Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: L_aura_grey    10/08/2014    5 recensioni
C'è un luogo, al di fuori del tempo, al di fuori dello spazio, dove un vecchio dio si aggira per raccogliere i Momenti della gente, li scrive in libri che poi vengono dimenticati su scaffali di legno. Il Biblotecario è lì perché qualcuno li ricordi, è lì per aprire le porte a chi possa leggerli e, saltando in portali sospesi tra pianeti sconosciuti, viverli.
Perché solo l'uomo è allo stesso tempo tanto piccolo e tanto grande.
[Storia partecipante al contest indetto dal gruppo FB "Io scrivo su EFP"] [Un'immagine per una storia]
Genere: Generale, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 






Il Crocevia - The Librarian
Il piccolo uomo che rese possibile l’impossibile
  
 



 

Come tutte le storie, questa inizia, anche se con una fine; più precisamente, la mia.

Al mio funerale vennero in tanti, la maggior parte non li conoscevo, ma si poteva dire che erano tutti lì per commemorare i morti del Titanic. Tra la folla vedevo mia moglie, la mia tenera moglie, Anne Brigitte, tremare, il nostro piccolo Michael, che le teneva la mano, fiero nel suo vestitino nero tirato fuori, e a lucido, giusto per l'occasione, e mia sorella Claire che, come suo solito, non si lesinava dal lanciare sguardi di astio a chiunque si avvicinasse un po' troppo. Ancora portava il lutto per il suo povero marito, ora ci sarei stato anche io, sulla lista.
Ero così assorto nella mia atterrita contemplazione che quando il vecchio mi mise una mano sulla spalla per scuotermi sobbalzai per lo spavento: "Avanti, ragazzo, non voglio stare qui tutta la sera, li hai visti, ora sei contento e possiamo andare di sotto. A star qui a prendere aria, altro che mal di schiena, posso buttarla direttamente."
Lo guardai, un attimo stralunato, poi lui mosse la mano, spazientito, mentre passava l'altra in direzione dell'enorme passaggio e la scena a cui stavo assistendo scomparve, lasciando posto all'enorme cielo azzurro, alle morbide nuvole che gli facevano da sfondo assieme a enormi pianeti che si intravedevano e galleggiavano, sfumati dalla distanza: vi erano Venere e Giove, Marte e Plutone, assieme a molti altri che non avevo mai visto sui libri di scuola, dai colori e le forme più disparate.
"Avanti, ragazzo, o vuoi farmi aspettare tutto il giorno? Ho del lavoro da fare e tu da imparare" grugnì il vecchio, mentre si avviava per la lunga scala a chiocciola, che pareva scendere e sparire fra un pavimento di nuvole. Mai, però, mi sarei azzardato a provarne la solidità. Anzi. Era risaputa la mia paura per le altezze, o per i mezzi di trasporto, per i cani grossi, gli spazi troppo aperti e affollati e tante altre cose ancora. O almeno lo era per la mia famiglia, non ci fosse stata Claire, prima, Anne Brigitte, poi, a trascinarmi fuori di casa probabilmente avrei seguito le orme di Giacomo Leopardi, passando la vita fra i libri, anche se di certo con meno brillanti risultati. Ero un libraio, non uno scrittore, e io su quel dannato transatlantico non ci volevo neppure salire.
"Vai e porta i tuoi polverosi libri in America, noi ti raggiungiamo presto. Ti chiederei di scriverci com'è, ma so che non alzerai naso da quelle pagine neppure per vedere se ci sono gradini in cui inciampare."
Come mi conosceva bene, la mia donna, la mia compagna per la vita. La prima cosa che avevo fatto, salito sul Titanic, era stato mancare l'ultimo gradino che mi avrebbe portato al ponte della cabina di seconda classe che condividevo con altre tre persone, a cui avevo degnato appena un'occhiata. La mia cuccetta era stata presto sommersa dai libri più preziosi che mi ero portato dietro e che non potevo accettare di lasciare nella umida stiva. Avevo passato tutto il mio tempo lì, senza rimettere naso fuori. Ecco, almeno non ero claustrofobico, ma il sapermi in mezzo al mare su un mostro a motore di metallo di 270 metri di lunghezza mi teneva arpionato ai miei amati tomi.
Più volte mi ero chiesto perché avessero voluto mandarmi lì. L'idea di spostare la libreria non era stata mia, non ero stato io a trovare il biglietto per quella trappola di acciaio, non ero stato io a decidere che, sempre io, in qualità di capofamiglia, dovevo andare e vedere coi miei occhi com'era la vita nella gloriosa America. Mi mancavano anche diversi decimi ad ambedue gli occhi, avevo fatto notare come la metafora non fosse appropriata.
In ogni caso non avevo avuto scelta, persino Michael aveva insistito, trascinato dall'entusiasmo delle donne di casa. Figlio traditore, aveva solo sette anni e già mi aveva venduto alla vista di un paio di tette.
Dovevo mettere piede sulla Terra delle Meraviglie e invece ero finito in quel posto che scindeva da una qualsiasi legge fisica, chimica, geografica, razionale e dal semplice azione-reazione. Posai la mano sul freddo acciaio della ringhiera troppo sottile per i miei gusti, aggrappandomi con lo stomaco che avvisava che stava per rimettere. Non staccavo le dita neppure quando incontravo le foglie del rampicante che si attorcigliava tutto attorno alla scala a chiocciola. Persino quella pianta era completamente sconosciuta, le foglie larghe con disegni mai visti, alcuni che mi parevano addirittura avere una forma sensata, come volti, oggetti o addirittura edifici famosi. Ma di certo era il mio cervello che giocava brutti scherzi.
"Quindi quello era... il p-presente? Il futuro?" mi azzardai a chiedere, lo sguardo fisso avanti a me, per paura di incontrare il vuoto sotto ai gradini in metallo.
"Nessuno dei due, ragazzo, entrambi, poco importa. Capirai presto che il tempo è relativo, soprattutto in un rapporto tra il mondo mortale e il Crocevia. Non hai mai sentito parlare di Einstein?"
"E-Einste-che?" balbettai, mentre finalmente raggiungevano il livello delle nuvole, per poi scendere ancora più in basso.
"Niente, ragazzo, niente. La vostra storia è così ricca che a volte faccio confusione con le date. Probabilmente nel 1914 non era ancora così famoso. Ah, la mia povera testa, non potevo essere un dio di quelli onnipotenti e onniscienti, no, tutto quello che mi hanno dato è stato un corpo da vecchio, ma immortale, e un labirinto dove incidere i
momenti. Bah, insulsi mortali, se devono fare le cose, almeno le facciano bene, non rendano le cose impossibili a un povero anziano..."
Misi le sue lamentele in secondo, terzo piano, mentre ancora una volta mi ritrovavo a sgranare gli occhi.
Il vecchio aveva ragione a definirlo un labirinto, fatto di scaffali e pile di libri. Se l'immenso cielo in cui si trovava il portale non aveva fine, la stessa cosa era per le pareti di quel posto, i mobili in legno semplicemente si perdevano nell'oscurità. Un soffitto e un pavimento c'erano, entrambi fatti in grosse e levigate pietre dai colori caldi. Se gli scaffali più alti arrivavano ai tre metri, l'altezza del soffitto li superava di tre volte tanto, quindi lo spettacolo dalla scala era più che considerevole. Nell'immensità delle nuvole il portale era stato l'unico a svettare, dal soffitto di quell'immenso labirinto si aprivano invece più e più aperture, con decine e decine di scale, a chiocciola e non, oppure quelli che parevano elevatori più o meno futuristici a volte anche solo strane e vuote piattaforme. In alcuni punti, invece, si ergevano montagne, pile di libri dalle copertine dai più svariati colori, formando quello che era un vero e proprio paesaggio naturale.
Come per quando eravamo saliti per quella lunga scala, per un attimo mi dimenticati della paura e mi fermai a osservare quello spettacolo, illuminato da fuochi fatui dalle differenti dimensioni e colori, che si liberavano in aria neppure fosse stata la cosa più naturale del mondo.
Uno di questi si mosse dalla sua postazione, volandoci incontro.
Era grande più o meno come la mia mano aperta, un corpicino dalle forme umanoidi ma abbozzate e fiammeggianti. In quel momento era di un arancione chiaro ma quando si attaccò alla barba del vecchio il colore divenne scuro, quasi rosso e il fuoco fatuo emise un crepitio tanto acuto da poter sembrare uno squittio. Sbattei le palpebre, interdetto, perché avrei potuto giurare che era stato un verso di saluto.
“Ah, questi stupidi mostriciattoli, sempre tra le scatole” si lamentò l’anziano, dando un colpo con la mano alla creatura, che volò nella mia direzione, colpendomi al petto. Con un’esclamazione di spavento mi tirai indietro, incontrando il gradino e finendo per dare una sederata. Mi tastai il gilet che portavo, sicuro che il contatto col fuoco fatuo lo avesse in parte bruciato. Invece era intatto e, in effetti, ora che ci pensavo, non avevo sentito calore quando la fiammella volante mi aveva colpito, solo una lieve consistenza, come un vento tanto vicino da poter sentire la compressione dell’aria.
Il fuoco fatuo pigolò, dispiaciuto, un rumore che solo il fuoco avrebbe potuto fare, ma quella fiamma non mi aveva scottato. Avevo visto così tante cose impossibili in quelle poche ore che, se prima mi sarei cercato un libro dietro cui nascondermi, mi ritrovai ad allungare la mano. Tremava, ma andò avanti fino a sfiorare la testolina, grande quasi due terzi del totale e rotonda, di quello strano essere. Stessa sensazione di prima, non vi era pelle o quant’altro in quella figura avvolta da fiamme che non bruciavano, ma una sorta di consistenza improvvisa che impediva di andare avanti.
Sobbalzai di nuovo quando la creaturina si mise a fare dei versi che sembrano… fusa?
“Vuoi rimanere a giocare tutto il giorno con lei? Andiamo, questo tour dovrà pur finire, prima o poi!” sbuffò il vecchio, riprendendo a scendere. Titubante, mi rialzai e gli andai dietro, tenendo d’occhio il fuoco fatuo, che dal canto suo prese a seguirci.
“C-cos’è?” domandai, riaggrappandomi alla ringhiera, cercando di ignorare il buco che percepivo nello stomaco: non pareva che quel tizio si sarebbe fatti problemi a lasciarmi lì fino a quando non sarei sceso rotolando. Meglio distogliere l’attenzione dai metri che ci dividevano dal pavimento.
“Uno spirito” rispose, sintetico, il vecchio.
“Uno s-spirito?” ripetei, interdetto.
“Non dirmi che sei uno di quelli che ripetono le ovvietà a pappagallo” sbuffò: “Sì, lo spirito di un essere umano. In questo caso. Chiunque abbia avuto un rilevante ruolo nel scrivere la Storia, abbastanza dall’essere ricordato, quasi adorato, si trova qui. La loro impronta è così forte che le regole dei libri sono più facili da rompere, per loro, per questo vagano liberi per il Crocevia. Ma sono per lo più presenze, quella potrebbe essere Cleopatra come Giovanna d’Arco, se ricordano il sesso che avevano da mortali è già tanto.”
Lo ascoltai, affascinato. Ciò non rese però più breve il resto della discesa. Continuai anche, però, a lanciare occhiate alla creaturina, che ci seguiva, apparentemente contenta, rischiando per questo più volte di mettere il piede in fallo. Arrivai intero infondo per puro miracolo.
Avrei chiesto un attimo per riprendermi se il vecchio fosse stato ancora a portata d’orecchi. Lo fissai per qualche istante muoversi fra gli scaffali, la figura retta e muscolosa, nonostante gli anni che pareva avere sulle spalle. Potevo immaginare il volto abbronzato e imbronciato spuntare dalla zazzera bianca e la riccia barba, con su l’espressione che solo gli anziani che ancora erano intenzionati a vivere potevano avere. Gli avrei dato ottant’anni, ma aveva più energie e resistenza di me. Anche se effettivamente non ci voleva molto.

Presi un bel respiro e gli andai dietro, correndo impacciatamente per recuperare il terreno perso. Una volta arrivato a una distanza più accettabile rallentai e aspettai che il fiatone passasse prima di porre un’altra domanda. Era quello che avevo fatto più o meno da quando ero arrivato lì, porre domande su domande, fino a quando non avevo chiesto se potevo vedere mia moglie, mio figlio e mia sorella. Il vecchio aveva risposto a tutte, palesemente scocciato, ma con meticolosità, poi mi aveva condotto davanti al portale. E da lì era stata pazzia pura.
Un secolo per ciascun portale, poi lì davanti si decideva il dove da una mappamondo dove si doveva immaginare la destinazione. Si impostava il tempo, ma solo quello che andava più vicino al momento. Quel posto non registrava il tempo in modo sequenziale, piuttosto a fatti, momenti importanti e significativi, che fossero di persone, famiglie, nazioni o del pianeta stesso.
Così mi ero ritrovato davanti il mio funerale.
“P-perché i numeri sono s-scritti con quelli arabi? Non sarebbero più corretti quelli romani? O anche una semplice numerazione che scinda dal calendario c-cristiano?” mormorai.
Sotto l’arco del portale che mi aveva mostrato ciò che restava della mia famiglia vi era un grosso numero venti in metallo che veniva sorretto da decorazioni in uno stile liberty, anche se relativamente semplice.
“Sei al Crocevia, ragazzo. Vedi ciò che vuoi vedere, principalmente, o come credi che debba essere” l’anziano si fermò, voltandosi verso di me: “Dimmi, come mi vedi esattamente?”
Mi presi qualche istante di riflessione, prima di rispondere, titubante: “Un notaio o… un avvocato in pensione?” azzardai “Comunque un uomo di alta elevazione sociale..?”
Il vecchio scoppiò a ridere e io incassai la testa fra le spalle, in imbarazzo: mi era più facile giudicare un libro da una rapida lettura che una persona. Anche mi avesse raccontato la sua vita passo per passo avrei continuato a non capirla. Quello accadeva con mia sorella. Ma non con Anne Brigitte. E con Michael… la sua vita la stavamo scrivendo assieme.

L’anziano si fece ancora più dritto e imponente, guardandomi serio: “Un notaio?” ripeté, facendomi sentire al pari di un bambino che ha appena dato la risposta sbagliata al proprio preside. Non mi era accaduto molto spesso, ma quando mi ero ritrovato di fronte a quel grosso e scuro omone ero sempre a un passo dal farmela sotto: “Io sono Kairos! Sono un dio! Il dio greco che valuta, conosce e archivia la quantità qualitativa del tempo, sciocco umano.”
Mi bastò un battito di ciglia perché l’elegante vestito di sartoria con cui l’avevo visto vestito fino a quel momento scomparisse, sostituito da un chitone, al posto delle scarpe tirate a lucido vi erano ora dei sandali e non mi sfuggì neppure la spada che improvvisamente portava al fianco.
Spalancai la bocca, probabilmente in un immagine più patetica di quanto non fossi già d’insieme, dato che il dio scoppiò a ridere. Anche il fuoco fatuo scoppiettò, divertito.
“Vedi? Il mondo di voi mortali è regolato da quella che definite realtà, leggi fisiche, chimiche, matematiche, quello che vuoi. Ma tutto il resto…” si portò due dita a indicare le tempie: “Tutto ciò che resta è semplice frutto di questo. Della vostra mente, dei vostri pensieri, da ciò che viene partorito dalle vostre sinapsi. Storie, divinità, sogni, incubi, emozioni… è tutto qui” spalancò le braccia “Ovunque e da nessuna parte. Benvenuto al Crocevia, Bibliotecario.”

 

 

Una delle cose che più mi perplimeva riguardo a quel luogo era il suo legame col tempo e il fatto che, appunto, non vi fossero oggetti, orologi, meridiane o anche solo clessidre a indicare che scorreva anche lì.
Da quanto camminavo fra quei corridoi? Da quante ore, quanti giorni, da quanti anni facevo scivolare le dita con delicatezza sulle coste, come a carezzare vecchi amici, fino a che non mi spingevo oltre e sfilavo il libro dal suo ripostiglio, mi sedevo per terra e leggevo, leggevo e leggevo? Non provavo fame, sete, neppure sonno. Persino la stanchezza, mi accorsi, era solo un’imposizione della mia mente e velocemente ne imparai a fare a meno. Mi pareva quasi di essere incastrato in un infinito istante che racchiudeva prima, durante e dopo. Era pura follia e più mi addentravo, più leggevo, più vivevo in quel luogo più mi convincevo di essere caduto vittima di una malattia mentale che non lasciava scampo.
Il vecchio era scomparso da… tanto. Da quando le domande erano esaurite, solo una era rimasta senza spiegazione: perché io?
“Perché no?” era stata la telegrafica risposta, che ciò non era, dato che era stata solo una domanda alla domanda.
Ma torniamo ai libri. Quanti ne avevo letti? Centinaia, migliaia, forse, e immagino sia facile credermi che avevo probabilmente sfiorato la percentuale dell’un milionesimo del totale. Ma non importava. Leggere era l’unica cosa che potevo fare per non impazzire nella pazzia. Non ve n’era uno uguale all’altro, a prescindere di quello che trattavano. Alcuni erano diari, altri racconti epistolari, potevo leggere un dettato storico e la volta dopo un romanzo in prima persona. Storie di nazioni, storie di amori, storie che conoscevo e altre che parevano totalmente inventate.
Per verificarne la veridicità mi bastava salire le lunghe scale, affacciarmi sul portale inerente al secolo, impostare data e luogo, ritrovandomi a vedere ciò che fino a quel momento erano state solo lettere su carta. Allungavo la mano, trovandovi una superficie che, chiaramente, mi impediva di passare dall’altra parte, di tornare nel mondo reale, anche se nel passato.
Ovviamente le mie visite ai portali non erano molto frequenti, le scale potevano avere forme differenti a causa dell’epoca che rappresentavano, ma tutte puntavano spaventosamente verso l’altro, sfondando il soffitto di piatra per emergere da un pavimento di nuvole.
C’era da dire che mi ero sempre mosso in direzione del passato, arrivando a leggere del primo pensiero, della prima scintilla che scindeva dal mero e proprio istinto. Da lì, avevo capito, era nato tutto quello che mi circondava.
Il fatto che riuscissi ad andare avanti, libro dopo libro, riga dopo riga, storia dopo storia senza, apparentemente, impazzire era la prova che quel posto non poteva davvero esistere al di fuori del manicomio in cui dovevo trovarmi. Non venivo a stancarmi mai, non sentivo la necessità di smettere mai, semplicemente prendevo, aprivo, leggevo, richiudevo e rimettevo a posto, prima di passare a quello dopo, in quella ritmica danza dove l’unica mia compagna era il fuoco fatuo.
Cleo, così l’avevo chiamata, ricordando le parole del vecchio dio, mi seguiva ovunque, a volte silenziosa, a volte rumorosa come uno spettacolo di fuochi d’artificio, che avevo visto solo una volta ma che mi aveva traumatizzato a vita, con tutti quegli scoppiettii.
Passava dalla mia spalla alla testa, poi mi gironzolava attorno, studiando i libri, sempre senza perdermi di vista e si spostava con me in quell’eterno girovagare.
Col tempo i dettagli si fecero sempre meno nitidi, di fronte alla riduzione del mio bisogno di vederli, e andavano svanendo anche quelli del mio passato sul pianeta sanità. Ogni tanto mi sforzavo, fermandomi a chiudere gli occhi, immaginando il giorno in cui avevo lasciato la scuola, quello dove mia sorella mi aveva preso a pugni e quando mi aveva difeso dai bulli, quello dove avevo incontrato mia moglie, l’apertura della libreria, il giorno in cui avevo sposato Anne Brigitte, la nascita di nostro figlio che aveva coinciso con la morte del marito di Claire, il suo volto che, comunque, tra le lacrime e i vestiti trascurati, aveva avuto la forza di sorridere per la nascita di suo nipote.
Anche il giorno dove era iniziata quella prigionia. Riportavo alla mente il rumore agghiacciante dell’iceberg che scontrava con il Titanic, l’acqua che scendeva dai gradini, io che scivolavo, per l’ennesima volta, in un disperato tentativo di uscire, fra le mani tutti libri che ero riuscito ad arraffare, libri che mi avevano fatto sbilanciare, cadere all’indietro, in una discesa che pareva senza fine. Invece del pavimento allagato ero atterrato su quello del labirinto, il faccione di Kairos su di me. E non sorrideva. Non era stato un granché come inizio.
Più andavo avanti, più velocemente leggevo, più mi pareva di assimilare le parole al semplice posare lo sguardo sulle pagine, poi, un giorno, mi bastò posare la mano su un libro per ritrovare semplicemente tutto ciò che vi era scritto sopra stampato a fuoco nella mia mente, così come tutto il resto. Non ricordavo la mia vita da uomo bene tanto quanto avrei potuto ridettare quei testi, uno a uno, senza sbagliare una virgola.
Il libro scivolò fra le mie dita, cadendo per un tempo che sembrò infinito, atterrando sul pavimento con un tonfo che parve riecheggiare per tutte le pareti del labirinto.
Rimasi immobile, gli occhi sgranati, mentre il silenzio tornava ad avvolgermi. Neppure Cleo si azzardò a fare rumore, limitandosi a fissarmi con i suoi accesi occhi azzurri.
La mano tremante, sfiorai un’altra costa: le parole mi aggredirono con una velocità tale che caddi anche io a terra, fra pagine e tomi che non avevano trovato posto sugli scaffali. Il risultato fu lo stesso.
Non era doloroso, non sentivo la testa esplodere, non era come se le nozioni si raggruppassero nella mia mente ma piuttosto come se quei libri fossero divenuti una mia estensione. Mi portai le mani alle tempie, chiudendo gli occhi, senza riuscire a impedire ciò che mi stava accadendo.
Quello il vecchio non me l’aveva detto.
Solo due erano stati i compiti che mi erano stati dati:
“Stai qui e apri le porte. Insomma, fai il bibliotecario.”
"Perché?” avevo chiesto io, per l’ennesima volta.
“E che ne so. Sono un dio del tempo, non sono onnisciente. Ci deve essere un Bibliotecario e quello sei tu” aveva grugnito in risposta Kairos, sputando in terra e inveendo per l’ennesima volta contro la razza dei mortali.
E quindi quello cos’era?
Cosa stava accadendo?
Se davvero quello non era il frutto della follia, quelle parole, quei fatti, quelle vite che divenivano parte di me, o di cui divenivo parte, non avrei avuto altre ipotesi. Semplicemente mi stavo perdendo, la mia storia di sensazioni, di emozioni e sentimenti stava divenendo sempre più piccola in quel mare di lettere.
Stavo ormai per gridare “Chi sono?!” quando una mano fredda si posò sul mio volto.
Il terrore mi avvolse, mi circondò nel suo gelido abbraccio e ciò che urlai fu una semplice richiesta di aiuto, che morì nel giro di qualche secondo, mentre tutte le
mie paure tornarono a ghermirmi, trascinandomi al punto di partenza.
La paura di perdere la mia ancora, Claire, di veder spazzato via il mio futuro, Michael, e la parte buona e avventurosa di me: Anne Brigitte. Non erano più con me da molto, ma la loro impronta mai sarebbe scomparsa. La paura di perderli tutti.
Tutto ciò, queste erano le mie vere paure, più di quella delle altezze, più degli insetti, delle folle o del parlare in pubblico, più dei grossi cani e dei grandi spazi aperti. Anche più del restare solo, solo come ero in quel momento.
Mi riancorai a questa parte di me, mentre ogni peggiore incubo mi faceva tremare per la sola
possibilità.
Poi, molto lentamente, quella mano ossuta e gelata si scostò e tornai a vedere.
Tremante, ero arrivato a un passo dal farmela nei pantaloni.
Davanti a me si ergeva una figura spessa e grigia, ammantata di nebbia scura densa, il capo coperto da un cappuccio che mi impediva di vederne gli occhi: ringraziai per questo, perché sapevo cosa fosse.
“Non ancora, uomo. Non è ancora tempo, devi aprire le porte ai viandanti.”
La sua voce era lo stridio di un gesso sulla lavagna e allo stesso tempo l’eco spaventoso che scontrava fra le pareti di un pozzo, acuta e bassa allo stesso tempo, quasi più persone avessero detto la stessa cosa allo stesso tempo.
“C-cosa è s-successo..?” balbettai, gli ultimi residui di panico che mi tormentavano placidamente. Probabilmente avrebbero continuato a farlo fino a quando lei non si sarebbe allontanata.
La Paura era in fronte a me, su due gambe, che mi fissava e probabilmente mi aveva sottratto a un destino dove sarei stato una storia in mezzo a un infinito di storie. Come tutti gli altri. Mi tornarono alla mente le parole di Kairos, ma il fatto che la Paura fosse come la immaginavo non diminuiva la forza di ciò che avevo davanti.
Le grandi emozioni umane abitavano nelle epoche, nei secoli, create e più volte richiamate dalla gente, finendo per girovagare per quei corridoi. Non mi ero mai ritrovato di fronte a uno di quelle sorta di fantasmi, limitandomi a vederli sfilare di sfuggita, scomparendo dietro il primo angolo.
“Il Crocevia ti stava facendo divenire parte di sé. Come i libri, la storia, le emozioni, tutto qua è un’unica cosa, tranne te e ciò che, bene o male, continua a mutare” rispose, con quella sua spettrale voce.
Nel rialzarmi, per sbaglio, scorsi i suoi occhi attraverso il cappuccio strappato e ricaddi in balia del terrore.
“Quello fra gli occhi, Bibliotecario, è un contatto molto intimo, si dovrebbe concederlo a pochi. Si rischia sempre di vedere troppo dentro” fu l’unica cosa che mi disse, mentre distoglieva lo sguardo, dandomi le spalle, cominciando ad allontanarsi, liberandomi dalla sua morsa.
Singhiozzai, cercando di pulirmi il volto da muco e lacrime.
“Ma c-cosa devo fare?” gemetti, gli occhi appannati, gli occhiali finiti chissà dove. Fu Cleo, con gentilezza a riposarmeli sul capo: “Cosa d-devo f-fare perché non accada d-di nuovo..?”
La vidi fermarsi, girandosi abbastanza per darmi il profilo del suo volto grigio. Impossibile dire se fosse bello o brutto, di certo era sgradevole.
“Non puoi impedirlo, ex uomo. Quella è la tua fine, come la morte è quella delle creature viventi. O semplicemente l’inizio di qualcosa di differente. Il punto è, Bibliotecario, che tu hai un compito da adempire, prima di ciò. Perché solo un uomo può rendere possibile l’impossibile. Vinci la tua paura, e potrai farlo.”
Spalancai la bocca per rispondere, ma nel giro di poco la Paura se n’era andata.
Poggiai la schiena contro lo scaffale e i libri che conteneva, senza che, questa volta, le parole mi aggredissero. Mi lasciai andare in un pianto patetico che nulla aveva di liberatorio, mentre Cleo mi si posava sulla spalla, carezzandomi i capelli.

 

 

Da solo non avrei mai potuto farcela. Da solo ero un piccolo e spaventato topo, o uomo, da biblioteca.
Ripresi il mio viaggio nel passato, scoprendola così diversa da quella dei libri di storia. Appresi la paura, quella di migliaia di persone prima di me, conobbi il coraggio, qualità che raramente mi aveva mai sfiorato, riscoprii l’amore, comprendendo quanti differenti tipi ve ne fossero. Orgoglio, terrore e desiderio. Quelli scritti nei libri erano fatti, ma non erano di questi che realmente parlavano. Fu, la mia, una scoperta dell’umanità, con i suoi lati negativi, le sue disgrazie e le vergogne, ma anche un orgoglio inaspettato, perché eravamo in grado di risalire dalle chine più ripide, dalle fosse più buie.
Anche nell’oscurità più assoluta una luce poteva splendere, questo, compresi, libro dopo libro, secolo dopo secolo, gli uomini erano in grado di fare, grazie a ciò che chiamavamo sogno. Così come nel paradiso più limpido può sempre nascere il marcio.
Ribaltare la situazione, prendere qualcosa e farlo marcire come risplendere, era una scelta.
Capii, era anche la mia scelta.
Se lasciarmi assorbire senza combattere i miei demoni o aprire la porta al dopo.
Il piccolo uomo che era arrivato lì non sarebbe riuscito a risalire quelle scale senza la giusta motivazione.
Colui che si era aggirato per gli scaffali, in cerca di una via di fuga era il demone di sé stesso.
Dopo essere stato questo, dopo aver visto le mie reali paure, avevo aperto gli occhi, riscoprendo il piacere dei dettagli, andando oltre. Non leggevo più la storia, leggevo gli uomini.
Mi ritrovai a permettere a quelle persone, esistite prima, dopo e durante il me che si trovava nel Crocevia, di scorrermi attraverso, di lasciare il segno, di lasciare il bello come il brutto, il coraggio come la codardia. Era una risalita, la mia, perché avevo toccato il fondo.
Rilessi dei primi passi, del fuoco, della ruota, della scrittura, della matematica, dei primi grandi imperi, dei sumeri, degli egizi, dei greci, dei romani. Non c’era un vero ordine, nella mia risalita, pareva più una spirale che comunque puntava verso l’alto.
Non avevo più bisogno di aprire i libri. All’inizio dovevo solo sfiorarli, poi mi bastò passare accanto, consumando, vivendo in bianco e nero quelle vite. Poi mi arrampicavo su per i cumuli. Io, che la più grande fatica che avevo fatto in vita mia era stata concepire Michael. La più deliziosa, anche, era vero. Scalavo, aggrappandomi alle pagine, cadevo, scivolando sulle copertine. Quelle montagne erano la storia dimenticata, mi aveva detto Kairos, quei momenti che, ritenuti senza valore o perché semplicemente non si era stati abbastanza per ricordarli, non si trovavano più nella memoria di nessuno, neppure attraverso fiabe, canzoni o giochi.
Volevo conoscerla, volevo capire anche quella, come quando mi ritrovavo a vivere, nella mia libreria nella realtà, in Inghilterra, la vita di altri.
Ora non più. Ora ero io che volevo vivere, ormai, però, quello era l’unico modo che avevo.
Fu quasi una sorpresa, poi, ritrovandomi di fronte a quello che, per me, era il punto di partenza.
Osservai, Cleo come sempre al mio fianco, il grosso numero venti in metallo che sovrastava l’arco, da dove nasceva la spirare della scala a chiocciola.
Sentivo la storia attorno a me scivolare sotto la mia pelle, immaginando le grida di gioia, i pianti, le esultazioni, le parole crudeli e di buon auspicio da ciò che leggevo.
Cleo squittì, in un’impaziente attesa, facendomi posare la mano sulla ringhiera: era fredda e liscia.
Gradino dopo gradino cominciai a salire, lentamente, senza mai guardare in basso. Sapevo cosa c’era dietro e sotto di me, un vuoto riempito da un rumoroso passato, così rumoroso da non poterlo ignorare, da non fare più paura.
Feci scivolare le dita sulle foglie del rampicante che mi accompagnava nel mio viaggio, riconoscendo i disegni, le persone, i luoghi, le emozioni che avevano assorbito e rappresentato, arrivando infine a vedere il sole perenne, trovando le nuvole attorno a me e superandole mi ritrovai davanti al portale.
Per un attimo mi permisi di guardarmi attorno, osservando quei pianeti dai così inusuali colori, il cielo chiaro, un vento che, sapevo, era frutto solo della mia immaginazione. Poi mi rivoltai verso il portale, osservandone la struttura in pietra e metallo, uno stile così simile a quello che avevo conosciuto come no.
Bastò un pensiero, un sussurro di pensiero, poiché il mappamondo, come gli orologi, erano come le rotelle per un bambino che ancora doveva imparare ad andare senza sulla bicicletta. Per me era lo stesso. Dovevo trovare il coraggio di andare avanti, di accettare. La storia, il passato, gli alti esseri umani, mi avevano insegnato a farlo. Perché, comunque sarebbe andata, se non noi, qualcun altro avrebbe comunque fatto un passo avanti, e avanti ancora, passando il testimone e così via, fino ad arrivare alla parola fine.
Lo spazio fra il portale si illuminò di bianco, prima che la scena andasse a dipingersi, come se creata in quel momento dalle mani di un pittore.
Michael era seduto al tavolo della cucina. La nostra, cucina. Anne Brigitte gli stava preparando le uova strapazzate ai fornelli. Con un po’ di immaginazione potevo anche io sentirne l’odore e così fu. Sorrisi.
Sentì il passo leggero, si fa per dire, di mia sorella salire per le scale in legno, aprendo poi la porta, con il fiatone, addosso ancora il suo scialle nero, e tutti gli occhi nella stanza furono su di lei: “Ho trovato una nave e tre biglietti. Si parte fra tre settimane, basta preparare le carte.”
Vidi mia moglie rivolgerle uno sguardo affilato, mentre posava il piatto con dentro la pietanza in fronte a Michael: “Hai sprecato soldi, Claire, se già li hai pagati. E ne abbiamo pochi. Questa guerra sta prosciugando tutti.”
“Anne, possiamo farlo noi, andare là, in un posto più sicuro e con quello che abbiamo ereditato dai miei genitori possiamo sopravvivere fino a quando la libreria non prende la giusta piega e…”
“E dimmi, con che libri? Quelli più preziosi sono in fondo al mare, assieme al cadavere di mio marito” Anne Brigitte batte i pugni sul tavolo, abbassando il volto, mentre qualche ciocca le sfuggiva dalla chioma tenuta all’indietro, andando a coprirle gli occhi, i suoi bellissimi occhi azzurri, in cui tante volte mi ero perso, gli stessi che nostro figlio aveva ereditato.
“Era anche mio fratello” rispose, fredda, Claire.
“E mio padre” inaspettata, la voce di Michael si fece sentire ed entrambe le mie donne si voltarono a guardare il suo faccino. Non aveva più sette anni, era un bimbo di nove. Quella macchina non andava a tempo, andava a momenti, e mio figlio era cresciuto, era andato avanti senza di me.
Eppure… eppure sapevo di essere ancora lì, di essere a sorreggerlo. Non lo avevo perso, non l’avrei fatto mai, così come lui non avrebbe mai perso me. Sempre sarei stato lì, presente come il passato, invisibile, ma pietra per lo splendido futuro. Non mi faceva più paura, al contrario, volevo scoprirlo. E lo stesso desiderio ardeva nello sguardo limpido di mio figlio, nelle sue vene, sotto la sua pelle e lo proiettava in avanti. Quelle stesse membra, ora così giovani e piene di energie, che un giorno sarebbero state polvere. Ma non lì, non in quel
momento.
“Papà ci aspetta tutti là” si limitò a dire, finendo il piatto e scendendo dalla sedia, posando una mano sulla spalla di Anne Brigitte, cosa che avrei voluto fare io, ma mi accontentai a posare la mano su quella superficie invisibile che mi bloccava, il più vicino che potevo e, incredibilmente, mi bastò.
“Dobbiamo ricominciare, lì possiamo farlo” concluse, nella sua infinita sapienza di bambino di nove anni, sorridendo. Fu un sorriso contagioso, perché anche Claire perse un po’ del lutto che portava addosso e parve più leggera, mentre Anne Brigitte pareva aver avuto di nuovo il permesso di sperare in un futuro. Non migliore, non peggiore, ma come per me, la sua vita si era bloccata tre anni prima.
Anche io sorrisi, mentre la scena scompariva, tornando a mostrare il paesaggio. Ora potevano andare avanti. Potevo, andare avanti.
Lo feci, osservando la vita di mio figlio, quella dei figli dei suoi figli, andando avanti, sempre avanti, spostandomi da portale a portale, vedendoli cadere, vedendoli mentre si rialzavano, mentre sognavano, speravano, mentre si perdevano nella paura e nella disperazione, ma continuavano a sopravvivere, a vivere, e io scoprivo la storia dell’uomo attraverso di loro, con loro, non solo coi libri e con le parole, ma anche con gli occhi, fino a quando venne il giorno.
Alla mia porta qualcuno bussò. Era una ragazza, una donna a essere onesti, lontana discendente di Michael, lontana discendente mia. Non potevo dire se era bella, ai miei occhi lo era, tantissimo, la più bella delle creature, la più intelligente, la più sognatrice, poiché aveva reso possibile l’impossibile, ovvero l’arrivare a me, arrivare ai Momenti, aveva vinto la realtà, ogni sua legge per poter viaggiare nel tempo. Non mi restava altro da fare che aprirle la porta. Lo feci.
Con lei e con tutti quelli dopo di lei, conducendoli con passo deciso per i corridoi, senza più balbettare, perché quei soffitti e pavimenti di pietra erano divenuti il mio sostegno, i libri il mio cuore, con i suoi aspetti negativi e positivi, lo avevano reso umano.
Li conobbi tutti, dal primo all’ultimo. Già, l’ultimo, perché per quanto si possa pensare che l’universo sia infinito e dio onnipotente, a tutto c’è una fine, la storia dell’umanità prima fra tutto, e trovai un muro a quell’infinito labirinto di pietra e legno. Solo che non era fatto di nessuno di questi due materiali. Era fatto di nuvole.
Mi azzardai a provarne la consistenza, andando oltre, andando in tutto, perché storia, passato, presente e futuro divenissero un’unica cosa.
D’improvviso non provavo più terrore nel pensare alla fine, anzi. Semplicemente, significava un nuovo inizio.

 

Ormai mi restava un’unica cosa da fare, un ultimo pensiero, un ultimo desiderio, creare nel mondo reale, far vivere e infine portare Rian Libra nel Crocevia, salvandolo dal suo destino di morte perché compiesse il suo dovere, poiché vi era sempre bisogno di un Bibliotecario.
Chi è Rian?
Sono io, ovviamente, creatura di carne e ossa ma, prima di tutto, nato da un sogno.









 



 

nda

intanto grazie mille per aver letto ed essere arrivati fin qui, non sapete quanto possa esservene grata. ovviamente questa storia non sarebbe mai esistita se non fosse stato indetto il concorso "Un immagine per una storia" sul gruppo facebook Io scrivo su EFP da Nemainn, ottimo giudice e grande scrittrice.
grazie ancora a chi recensice (mai detto no ad apprezzamenti e critiche su cui dover lavorare) o chi, comunque, rimane colpito dalle mie parole; il mio sogno più grande è, appunto, emozionare.
una piccola curiosità, dato che l'autrice ha spesso problemi nel trovare il nome adatto al proprio protagonista, quello di Rian è nato dopo questo ragionamento, in senso opposto, ovviamente: Rian Libra, se invertito, da Libra Rian. Tutto assieme si legge Librarian, in inglese, Bibliotecario.

grazie ancora di tutto,
vostra,
L'aura Grey.






   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: L_aura_grey