Il sole tranquillo, sereno, pacato al posto dell’angelo nero che portava tormente e tempeste ma che irrimediabilmente ne era attratto più di qualsiasi altra cosa. La strinse di più inalando il suo profumo a pieni polmoni per non scordarselo. Si staccò leggermente per guardarla dritto negli occhi, le scostò i capelli dal volto e poggiò la fronte con la sua facendo sfiorare i nasi. Le carezzò dolcemente i capelli, la guancia per poi passare all’orecchio freddo. Col dito ne disegnò il contorno incontrando il piccolo orecchino, lo tastò per ricordarsi dei momenti passati col vecchio team, ma quello non era la piccola perla che aveva donato il maestro Asuma, quello era piatto, liscio a forma di zanna. Cercò di visualizzarlo sotto la luce lunare per averne conferma, ma fu la sua voce flebile a dargliela.
«Me l’ha regalato al nostro primo anniversario.»
Sospirò pesantemente, spostando la mano sul suo fianco. Serrò gli occhi per trattenere la gelosia, ma poi si calmò rassegnato alla consapevolezza di non poter fare più nulla. Era troppo tardi, non era più sua.
«Lo indosso ancora il nostro orecchino.» gli confessò alzandosi su un gomito e portandogli una mano sull’altro orecchio in modo che le avrebbe creduto.
Sorrise, mentre la gola cominciava a pizzicargli. Alzò le sopracciglia senza sapere cosa fare se non ribaciarla. La fece sdraiare, mentre lui si alzava pronto ad andarsene, pronto a dirle addio. Si rivestì, in modo lento cercando di controllare le mani che non smettevano di tremare. Il cuore gli batteva all’ impazzata, gli faceva male, come se qualcuno glielo stesse stringendo a forza e sapeva già chi fosse a causargli quel dolore. Si abbassò verso di lei dandole un bacio sulla fronte, si avvicinò alla finestra e l’aprì facendo entrare l’aria fresca di autunno. Si voltò di nuovo verso di lei esitante, che lo osservava come faceva tutte le volte, giudicandolo.
«Ino» «Shikamaru»
Contemporaneamente si richiamarono per l’ultima volta, con voce tremante, insicura. Shikamaru si appoggiò alla finestra per non cedere alla debolezza che si fece largo nel suo corpo. Una lacrima gli rigò il viso guardando quella piccola figura coricata elegantemente nel letto.
«Ti amo.» le disse col cuore in gola, mentre aumentava il senso di nausea.
«Ti amerò per sempre.» gli rispose, trattenendo un singhiozzo.
«Per sempre.» confermò, voltandole le spalle e abbandonandosi al pianto.
  
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