Fuori
dalla finestra il cielo era completamente
grigio, qualche raggio di sole filtrava debolmente, illuminando il
parchetto
davanti a scuola; un giornale svolazzava, nelle mani del vento. Vedevo
tutto
dalla finestra sulla mia sinistra mentre sorreggevo la testa con la
mano e con
un dito dell’altra picchiettavo il ritmo delle lancette sul
banco. Il professor
Forst stava blaterando qualcosa a proposito di Newton, facendo roteare
per aria
una mela. Quanto volevo trovarmi là fuori, in balia del
vento come quei fogli
di carta e volare lontano, lontano dove non ci sono strani professori e
insipidi compagni. La ragazza nel riflesso del vetro mi guardava; aveva
grandi
occhi neri dall’espressione stanca, la pelle molto pallida da
farla sembrar
quasi un cadavere e i capelli che le incorniciavano il viso ricadendo
sulle esili
spalle.
“Signorina
Warlen, che c’è di così interessante
là fuori da ipnotizzarla? E’ una
mezz’ora
buona che fissa quei fogli di carta”
Tutti
si girarono verso l’ultimo banco nell’angolo, verso
di me e desiderai con tutta
me stessa di scomparire all’istante. Qualcuno sghignazzava,
qualcuno si soffiò
il naso, qualcuno pensava agli affari suoi, mentre gli altri
continuavano a
guardarmi aspettando una mia risposta.
“ M-mi scusi…” dissi abbassando lo
sguardo
"Accetto
le sue scuse, ma che non ricapiti ancora” disse il professore
tornando poi al
suo discorso sulla gravità; -è incredibile come
sia facile raggirarlo, ci casca
sempre nelle mie false scuse- pensai mentre mi appoggiavo al muro
aspettando
che suonasse la campana. La mia attesa non fu lunga, appena sentii il
suono
raccolsi la mia roba, presi la giacca e mi precipitai fuori da quella
classe.
Mentre percorrevo il corridoio qualcuno mi arrivò addosso
facendomi sbattere
contro gli armadietti; dal mio zaino uscì il libro che stavo
leggendo in quel
periodo, che cadde con un tonfo sul pavimento. “ Oh, scusa;
ti ho rovinato il
libro delle favole?” disse con tono di scherno il tipo che mi
aveva urtato; era
alto con due spalle enormi, molto probabilmente faceva parte della
squadra di
rugby, aveva il naso schiacciato con un cerotto logoro attaccato sul
dorso. I
suoi amici fecero qualche battutina mentre lui mi continuava a fissare
con quei
suoi occhietti piccoli, che spuntavano da sotto le sopracciglia ispide,
in
attesa di una mia reazione; ma io mi limitai a fissarlo inespressiva
finche si
stufò di aspettare e se ne andò, tirando un
calcio al mio libro. Lo raccolsi
senza scompormi e me ne andai mentre chi aveva assistito alla scena
bisbigliava.
Uscii
dal portone principale e fui investita da un’aria fredda che
mi fece
rabbrividire, chiusi bene il cappotto, misi il cappuccio e
m’incamminai verso
casa. Quando dovetti attraversare la piazza centrale velocizzai il mio
passo;
ero diventata il centro d’attenzione delle persone presenti,
sentii i loro
sguardi di disgusto e disapprovazione scandagliarmi da capo a piedi,
soprattutto il capo: il vento scompigliò e scoprì
i capelli blu oceano che
tenevo nascosti sotto il cappuccio della felpa. Non si sono mai
abituati alla
scelta che feci, per le persone di questo paese sono
un’insulsa ragazzina che
va in giro con i capelli da fata e senza un briciolo di cervello.
“Fiducia
nelle nuove generazioni dicono, puah , se sono tutti come lei siamo
rovinati”
disse qualche donna all’amica, “ Ma cosa crede? Che
siamo nel mondo della
sirenetta? Ha bisogno di crescere!” Rispose l’altra.
“
Se è
così lei chissà come sono i genitori,
irresponsabili, che l’hanno cresciuta!”
Quelle
parole arrivarono come coltelli affilati che mi lacerarono dentro,
provai a
trattenere le lacrime ma la mia resistenza durò poco; calde
gocce salate iniziarono
a rigarmi il viso e mi misi a correre per non dare la soddisfazione a
quelle
persone di vedermi piangere. Arrivai finalmente al bosco che mi
separava da casa,
di solito prendevo la strada asfaltata che gira intorno ma oggi volevo
stare da
sola per un po’ e nascondermi dalla società,
quindi scelsi di attraversare il
bosco. Non era la prima volta che lo facevo; spesso andavo in mezzo a
quegli
alberi per stare sola, per staccare la spina da tutti i miei problemi e
lì nessuno
mi giudica per il colore dei capelli o perché amo leggere o
perché parlo poco,
lì non c’era proprio nessuno e mi piaceva.
Sentii
delle gocce cadere su di me, prima piano poi forte.
“Meraviglioso” dissi “ ora
mi tocca tornare a casa fradicia. Questa giornata sta andando di male
in
peggio”. Cercai di accelerare il passo quando sentii i tuoni
farsi più forti e
qualche fulmine illuminare il cielo; “ No non è
possibile, anche questo!?”, mi
dovetti fermare a metà strada perché un pezzo del
sentiero era praticamente
allagato e, non avendo voglia di infangarmi fino alle ginocchia, decisi
di
deviare attraversando una zona del bosco in qui non ero mai
stata.
Ormai non
c’era più possibilità che arrivassi a
casa asciutta, ero completamente fradicia
dalla testa ai piedi; i capelli mi si erano attaccati alla faccia, il
trucco
colato sulle guance, i vestiti erano zuppi e parecchio pesanti, per non
parlare
delle scarpe che avevano acquistato uno strato di fango così
spesso sotto la
suola che avrebbero fatto concorrenza a quelle di moda in questo
periodo. Mi
misi a correre, ma non si dimostrò una grande idea; a ogni
passo gli schizzi di
fango mi arrivavano addosso peggiorando la mia già pessima
condizione. Stabilii
che poteva bastare quando un po’ di fango mi finì
in bocca, mentre respiravo
affannosamente; per mia grande gioia scorsi una casa dietro a dei
cespugli.
Nonostante non fossi una persona molto socievole e che non mi piacesse
chiedere
aiuto, dovetti mettere quel lato della mia personalità in
disparte e suonare a
quella porta, se non volevo trasformarmi in un anfibio. Mi avvicinai
alla casa
e mi ritrovai davanti a un cancello arrugginito, era socchiuso
perciò mi basto
spingere un poco per passare; la casa era antica, l’edera
aveva ricoperto tutta
una facciata laterale e qua e là vi erano delle grandi crepe
ai margini delle
finestre o del grande balcone centrale. Salii qualche gradino e mi
ritrovai,
finalmente, al coperto sotto un portico di legno; notai che era
traballante e
vi era qualche asse sconnessa ma non ci diedi molta importanza,
d'altronde
anche casa mia non era esattamente curata. Cercai il campanello di
fianco alla
grande porta di legno e lo trovai nascosto da un rampicante, che era
cresciuto
infiltrandosi dal pavimento. Era anch’esso antico, fatto in
bronzo con una
testa di leone nella parte in alto e una targhetta con il nome della
famiglia
sotto, non c’era molta luce ma mi sembrò di
leggere Tesep.
“boh,
che nome strano“ pensai ma suonai comunque, mentre la pioggia
scrosciava sopra
il tetto in legno.
NOTE
DELL'AUTORE: Salve a tutti, spero che con questo primo capitolo vi
abbia un po' incuriosito! E' la mia prima storia quindi mi farebbe
piacere sapere l vostre opinioni :) Ciao e al prossimo aggiornamento