Capitolo IV
«Non ce la faccio più, mi stanno tutti addosso.»
Forse perché il viaggio verso casa gli sembrò più noioso del solito, forse perché l'ennesimo interrogatorio passato sotto le pressioni di un Aomine ormai al limite della nevrosi lo aveva avvilito, Murasakibara inviò quell'sms e si rifiutò di scostare i propri occhi dallo screensaver del cellulare fino a quando non ricevette risposta.
«Sta calmo, Atsushi. Vedrai che andrà tutto bene.»
Murasakibara, però, non era così sicuro, soprattutto perché, nonostante provenissero da Hinuro, quelle parole erano troppo fredde: erano semplici caratteri digitali che non avrebbe mai sentito pronunciare realmente dalla sua voce, a meno che non lo avesse chiamato.
Kise
ci metteva sempre un'eternità per prepararsi ad uscire,
così
capitava spesso che Aomine si ritrovasse seduto sul suo divano ad
osservare ogni angolo della casa nel tentativo di distrarsi ed
ammazzare il tempo.
Quella
sera iniziò come una delle tante, ma si concluse in un modo
differente.
La
morte di Kuroko aveva sortito effetti differenti su ognuno degli ex
membri della Generazione dei Miracoli: c'era chi aveva risentito
relativamente poco di quella notizia e chi, come lui, molto, e questo
perché gli sembrava di ritrovarsi schiacciato tra due forze
di egual
misura ed impossibili da respingere o anche solo da ignorare.
Aomine
passava le giornate a cercare di districare un intreccio troppo
stretto e ingarbugliato nel quale, oltre tutto, giocava anche una
buona dose di vita personale: a volte, quando si coricava a letto
dopo un lungo pomeriggio passato a fare domande e pressione sui
sospettati, si sentiva in colpa verso di loro, si chiedeva cosa fosse
successo, ripeteva fra sé e sé che non era vero,
che Kuroko non era
morto.
Perché
era morto? Qualcuno l'aveva ucciso? No, impossibile: nessuno avrebbe
mai potuto uccidere una persona come Kuroko.
Daiki
faceva ancora fatica ad accettare la realtà, come faceva
fatica a
convivere con l'idea che Kise non avesse un alibi e che quindi fosse
uno dei più papabili al ruolo di assassino.
Nel
caso Kise fosse stato il colpevole, Aomine aveva già deciso:
aveva
scelto lui, a discapito del lavoro, a costo di diventare un
poliziotto corrotto, al servizio delle ingiustizie. Nonostante avesse
già le idee chiare su come agire, Daiki non riusciva davvero
ad
immaginarsi mentre prendeva le parti di un assassino e voltava le
spalle al posto che gli era costato così tanta fatica, e
allora
pensò che per capire quale sarebbe stata la vera cosa giusta
da fare
avrebbe dovuto trovarsi nella situazione incriminante che tanto
temeva.
Daiki
decise di sfruttare la sua indecisione e quei pensieri troppo
intricati a suo favore, come giustificazione per cominciare un
piccolo e segreto sopraluogo a casa Kise.
Non
era in servizio in quel momento, dunque la cosa si sarebbe potuta
risolvere fra loro o, visto che Kise era ancora chiuso in bagno - o
in camera? -, non avrebbe detto nulla e si sarebbe concesso ancora un
po' di tempo per ragionare sul da farsi.
Così,
quella sera, Aomine si alzò dal divano e decise di ammazzare
il
tempo impiegando non solo gli occhi, ma anche le mani e i piedi,
aggirandosi per il salotto per guardarsi meglio intorno e aprire i
cassetti, frugare al loro interno nella speranza di non trovare nulla
di compromettente.
Dopo
aver aperto tre cassetti, Aomine si disse che forse avrebbe dovuto
smettere, che era impensabile che proprio Kise potesse aver ucciso
Kuroko e che, soprattutto, avrebbe dovuto fidarsi di lui, ma si
sentiva così vicino dallo scoprire la verità - e
qualsiasi cosa
fosse successa, avesse trovato tutti i cassetti vuoti oppure colmi di
prove, lo avrebbe aiutato a stare meglio - che si fece coraggio e
decise di continuare quella ricerca silenziosa.
Aprì
il quarto cassetto e le cose più interessanti che vi
trovò furono
un paio di cartoline provenienti da Londra e che quindi
pensò essere
dei genitori - sospetto confermato non appena diede un'occhiata al
retro - ed una rubrica che, però, richiedeva tempo per
essere letta
e che decise di lasciare al suo posto per paura che Kise potesse
accorgersi del suo sopraluogo.
Dopotutto
pensò che la rubrica avrebbe potuto leggerla con calma
durante la
notte, sempre che Kise lo invitasse a fermarsi da lui: cosa molto
probabile, visto che lo supplicava di rimanere ogni volta che poteva.
Quando
le dita si strinsero attorno al pomello dell'ultimo cassetto e lo
tirarono appena, aprendo uno spiraglio, un'altra mano lo richiuse
subito, senza dargli il tempo di vedere oltre l'oscurità
della
fessura.
Quando
Aomine si voltò verso di lui, rimase senza fiato: Kise non
era una
persona irascibile e aveva sempre dimostrato una certa dote nel
lagnarsi, piuttosto che nell'arrabbiarsi, per cui, nelle rare volte
in cui si adirava, riusciva sempre ad incutergli una certa
soggezione.
Lo
stava guardando male, malissimo, e continuò a tenere la mano
salda
sul cassetto anche quando Aomine ritirò la propria.
Kise
era deluso e amareggiato, lo vedeva dal ripiegamento tremolante delle
labbra; lo sguardo era volutamente minaccioso e quel silenzio stava
cominciando a mettergli i brividi: chi reagisce così
perché trova
il suo ragazzo a frugare nei suoi cassetti - per una ragione
più che
ovvia -, non può avere la coscienza pulita.
«Sei
venuto qui per stare con me o per frugare nei cassetti?»
Aomine
avrebbe voluto rispondergli che era venuto per stare con lui e che,
stufatosi di aspettarlo, aveva poi cambiato idea e aveva optato per i
cassetti, ma il tono di voce di Kise era già abbastanza
tagliente e
preferì restare in silenzio.
«Tu
non ti fidi di me.» finalmente la mano di Kise si
scostò dal
cassetto e il corpo del ragazzo si allontanò un poco da
quello
dell'altro.
Aomine,
dal canto suo, inspirò e si decise a rispondere,
preparandosi per un
controattacco che sicuramente sarebbe stato respinto immediatamente.
«Non
hai un alibi, quin–»
«E
allora? Perché dico di essere rimasto a casa a riposare
tutto il
giorno e non ho nessuno che può testimoniarlo, devo essere
per forza
un assassino?!»
«Kise,
non ho detto questo.»
«Nessuno
può confermarlo, è vero, ma nessuno ha mai
testimoniato il
contrario.»
«Certo,
ma l'alibi è–»
«L'alibi
è quello che rovinerà la nostra relazione. Te lo
dico io, cos'è.»
Aomine
si zittì e si morse il labbro inferiore in uno spasmo di
stizza:
Kise era davvero arrabbiato, e dopotutto non poteva biasimarlo.
«Scusami
tanto, ma non ho piacere di trovarti mentre frughi nei miei cassetti
perché non ti fidi di me.»
«Sto
solo cercando qualcosa che possa confermare la tua innocenza! Vuoi
calmarti o no?»
«Sei
sicuro?» Kise gli diede le spalle e sembrò
trattenere una risata
nervosa «vieni qui a frugarmi nei cassetti, proprio tu che
come
alibi hai uno scontrino del supermercato.»
«Si
tratta pur sempre di un alibi.»
«Chissà
quanti ve ne create, voi poliziotti.»
Aomine
rabbrividì: Kise non aveva mai toccato quell'argomento, non
aveva
mai mostrato disprezzo verso il suo lavoro, e ora, spinto da
chissà
quale furia, iniziava ad inveire sul suo mestiere e ad alludere al
fatto che essendo un poliziotto avrebbe potuto occultare prove o
chissà cos'altro, un po' come avevano fatto altri.
«Non
ho più voglia di uscire.»
«Bene,
tolgo il disturbo.»
Fanculo
la rubrica, fanculo tutto.
Fino
a poco prima Aomine era riuscito a capire - e a giustificare - la
rabbia di Kise, ma le sue ultime parole erano state la goccia che
aveva fatto traboccare il vaso.
Kise
dubitava di lui - o forse gli aveva detto così di proposito
-, e ora
capiva quanto fosse orribile quella sensazione, ma non
riuscì
neppure a guardarlo in faccia per quanto era deluso da quelle parole:
i ruoli sembravano essersi invertiti, ora era Aomine quello
arrabbiato, e Kise quello in silenzio.
Quando
Aomine lasciò la casa e salì in auto decise che
avrebbe lasciato il
caso nelle mani di qualcun altro, che lui si sarebbe limitato a
ricoprire il ruolo del sospettato come tutti gli altri, e non tanto
perché volesse mostrare la sua correttezza, ma semplicemente
perché
era stufo di ricevere accuse infondate.
Kuroko
era morto, ma se ne rese conto solo in quel preciso istante, quando
una tristezza lontana cominciò a stringergli il petto e
bloccargli
il respiro: senza di lui, gli ex miracoli erano come bestie, pronte a
sbranarsi l'una con l'altra.
Non
era mai stata una di quelle persone che teneva il muso solo per
attirare l'attenzione su di sé, anzi, in quelle rare
occasioni in
cui le capitava di litigare con qualcuno cercava di mettere sempre un
po' di distanza, si ritagliava del tempo per se stessa e,
principalmente, per pensare a come risolvere la situazione; in quel
momento, però, nonostante dietro a quel pesante silenzio non
si
nascondesse un battibecco, bensì la scoperta di una crudele
verità,
Momoi sembrava davvero offesa, arrabbiata, delusa, pareva aspettare
con impazienza che l'altro notasse il suo sconforto e le parlasse.
Bastava
guardarla in faccia per un paio di secondi per capire che qualcosa
non andava, e Kagami, effettivamente, aveva notato gli occhi acquosi,
le palpebre abbassate, le labbra corrugate in un ghigno sconsolato,
ma era rimasto in silenzio, aveva continuato a camminarle accanto
senza sapere cosa dire e continuando a fissare i metri d'asfalto che
divoravano con i loro passi.
Cosa
sapeva, lui, di Momoi?
E
lei cosa sapeva di Kagami?
Per
Kagami, Momoi era la fidanzata piagnucolona di
Kuroko;
per Momoi, Kagami era quello con cui mi tradiva il mio
fidanzato.
Quando
Aomine gli aveva detto che aveva raccontato tutto a Momoi, Kagami si
era arrabbiato, ma al contrario di ogni aspettativa era riuscito a
frenare la sua impulsività e si era fermato a ragionare:
aveva
capito che era la cosa giusta da fare, nonostante fosse difficile
accettare che fra loro, chi aveva agito nel modo più
corretto, era
stato sicuramente Daiki.
Non
c'era niente che potesse dirle, Taiga lo sapeva.
Fra
loro era calato il velo del disagio fin da quando si erano incontrati
e si erano salutati con il più vago e silenzioso dei cenni,
e lei
era arrabbiata. Non era mai stato bravo a capire i sentimenti delle
donne - ma anche delle persone in generale -, ma che Momoi lo odiasse
non c'era dubbio: lo aveva capito dal suo sguardo, per un attimo, ma
solo per un attimo, gli era sembrato di scorgere in lei gli occhi del
vero assassino e aveva sentito un brivido percorrergli velocemente la
spina dorsale e scuotergli le viscere.
Kagami
sentiva di dover solo resistere, perché presto avrebbe
svoltato
l'angolo e si sarebbe diretto verso casa, allontanandosi da lei, ma
la tentazione di parlare era grande, anche se non riusciva a
comprenderne il motivo.
Era
strano pensare ad una cosa simile, ma forse Momoi gli aveva fatto
paura, e poi era pericoloso farsi dei nemici in una situazione simile
- quell'idiota di Aomine era già sufficiente -.
«Mi
dispiace.» senza dubbio non era la cosa più saggia
da dire,
sopratutto perché la sua bocca era quella dell'amante e non
quella
dell'amico, però, in seno alla propria coscienza, sapeva di
essere
sincero, gli dispiaceva davvero che lei avesse dovuto scoprire una
cosa simile in un modo tanto squallido, e lui, dal canto suo, non
aveva mai tratto godimento da quella condizione.
A
Kagami non piaceva essere l'amante, avrebbe voluto avere Kuroko tutto
per sé e per questo gli aveva messo pressione, gli aveva
chiesto più
volte di lasciare Momoi perché riteneva che una storia
simile non
potesse stare in piedi e non fosse sana.
Momoi
rallentò appena e si morse il labbro inferiore, chiuse gli
occhi e
tornò a concentrarsi sul silenzio che li circondava, nella
speranza
che la voce di Kagami fosse solo frutto della sua immaginazione.
«Momoi?»
Ovviamente,
però, la sua riflessione fu spezzata di nuovo da quella voce.
Il
canino affondò ulteriormente nel labbro inferiore, fino a
privarlo
del solito colore rosato e vivo.
«Non
preoccuparti, Kagamin.» ma lei era buona, e forse non avrebbe
avuto
la forza di affossare una persona che pensava innocente e che, alla
fine, era una brava persona.
Kagami
colse il tremolio nella sua voce e inspirò appena, indeciso
sul da
farsi.
«Kuroko
...» anche la sua voce, senza volere, tremò
appena: pronunciare il
suo nome gli faceva ancora male, perché ogni volta si
illudeva di
vederlo mentre si voltava verso di lui e gli sorrideva in silenzio,
ma non era così.
«Lui
non ti ha mentito, ci teneva a te.»
Momoi
sollevò il proprio sguardo verso l'altro solo per un attimo,
poi
tornò ad osservare l'asfalto scuro, trasudante di pioggia:
forse
Kuroko aveva tenuto davvero a lei, ma lo aveva fatto molto tempo fa,
prima che si innamorasse di Kagami.
«Tetsu-kun
parlava bene di me?» le labbra di Momoi tremarono appena,
boccheggiò
timidamente, per poi ritrovarsi a frugare velocemente nella propria
borsa.
«Certo.
Non l'ho mai sentito parlare male di te.» quando Momoi
estrasse
l'ombrello dalla borsa, Kagami sollevò appena il viso e
rivolse i
propri occhi alle nuvole scure e turgide di pioggia, socchiudendoli
in uno spasmo di fastidio non appena una goccia fredda gli
colpì lo
zigomo.
«Sai
...» le dita di Momoi arrancarono lungo il telaio colorato
dell'ombrello, ancora chiuso «mi sento in colpa.»
Un
momento prima voleva affossarlo, e ora aveva deciso di confessargli i
suoi tormenti: Momoi era fatta così, non sarebbe riuscita a
fare del
male ad una persona che non lo meritava e aveva un disperato bisogno
di alleggerire il carico che da giorni le pesava sul cuore.
«Per
cosa?»
«Da
quando l'ho scoperto, sono terribilmente arrabbiata con
Tetsu-kun.»
fece una piccola pausa, poi sospirò flebilmente
«dovrei essere
triste, non arrabbiata.»
«Anche
io mi sento in colpa.» fu questo che Kagami
sussurrò, attirando
l'attenzione dell'altra su di sé.
«In
colpa? E perché?» che anche lui fosse arrabbiato
con Kuroko? Ma
com'era possibile? Kagami sapeva di essere l'amante, non era lui
quello che era stato tenuto all'oscuro di tutto e tradito.
«Io
amavo Kuroko, non gli avrei mai fatto del male.» Taiga
deglutì per
l'imbarazzo, poi boccheggiò appena e riuscì a
procedere anche se
con un po' di fatica «ma credo di avergli messo fretta, in
qualche
modo ho fatto troppa pressione su di lui.»
«In
che senso?»
«Beh,
non mi piaceva quella situazione. Ho forzato Kuroko a scegliere, gli
ho detto che lo avrei lasciato se non si fosse deciso e avesse
continuato a vivere una doppia vita.»
Momoi
ascoltò in silenzio e aprì l'ombrello, rimanendo
ad osservare le
prime goccie di pioggia precipitare davanti a loro e frantumarsi
contro l'asfalto.
«Ho
paura che Kuroko si sia ... suicidato davvero, e che sia stato questo
a–»
«Ma
lui aveva già scelto, Kagamin.» Momoi gli porse
l'ombrello e gli
ricordò che Kuroko, proprio prima di morire, aveva
accontentato le
richieste di Kagami e l'aveva lasciata.
Kagami
sentì un pizzicore diffuso alle guance ed ebbe la tentazione
di
rifiutare l'offerta silenziosa della ragazza, ma la pioggia fredda
aveva già cominciato a divorargli le spalle e i capelli e
così
ingorò la tradizione e afferrò l'ombrello, in
modo che potesse
tenerlo in alto e riparare entrambi dai capricci atmosferici del mese
di febbraio.
«E
poi rimane la questione del computer, del telefono e del
cellulare.»
«E
se li avesse fatti sparire Kuroko? È una teoria semplice,
però
spiegherebbe perché non ci sono segni di violenza e
perché
l'appartamento era chiuso, ma le chiavi si trovavano al suo
interno.»
Momoi
restò in silenzio, assorta nei propri pensieri: si trovava
in una
posizione orribile, probabilmente era la principale dei sospettati;
Kuroko non aveva ragione di suicidarsi; presto lei e Kagami avrebbero
preso strade diverse, ma non poteva privarlo dell'ombrello con un
acquazzone simile in corso, quindi, forse, avrebbe fatto meglio ad
accompagnarlo fino a casa e poi tornare indietro.
Nella
sua mente si erano accavallati così tanti pensieri tutti
insieme,
veloci e alla rinfusa, che aveva finito per gemere sommessamente e
strizzare gli occhi a causa di un bruciore diffuso alle tempie.
«Casa
mia è da questa parte, ti ringrazio.» fu la voce
di Kagami a
interrompere momentaneamente i pensieri di Momoi.
«Non
preoccuparti, ti accompagno.»
«M-ma
no, davvero, faccio una corsa!» era imbarazzante: lui,
l'amante, che
si faceva accompagnare fino a casa propria dalla fidanzata della
vittima perché aveva dimenticato l'ombrello -
chissà dove, poi.
Forse in caserma? -.
«Non
c'è problema, non ho nulla da fare.» Momoi
insistette e Kagami
restò in silenzio, di fatto dandogliela vinta: dopotutto non
avevano
ancora finito di parlare, e fra quei pensieri ce n'era uno
più
vivido di altri, a cui Satsuki sentiva il bisogno di dar voce.
«Kagamin,
sono più che sicura che Tetsu-kun sia stato
ucciso.»
Kagami
continuò a guardare davanti a sé ed
inspirò appena, assaporando
l'odore fresco di pioggia.
«Per
quale ragione, secondo te?»
«Questo
non lo so, ma ho davvero la sensazione che sia stato ucciso.»
e,
soprattutto, era quasi certa che l'assassino fosse fra loro.
«Porca
puttana.» Aomine brontolò e spinse il cellulare al
centro del
tavolo, con un gesto stizzito: sembrava quasi che le situazioni si
fossero invertire, perché ora era lui il fidanzatino in
pensiero che
chiamava in continuazione l'altro, e Kise non rispondeva, lo ignorava
completamente.
Inizialmente
aveva pensato di inviargli un sms, ma si era quasi subito arreso
all'idea e aveva continuato a chiamarlo.
Non
aveva tanta fretta di chiarire, piuttosto era preoccupato che Kise
non rispondesse, perché ciò significava che stava
ignorando il
cellulare - il che era improbabile per un modello continuamente
tempestato dall'ammirazione delle fan e dalle proposte di lavoro -.
Possibile che Kise stesse fingendo? Era così tanto
arrabbiato con
lui?
Arrivato
alla settima telefonata in poco meno di due ore, Aomine si decise a
lasciargli un messagio vocale.
«Ohi,
senti, se sei lì ti conviene rispondere: mi stai facendo
preoccupare, idiota. Io e te dobbiamo parlare, avvisami non appena
ricevi il messaggio.»
Non
aveva intenzione - almeno non ancora - di dirgli che gli dispiaceva
per quello che era successo, e in più gli bastava pensare
all'insinuazione che Kise aveva fatto sul suo lavoro perché
il
nervoso tornasse integro e la voglia di vederlo o anche solo sentirlo
si azzerasse.
Aomine
restò in attesa, una lunga attesa nella quale la mente
cominciò a
divagare fino ad elaborare un pensiero che gli mise i brividi: e se
fra loro ci fosse stato un pazzo? Un pazzo che pianificava di
ucciderli tutti, dal primo all'ultimo? Magari Kise era il prossimo e
lo aveva già ucciso, e lui, invece, se ne stava chiuso nel
suo
ufficio, con le mani incollate al cellulare e la testa pulsante.
Aomine
diede un'occhiata all'orologio: mancava ancora un'ora alla fine del
suo turno, appena uscito di lì sarebbe andato subito da Kise
per
controllare la situazione.
Dopotutto
non chiedeva molto: voleva solo che l'innocenza di Kise fosse provata
in modo da tirarlo fuori dai guai, in modo da proteggerlo.
Kagami
aveva avuto appena il tempo di recuperare un grosso asciugamano e
passarlo più volte fra i capelli, cercando di asciugarli il
più
possibile dalla pioggia, prima che il suono del campanello facesse
vibrare l'aria densa e tiepida della casa.
Aperta
la porta, sobbalzò appena e rimase imbambolato sulla soglia.
«Tatsuya?»
che brutta coincidenza che si trovasse a Tokyo proprio in quel
periodo: aveva fatto male ad abbandonare Los Angeles per ..
perché
si trovava lì? Kagami si augurò che non fosse
solo per venirlo a
trovare, perché sarebbe stata un'occasione sprecata, visto
che non
era al massino delle forze - soprattutto mentali - e le ore che non
trascorreva in caserma le passava a subire interrogatori su
interrogatori.
«Ciao,
Taiga.» Himuro accennò un piccolo sorriso
«posso entrare?»
«Certo,
entra pure.» Kagami si fece velocemente da parte e diede ad
Himuro
il tempo di chiudere l'ombrello e varcare la soglia, per poi serrare
la porta e impedire al freddo di entrare.
«Sei
arrivato oggi?» Kagami gli diede le spalle e si diresse verso
la
cucina, intenzionato a offrirgli qualcosa da mangiare, ma il silenzio
che seguì a quella domanda lo fece rallentare, fino a
frenare
completamente il suo passo.
«Taiga,
c'è una cosa che devo dirti.»
C'era
qualcosa di strano nella voce di Himuro.
Kagami
trattenne il fiato e si voltò lentamente, e li vide di
nuovo: gli
occhi dell'assassino.
Le
parole che Himuro pronunciò si mescolarono al suono ovattato
della
pioggia e parvero riecheggiare lontane, quasi fossero frutto di uno
scherzo dell'immaginazione: eppure Taiga sapeva che erano state
articolate per davvero da quella voce, e gli avevano fatto male,
molto male.
«L'ho ucciso io.»
Angolo invisibile
dell'autrice:
Questo capitolo doveva essere molto più
lungo, ma alla fine ho deciso di dividerlo in due per allungare un
po' e per darvi più tempo (?).
Non saltate a conclusioni affrettate,
perché comununque manca ancora un po' alla vera fine della
storia.
Alla fine sono riuscita a far litigare
Aomine e Kise ancor prima di inserire qualsiasi bacio, questo
perché
... beh, il rapporto fra loro è molto complicato in questo
momento
(e presto toccherà il suo apice, anzi, il fondo).
Sembra che Kagami e Momoi si siano
alleati e francamente non ho idea se la cosa possa durare o meno
(secondo il mio parere, però, ci sono buone
probabilità, visto che
hanno entrambi caratteri buoni).
Credo che prima della prossima rubrica
scriverò altri due capitoli (anche se ora come ora voglio
tornare a
concentrarmi su Hall of Fame).
Attualmente ci sono alleanze davvero
strane: Akashi ne ha create due, una con Midorima e una con Aomine,
Kagami e Momoi sembrano aver trovato l'intesa e Kise e Murasakibara
sono completamente isolati. E Himuro?
A presto! (sono stronza, sì, e vi
lascio con la domanda: "E Himuro?")