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Autore: BellinianSwan    06/08/2014    2 recensioni
"Posò poi lo sguardo su di un ritratto che lo attrasse magneticamente con cieca irrazionalità. Vide due occhi neri fieri, apparentemente impregnati di uno scopo, di un mordente per cui vivere, allargò lo sguardo all'intera figura e si sentì ancora più solo al mondo, lei, chiunque fosse sembrava esperta dell'arte del vivere, quell'arte che era sempre stata refrattaria ad adattarsi alle sue sgradevoli sembianze. Eppure, uno sguardo più attento mise in luce gli angoli della sua bocca, carnosa e ben disegnata, leggermente piegati verso il basso, in un vano sforzo di resistere. [...] Sentì quella figura nel ritratto vicina, dannatamente vicina eppure distante anni luce, a causa di quella vaga luce che le ardeva negli occhi. Lei nonostante tutto aveva trovato un mordente, o forse indossava una maschera oramai divenuta un tutt'uno con il suo volto fiero."
- Gertrude Degl'Innocenzi è stata ispirata al personaggio protagonista del manga "La Rosa di Versailles", Lady Oscar -
Genere: Azione, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
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     Era inverno. Il cielo coperto da nubi grigie come il fumo si espandeva sui campi bruciati dal fuoco della guerra. Gertrude poté sentire le narici bruciare all'aria calda e asfissiante e l'odore forte della Morte e del sangue sparsi sull'erba. Quella tetra figura quasi si nascondeva tra le nubi, vegliando quieta sulla miseria degli uomini, tanto avidi quanto stupidi da farsi guerra tra loro per motivi altrettanto futili. Era il mantello di cenere della Morte che, Signora del Tempo, sedeva vigile, spettatrice silenziosa sul trono della Distruzione, fissando coi suoi occhi neri la Vita che finiva sotto di sé. 
La ragazza cercò di respirare, ma non potè sentire l'aria entrare nei polmoni. Ritentò più forte e da quelle labbra rosse ormai aride fuoriuscì un sibilo, poi aprì lentamente gli occhi e vide un sole timido nascondersi tra le nuvole. Improvvisamente un dolore lancinante al fianco. Si accorse di avere la mano poggiata sulla ferita e quando la portò davanti ai suoi occhi, potè vedere che la sua bella mano candida era completamente bagnata di sangue. Lasciò che cadesse sull'erba. Una folata di vento le accarezzò il viso facendo sollevare la polvere dai campi di morti, trasportando con sé le anime dei soldati. Inspirò a fatica quell’aria pesante e maledettamente intrisa di quella morte che aveva da tempo posato i suoi gelidi occhi sulle sue giovani membra, troppe volte aveva sfiorato con il suo bacio letale il suo lungo collo. respirava per lottare, per l’ennesima volta, perché non conosceva altro verbo, da quando i suoi grandi occhi neri erano stati feriti dal sole per la prima volta. L’ossigeno a fatica si diffuse attraverso le sue membra stremate, permettendole di sollevare lievemente la testa. La luce fioca e dolente del cielo invernale filtrava attraverso le spesse nubi che scorrevano sul campo di battaglia, indifferenti all’odore di morte, alle vite falciate sulle quali scorrevano silenziosamente, all’insensatezza del tutto, e colpì i suoi occhi facendoli lacrimare appena. Il grigiore delle nubi la soffocava chiudendole la gola. Socchiuse appena gli occhi e in lontananza riuscì a scorgere una piccola nube baciata dal sole tremolante. Il suo grigiore era sopraffatto da un’aurea quasi cerulea, come il cielo di marzo, come una possibilità rinascere, ma anche come… 

 

***
 

Sdraiato su un fianco, avvolto e quasi soffocato dalla baluginante penombra fece scorrere il lungo indice scarno lungo l’osso che gli delimitava il bacino, altrettanto acuminato. Le sue ossa sarebbero state armi da taglio infallibili, gelide e spietate come i grandi occhi languenti di colei che aveva saputo fare del suo debole cuore mille brandelli, per civetteria o per semplice noncuranza. Ma lui non sapeva ferire, conosceva troppo bene il lancinante dolore causato dalle parole, il loro lento depositarsi nei meandri dell’anima, lo strazio più nero, che si consuma negli interminabili istanti di solitudine, in cui ogni secondo conficca le parole sempre più a fondo, negli abissi più reconditi dell’io per dannare l’anima in eterno. Un rumore sordo lo fece sobbalzare goffamente. Si mise in piedi a fatica, Giacomo, ventinove anni che pesavano come cinque secoli sulle sue ossa, sul suo debole corpo consumato da innumerevoli istanti veloci eppure eterni ed immobili, insensati e tutti uguali, vuoti e impossibili a colmare se non di nulla. Scese le scale lentamente, silenzioso come la morte, il silenzio gli procurava la dolce illusione del non essere, il rumore era irrimediabile sinonimo di esistere, dunque di sofferenza, di morte perpetua. Si affacciò al portone e trovò una lettera ingiallita ai suoi piedi. Sembrava carta preziosa. Si chinò a fatica, chiedendosi se non avessero sbagliato indirizzo. Uno stemma imponente di color verde brillante colpì i suoi occhi stanchi suscitando ulteriormente la sua curiosità.

 

A S.E. il Conte Giacomo Leopardi” inspirò a fondo riflettendo su quanto vuote fossero le parole che precedevano il suo nome, non solamente vuote di senso, ma vuote di vita, vuote di tutto. Proseguì la lettura “Sarei lieto se voi, sommo poeta voleste accettare l’invito a soggiornare nella mia residenza di Firenze, rispondete a codesta missiva e vi fornirò ulteriori dettagli.

Il vostro fervente ammiratore,

Visconte Alcide Degl’Innocenzi”.


Rimirò la bella busta color pergamena, conteneva una possibilità di fuga, un salto nel vuoto certo ma nulla sarebbe stato peggio della permanenza a Bologna. Preparò in fretta i bagagli, dopo fugaci saluti salì sulla carrozza che aveva prenotato lasciandosi alle spalle la “dotta” Bologna che tanto gli aveva arso il cuore. Era una giornata afosa a Firenze, famosa per il suo tempo mite e salubre. Il vento accarezzava delicato il volto della ragazza, che si ostinava a fendere l'aria col moschetto, come se davanti a lei vi fosse un qualche invisibile avversario. I capelli biondi le ricadevano sulla fronte e lungo le guance diafane. 
Quante volte quel vecchio burbero le aveva detto di posare “quell'affare”, perché “non adatto alle bambine”. Aveva sempre “giocato” con le pistole di nascosto e con le varie armi da taglio. Il Visconte non poteva toglierle dalle sue mani perché il vecchio aveva lasciato l'armeria alla sua cara nipote prima di morire ed essendo suo patrimonio, la ragazza passava intere giornate nella sala più grande del palazzo ad allenarsi. Vestiva come un uomo. Camicia, pantalone e corsetto. Lasciava la prima leggermente aperta sul petto per il troppo caldo e si potevano intravedere le fasce che le contenevano il petto in una stretta morsa.
Il padre non poteva vederla in quel modo, era di una belezza divina, avrebbe potuto avere miriadi di spasimanti e invece si ostinava a vivere in quel modo. Ogni tentativo di farle cambiare idea era vano e per il vecchio grassone era diventata una delusione, arrivando a vergognarsi della sua stessa figlia.
Il Conte chiuse gli occhi, per tentare di raggiungere la paradisiaca sensazione di immergersi nell’attimo prima della creazione, nella quiete incondizionata, nel tanto anelato non essere e di unirsi ad esso in eterno. Poteva avvertire le estremità del corpo perdere consapevolezza dello spazio circostante, il rumore della carrozza divenire sempre più lontano, come l’eco di un mondo, di una vita che si stava irrimediabilmente allontanando, tuttavia l’illusione era tanto labile quanto vigoroso era il suo amaro disincanto, presto le belle ville di Firenze avrebbero iniziato a lambire il suo sguardo, altra vita, altro insensato dolore. Sentì un rumore metallico, come uno sfrigolio di lame e si tappò istintivamente le orecchie, invano perché il rumore si avvicinava sempre di più, uccidendolo silenziosamente. 
Inspirò a fondo, il Visconte Degl’Innocenzi, e a fatica posò lo sguardo su quell’esile ma indistruttibile figura che stava scendendo le scale, armata di tutto punto. Per quanto si sforzasse non riusciva ad identificare quella creatura come un germoglio della sua pianta, seppure da lui avesse ereditato il portamento fiero e l’animo animato dal più gagliardo orgoglio. La osservò più attentamente e rabbrividì rendendosi conto di quanto assomigliasse alla moglie. Era come se si fosse presa il suo volto, le sue mani, che da ventitré anni non stringeva e non accarezzava più. Osservò di nuovo quella creatura tanto bella e mostruosa allo stesso tempo, e nonostante i suoi sforzi non riuscì ad avvertire che un flebile tiepido spiraglio di affetto verso quella giovane donna che fin dalla nascita sembrava aver stretto un perpetuo sodalizio con la morte, a causa del quale, in un sinistro baratto sua moglie se n’era andata per sempre, dandola alla luce. Erano stati ventitré anni bui, durante i quali mai, mai aveva smesso di considerarla un’assassina, l’assassina della sua Margherita, un intruso che si era frapposto fra di loro portandogliela via con il più gretto egoismo. Abbassò lo sguardo sconsolato, cercando un po’ di conforto nella missiva che gli era giunta poco prima, se non altro la persona che più stimava aveva accettato di soggiornare da lui Gertrude uscì in fretta, con passo leggiadro e impetuoso allo stesso tempo, il gran duca Leopoldo II aveva chiesto di vederla in privato, mediante una missiva criptica che non lasciava intendere nulla di buono.

- Arriverà una carrozza da nord… ho udito che vogliono attentare alla mia stessa vita…

Gertrude lo fissò attonita, ma senza mostrare alcun timore.

- Non faranno nulla, vostra grazia

Mormorò impassibile.

- Come ne siete tanto certa, se mi è concesso chiedere, viscontessina?

Si scostò leggermente i lunghi capelli biondi e sussurrò.

- E’ semplice. Non avranno più un alito di vita nei polmoni, parola mia.

Una brusca frenata riportò il Conte alla realtà, conficcò le unghie nel sedile imbottito, si sentì scaraventato in avanti con violenza inaudita, rabbrividì all’udire lo scricchiolio sinistro delle sue ossa. La porta si aprì e prima che potesse rendersene conto sentì una gelida lama scorrere sul collo. Per quanto odiasse l’essere, l’esistenza capì di non desiderare altro che vivere. “

- Dosate bene le vostre parole signore, saranno le ultime”

Gli sussurrò una voce terribile e suadente allo stesso tempo.

- Cosa… ci guadagnate? - trovò la forza di mormorare Giacomo - Il rimorso… vi ucciderà. Allontanò impercettibilmente la lama.

- E invece io vi faccio la cortesia di battere il rimorso sul tempo, maledetto traditore!

Giacomo tentò di dimenarsi, ma lei gli strinse i polsi al punto che non sentì più il sangue scorrervi.

- Io… sono il conte…

- Tacete!

Gli sibilò accarezzandogli la gola con la lama del coltellaccio che impugnava saldamente.

- Perché dovrei avere fretta? Meritano di morire di stenti, le fecce umane come voi!

Sentì la lama graffiargli il collo.

- Dicevate? Che siete nobile? - Mormorò sorridendo leggermente. - Beh, sapete di fronte alla morte il vostro titolo vi servirà ben poco…

Una goccia di sangue gli macchiò la camicia immacolata.

- Ditemi il vostro nome, per l’ultima volta.

- Lasciatemi! - Gridò convulsamente. - Sono un uomo di lettere, non ho fatto del male a nessuno!

Gertrude lo osservò stralunata e ritrasse il coltello, ma continuò a cingergli violentemente i polsi.

- Ah, si? E io sono Napoleone. Codardo. Certo che dovete avere un’alta opinione di voi per aver pensato di poter uccidere da solo il granduca… un peccato di presunzione che vi costerà caruccio, Conte.

Giacomo premette la schiena all’indietro in un vano tentativo di schiacciare quel corpo tanto ostile ma percepì una morbidezza inaspettata, come se il suo assalitore fosse… lo sentì dolersi del contatto con le sue ossa appuntite e decise di insistere, aggiungendo anche le unghie. Si voltò appena. Una lunga ciocca di capelli biondi gli si parò dinnanzi agli occhi, sentì di nuovo la lama sul collo.

- Ditemi chi siete, maledetto!

Ruggì Gertrude.

- Leopardi… Giacomo.

Mormorò lui con rabbia. Gertrude lo lasciò immediatamente e coprendosi il volto con il cappuccio del mantello che le copriva le spalle, scese dalla carrozza, in un’improvvisa volontà di fuggire dalla vita, dal mondo. Se il Conte fosse arrivato a lei, suo padre non l’avrebbe perdonata, non stavolta.

   
 
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