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Autore: hazzas_hug    10/08/2014    2 recensioni
"Perché non potevamo ritornare a quegli anni, dove c’eravamo solo noi due, i litigi per i giocattoli o per chi doveva ricevere per primo il regalo a Natale? Se solo avessi potuto riavvolgere il nastro non avrei commesso tutti gli errori, non l’avrei abbandonata, magari l’avrei portata via da quel posto, permettendole di vivere e di amare più di se stessa quella bambina che aveva dato alla luce, perché ne avevamo bisogno tutti. La piccola. Lei. Io, soprattutto io."
Genere: Drammatico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sento scattare la serratura della porta e alzo immediatamente lo sguardo, per scorgere una figura che salterella per il corridoio con lo zainetto sulle spalle e il grembiule bianco.
“Zio Harry!”
Esclama, per poi infilarsi fra le mie braccia e schioccarmi un tenero bacio sulla guancia. Sorrido istintivamente per poi aiutarla a togliere lo zainetto e il grembiule.
“Hai fatto la brava a scuola?”
Le domando, fissando i suoi occhioni azzurri. Mi ricordano tanto lei. E fa male, averla così vicina ma così distante.
“Si, abbiamo giocato tutti insieme”
Afferma, mentre annuisce vigorosamente e allaccia le piccole braccia intorno al mio collo per mantenersi in equilibrio sulle mie ginocchia.
“Va bene, adesso vai di là a disegnare? Quando ho finito di lavorare vengo anch’io” le propongo e lei, immediatamente, scende per salutare Clara con un bacio affettuoso e poi dirigersi nella sua stanzetta.
“Tranquilla, va via, posso occuparmi di lei stasera, qui ho finito” mi rivolgo dopo a Clara, che annuisce e mi saluta con un sorriso ed un cenno del capo, richiudendosi la porta alle spalle. Sono stato sul serio fortunato ad incontrarla e ad assumerla come babysitter. Altrimenti non sarei mai riuscito a crescere Luce da solo. È una bambina ed ha bisogno di molte attenzioni che io, con il mio lavoro da aspirante giornalista, non riesco a dedicarle pienamente. Fortunatamente lei non sembra neanche fare caso a questo e soprattutto grazie a Clara, che le fa quasi da madre. Spengo il pc e mi avvicino al frigorifero per estrarne alcune melanzane e cipolle e iniziare a sciacquarle, disinfettandole con l’amuchina, proprio come avrebbe fatto lei per evitare che la bambina assumesse troppi germi. Al pensiero di lei allegra ad armeggiare ai fornelli con pentole e posate mi si appanna la vista, costringendomi a battere le palpebre ripetutamente per ricacciare indietro le lacrime e a tirare su con il naso. Mi asciugo le mani per poi avvicinarmi alla parete opposta, quella che io e Luce insieme abbiamo arricchito di foto. Ce n’è una in particolare che ho insistito per  mettere al centro. È la mia preferita. Due bambini con lo stesso taglio d’occhi e lo stesso sorriso si abbracciano, puntando lo sguardo sull’obiettivo e ammiccando con i capelli scompigliati dalla loro precedente ‘battaglia’.
 
*diciassette anni prima*
 
“Harry dai, dammi quella bambola, giuro che sistemo tutte le costruzioni che ho sparso sul tappeto”
La voce cantilenante della piccola aveva fatto quasi cedere il fratello di un anno solo più piccolo, insieme a quel paio di occhioni dolci da cucciolo smarrito che erano entrati nel suo campo visivo quando lei gli si era parata davanti per convincerlo ad ascoltarla.
“No Gemma, prima sistemi, poi dopo ti ridò la bambola” aveva affermato lui con aria di sufficienza, osservandola mentre metteva su il solito broncio per farlo intenerire. Vedendo poi, che il fratello non avrebbe ceduto e che se la mamma avesse trovato quel pasticcio sul tappeto ci avrebbero rimesso entrambi, si era voltata e inginocchiata sul tappeto, per iniziare a raccogliere i diversi pezzi colorati. Non era passato molto tempo prima che altre due ginocchia occupassero il tappeto affianco a lei per sistemare più velocemente. C’erano ancora delle costruzioni sparse qua e là ma la bimba, notando il fratello concentrato in tutt’altro che sorvegliare la sua bambola, si era alzata con uno scatto repentino per poi iniziare a ridere mentre si girava notando il fratello rincorrerla a pochi passi di distanza per acciuffare la bambola prima di lei. E lui aveva avuto la meglio, portando la bambola lontano da lei e placcandola fra le sue gambe per poi iniziare a farle il solletico, mentre si univa alle sue risate beandosi di quel suono che gli piaceva tanto, perché niente al mondo per lui sarebbe stato più importante della felicità di sua sorella.
“bambini ma cos-“ la mamma si era bloccata subito appena captata la scena sotto i suoi occhi, unendosi immediatamente a loro per bloccarli e iniziare a fare il solletico ad entrambi. Quando erano tutti sufficientemente stanchi e intenti a far tornare la respirazione regolare, si erano stesi sul tappeto l’uno affianco all’altro, mentre la mamma cercava di sistemargli amorevolmente i vestitini e i capelli scompigliati.
“Anzi no, una bella foto ora ci vuole, così vi ricorderete di quanto eravate terribili a cinque e sei anni” aveva affermato scherzando, allungando la mano verso la mensola su cui giaceva una piccola polaroid.
“dite ciiiiiis” li aveva spronati, mentre loro si abbracciavano senza neanche aspettare che lei glielo chiedesse, tanto era una cosa normale per loro.
“ciiiis”
 
 
Perché non potevamo ritornare a quegli anni, dove c’eravamo solo noi due, i litigi per i giocattoli o per chi doveva ricevere per primo il regalo a Natale? Se solo avessi potuto riavvolgere il nastro non avrei commesso tutti gli errori, non l’avrei abbandonata, magari l’avrei portata via da quel posto, permettendole di vivere e di amare più di se stessa quella bambina che aveva dato alla luce, perché ne avevamo bisogno tutti. La piccola. Lei. Io, soprattutto io. Avevo bisogno di vederla felice per esserlo anche io, ma me ne ero reso conto troppo tardi. Quando lo avevo capito avevo sperato di poter cancellare tutto il dolore e quegli anni trascorsi lontani semplicemente facendo finta di niente, ricominciando di nuovo, insieme, come da piccoli. E ci aveva creduto anche lei. Ma spesso la vita non va come vogliamo, anzi, ci rema contro per impedirci di viverla. E con lei era riuscita pienamente nel suo obiettivo. L’aveva portata via da me, da sua figlia, dalla possibilità di vederla crescere, cadere e rialzarsi più forte di prima, come aveva già fatto la sua mamma. Lei era sempre stata più coraggiosa di me, più forte. Io ero solo un vigliacco, fuggito alla prima opportunità, alle prime porte sbattute in faccia, alle prime conseguenze. Ero fuggito anche sette anni prima da mio padre, dai suoi ordini, dalle sue convinzioni, pensando di poter continuare quella vita che mi stava portando su strade completamente sbagliate. Cattive amicizie, brutti traffici, era questo che mio padre non tollerava. Voleva impedirmi di uscire, impedirmi di autodistruggermi, ma io ero troppo sordo ed orgoglioso per ammettere che sarebbe stata quella la mia fine se non gli avessi dato retta. L’autodistruzione. Con il tempo, però, mi ero reso conto che quella vita non era adatta a me, ma non avevo avuto il coraggio di accettare che avevo fallito, fuggendo ancora più lontano. In paese di me nessuno aveva saputo pi niente e lei era quella che aveva sofferto più di tutti. Aveva provato a cercarmi, ma tutte le volte che nostro padre la scopriva cominciava ad urlarle contro, troppo impaurito di perdere anche lei probabilmente. Col tempo era diventato irascibile, scontroso, tanto da arrivare ad alzare le mani quando lei gli aveva detto di essere incinta. Tutti pensavano che il padre del bimbo si sarebbe assunto le sue responsabilità, io stesso non riuscivo a crederci quando, tre mesi dopo ci eravamo finalmente ritrovati e mi aveva raccontato di come era magicamente sparito lasciandola sola in un mare di bugie e illusioni. Non riuscendo a tollerare oltre le urla di nostro padre e i suoi sguardi accusatori, aveva lasciato anche lei il paese per venire qui, a Londra, nella città in cui entrambi sognavamo di venire a vivere da piccoli, insieme, utilizzando ogni mezzo a sua disposizione per cercarmi. E la gioia che avevo provato quando quel lunedì mattina si era presentata alla mia porta ancora oggi non riesco a descriverla. Ricordo il suo sorriso smagliante, l’abbraccio che nessuno dei due voleva più sciogliere, troppo increduli entrambi per realizzare che non era un sogno ma la pura realtà. era venuta a vivere con me per cercare di dedicarci il più possibile l’uno all’altra e recuperare tutto il tempo che avevamo trascorso distanti. Aveva sofferto quanto me e mi sentivo terribilmente in colpa per questo, ma mantenere i contatti con lei sarebbe significato non staccarmi mai definitivamente dalla mia città, mettendo in pericolo me stesso ma soprattutto lei, cosa che non mi sarei mai, mai perdonato. Da quel giorno non ci eravamo mai separati. Lavoravamo di mattina per poi ritrovarci insieme la sera a girare per i negozi della città mano nella mano alla ricerca di qualche tutina oppure sul divano, nella speranza di imbatterci in un nome che avrebbe messo d’accordo entrambi. Alla fine avevamo optato per Luce, perché si, quella bambina era stata la nostra luce, quella in fondo al tunnel dopo momenti di interminabile oscurità, quella che apprezzi di mattina appena sveglio, abbracciato alla persona a cui tieni di più al mondo, quella che illumina quella persona ai tuoi occhi, rendendola una vista mille volte migliore di qualsiasi panorama mozzafiato tu abbia mai visto. Ero stato con lei durante le nause mattutine, il giorno del parto, quello del primo compleanno della piccola Luce. Ero anche con lei quel giorno, quel maledetto giorno da cui niente è stato più uguale.
 

“E così, vissero per sempre felici e contenti” sussurrò a se stesso quasi il ragazzo, chiudendo il libro e appoggiandolo sul comodino. Sistemò con tranquillità le coperte su quel piccolo corpicino indifeso, lasciando un leggero bacio fra i capelli sottili e profumati della piccola che stringeva a se il suo orsetto preferito, mormorando appena quando lo sentì lentamente scivolare dalla sua presa, ma non svegliandosi comunque. Dopo un ultimo sguardo per assicurarsi che fosse tutto tranquillo, il ragazzo chiuse la porta con un leggero scatto, sorridendo al pensiero del viso della bambina che, il giorno seguente, si sarebbe accorta di aver dormito senza il suo fedele amico stretto fra le braccia. Un po’ gli dispiaceva vedere quegli occhioni dolci così turbati mentre cercavano ancora di allontanare tutto il sonno, ma aveva deciso con sua sorella che era meglio non farle prendere cattive abitudini, come legarsi a qualcosa di materiale come pannolini e ciuccio, facendo dipendere da queste il suo sonno. Lo stesso valeva per i peluche, quindi. Entrando in cucina, gli occhi del ragazzo si posarono sul viso mortalmente pallido della giovane appoggiata al lavandino che non si era ancora accorta della sua presenza.
“ti senti bene tesoro?” si avvicinò velocemente a lei, cercando di far incrociare il suo sguardo preoccupato con i suoi occhioni azzurri, che la sua piccola aveva ereditato identici.
“si Haz, sto bene” il suo tono affaticato, però, gli fceva intendere tutt’altro. Solo il tempo di fare qualche passo che collassò a terra priva di sensi, mentre il fratello urlava il suo nome in preda ad un terrore assurdo. E poi la corsa in ospedale, i camici bianchi, lei che non riprendeva i sensi, la sua mente che si affollava dei pensieri più assurdi. Aveva avuto a stento a lucidità di chiedere alla loro vicina di casa di badare alla piccola che ancora dormiva tranquilla, ignara di quello che stava succedendo. e poi quei due minuti.
“Signor Styles, abbiamo appena diagnosticato a sua sorella un tumore al cervello. Non possiamo garantirle più di tre mesi ancora. Mi dispiace”

 
Due minuti. Due fottutissimi minuti per devastarti completamente la vita. E tre mesi, solo tre mesi per fingere di continuare a viverla. Volevo che lei non sapesse niente, volevo vederla continuare a sorridere in quei tre mesi, volevo svegliarmi, volevo che fosse tutto un incubo, volevo che l’indomani Luce sarebbe entrata nel mio letto saltando sul mio addome per svegliarmi e poi iniziare a ridere mentre io le bloccavo mani e piedi e la abbracciavo e la mamma ci urlava dal bagno di andare a fare colazione perché era tardi. Ma lei aveva già saputo tutto e l’unica cosa che riuscii a fare fu abbracciarla e farle nascondere il viso nel mio collo mentre piangeva freneticamente. E ad ogni suo singhiozzo che si alternava con uno dei miei la stringevo più forte, quasi a volerla far diventare un'unica cosa con me, quasi a voler prendere io quel male che me la stava portando via, proprio adesso che avevo giurato a me stesso di non lasciarla sola mai più. Ma non potevo fare niente, non potevo impedirlo e la cosa mi lacerava dentro giorno dopo giorno ad ogni suo sguardo, ogni suo sorriso, ogni sua parola, pensando che ognuno di quelli sarebbe potuto essere l’ultimo. Ero stato sempre al suo fianco, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, tra le visite, le terapie, le prove disperate di riuscire a superare l’ennesima prova a cui la vita ci stava sottoponendo, senza mai abbandonarla, neanche per un attimo. Ed ero stato con lei anche quando aveva esalato l’ultimo respiro, assistendo ai suoi ultimi sussurri che mi avevano distrutto definitivamente, ponendo allo stesso tempo nel mio cuore le fondamenta per ricominciare più forte di prima, proprio come aveva fatto lei.

 
“H-Harry” il mormorio della ragazza era quasi impercettibile, ma non per il ragazzo al suo fianco che non la perdeva mai di vista un attimo, accarezzandole dolcemente la mano nel tentativo di lenire in qualche modo il dolore fisico che la stava travolgendo. Dolore solo fisico ormai, a quello emotivo si era rassegnata tanto quasi da non sentirlo più, da essere diventata apatica.
“Dimmi tesoro” era scattato al suo fianco in un attimo, avvicinando la testa alle sue labbra per poter sentire quello che diceva senza farla sforzare troppo.
“P-Prenditi cura di Luce” gli occhi del ragazzo si erano immediatamente riempiti di lacrime a quelle parole
“N-no Gem no, no” sapeva che quel momento sarebbe arrivato, ma aveva sentito il suo cuore spezzarsi ulteriormente a quel sussurro affaticato.
“Shh, tranquillo. Solo, prenditi cura di lei, è tutto quello che ho. La affido a te, fratellone” nonostante tutto, a quella parola sorrisero entrambi, consapevoli che lui era il piccolino di famiglia, ma per lui sua sorella era sempre stata la sua bambina.
“So che con te sarà al sicuro, so che non mi deluderai. Non l’hai mai fatto” lui aveva guardato quegli occhi azzurri che avevano perso tutta la vivacità di un tempo annuendo freneticamente e notando un lieve sorriso increspare le sue labbra ormai bianche e screpolate.
“Ti voglio bene”

 
Sulle sue labbra quel lieve sorriso era rimasto mentre i suoi occhi azzurri continuavano a spegnersi, per poi chiudersi definitivamente, portando con loro l’immagine di una bambina che aveva ancora bisogno dell’amore della sua mamma. Mi avvicino alla finestra, osservando quei piccoli puntini luminosi che interrompono il fitto manto blu cobalto. Poi sento un piccolo corpicino urtare contro la mia gamba per arrampicarsi sulla sedia alla mia destra, cercando di arrivare alla mia altezza.
“Zio Harry, è quella la mamma?”mi domanda, mentre indica la stella più luminosa con la piccola manina. Mi avvicino di più a lei per prenderla in braccio, sorridendole intenerito dalla sua ingenuità. Più cresce più le somiglia in tutto e per tutto. È grazie a lei che ho ricominciato, grazie a quel piccolo grande pezzo di cuore che mia sorella mia ha lasciato, chiedendomi di custodire come il dono più prezioso. Le accarezzo dolcemente i capelli, per poi spostare lo sguardo dai suoi occhi al cielo, prendendo un respiro profondo per mantenere la mia voce tranquilla mentre lei inizia a giocare distrattamente con i miei capelli, facendo oscillare ancora lo sguardo da me al cielo.
“Si Luce, si, è la mamma. Guarda, ci sta sorridendo”
  
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