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Autore: King_Peter    11/08/2014    3 recensioni
{Nakamura, bitches!}
La verità era che Ethan aveva vissuto da cani e continuava a vivere la stessa condizione anche adesso, chiuso nella muta gabbia dell'Elisio, luogo che gli avevano riservato, dove non c'erano altro che tizi dall'aria felice e spensierata che, involontariamente, non facevano altro che aumentare la sua condizione di disagio e di rabbia.
Perché non aveva potuto avere una vita normale?
Niente mostri, niente dei, nessun mezzosangue.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ethan Nakamura, Luke Castellan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Art by Tumbrl, I didn't made this!

Se la vita faceva schifo, la vita negli Inferi faceva ancora più schifo.
Ed Ethan Nakamura lo sapeva bene.
Non gli aveva riservato altro che tristezza e dolore, portandolo a stringere patti pericolosi con sua madre, con il suo nemico e promesse azzardate con il suo alleato. (*)
Persino l'Elisio, luogo al quale aveva avuto accesso con una procedura che gli aveva abbuonato tutti gli errori che aveva commesso prima di morire, non riusciva a colmare quel senso di vuoto che gli era rimasto, quella concreta consapevolezza che gli diceva di non avere vissuto appieno la sua giovinezza, di non avere potuto godere dei suoi frutti maturi, riservandogli solo quelli più acerbi ed aspri che gli avevano lasciato il loro sapore amaro in bocca.
Ricordava ancora adesso gli occhi selvatici di Cerbero che lo fissavano torvo, il tizio demoniaco al check-in delle Praterie degli Asfodeli che scuoteva la sua testa fumosa in segno di disapprovazione, facendo tremare la sua forma spettrale.
La verità era che Ethan aveva vissuto da cani e continuava a vivere la stessa condizione anche adesso, chiuso nella muta gabbia dell'Elisio, luogo che gli avevano riservato, dove non c'erano altro che tizi dall'aria felice e spensierata che, involontariamente, non facevano altro che aumentare la sua condizione di disagio e di rabbia.
Perché non aveva potuto avere una vita normale?
Niente mostri, niente dei, nessun mezzosangue.
Chiuse gli occhi, appoggiando il suo corpo incorporeo ad una bianca parete di mattoni, lasciando che il suo olfatto cogliesse il profumo dei fiori e dei giardini dell'Elisio, curati appositamente da gentili spiriti al servizio di Ade, i quali provvedevano a rendere la vita delle anime migliore.
Tutto inutile.
Quasi avrebbe preferito vagare per le praterie degli Asfodeli, senza memoria di sé, colpevole di tutti i suoi misfatti, fatto di fumo come un'ombra, senza avere l'infausto compito di ricordare e avere ancora la capacità di pensiero.
Anche nella morte, la benda nera sfilacciata era stretta sull'occhio mancante, barattato in cambio di una promessa vaga strappata alle labbra di sua madre, accompagnandolo come una sorta di marchio perenne, un tatuaggio che non poteva togliere e che faceva male.
Aveva voglia di piangere, di lasciar scorrere via tutto, di buttare giù qualcosa, di picchiare qualcuno, ma non poteva farlo: era solo uno spirito, uno stupido spirito!
Fluttuò nella luce, guardando le coppiette felici che si tenevano spettralmente sotto braccio, baciandosi appassionatamente sulle labbra di fumo, rapiti dalle frecce di Eros anche dopo la morte. Osservò le madri ricongiungersi finalmente ai figli, i terribili guerrieri greci elogiati per le loro gesta eroiche.
E a lui? Cosa rimaneva ad Ethan Nakamura, figlio di Nemesi, semplice pedina al centro di una scacchiera troppo grande persino sé stesso?
Cosa poteva ridipingere un fulgido sorriso sul suo volto, ormai vuoto e desolato come la faccia buia della luna?
Per quanto non desiderasse un responso alla sua domanda, la rabbia e il dolore dentro di sé sfamavano l'unica risposta che si potesse dare: niente amore, niente felicità, nessun amico.
Niente.
 
 
I miei cieli sono d'ottone, la mia terra ferro, la mia luna una zolla d'argilla.
 
 
La cosa più dolorosa da ammettere era il fatto che, purtroppo, fosse tutto vero: si era guadagnato l'Elisio, certo, ma era stato abbandonato lì come l'ultima ruota del carro, un semplice eroe che aveva perso la vita per un'ideale in cui credeva.
Nient'altro.
Per quanto si sforzasse di assaporare la bellezza di quel posto a cui tante anime ambivano, per quanto cercasse di apprezzare la fortuna che aveva avuto, non riusciva non guardare con quell'unico occhio buono che gli era rimasto, soggiogato da rabbia e dolore, solo falsità ed ipocrisia, il riflesso di una vita che, ormai, era già terminata.
Bugie, solo bugie.
Eppure sua madre gliel'aveva sempre detto che la fortuna era un inganno, che il successo si raggiunge solo con il sacrificio: Ethan aveva sacrificato la sua vita, non era forse abbastanza?
E valeva davvero la pena festeggiarla, negli Inferi?
Ethan non lo credeva affatto.
Aveva anche provato a cercare l'unica figura amica che conoscesse, lì in mezzo, ma, nemmeno nell'Elisio, c'era traccia di Luke Castellan.
Era solo, terribilmente solo.
E soffriva.
 
 
Il mio sole peste che brucia a mezzogiorno e vapore di morte nella notte. (**)
 
 
Un colpo.
Anche se era solo uno spirito, riusciva ancora a percepire le sensazioni tipicamente umane: abbassò lo sguardo assorto su un pallone da calcio fatto di Foschia e sul sorriso sdentato di un bambino, la sua forma tremolante, i suoi capelli, un tempo biondi, arruffati e spettinati, mentre, a piedi nudi, correva verso di lui, alla ricerca della sua palla.
"Ciao." sorrise, divertito, riprendendo in mano il suo pallone di nebbia. (***)
Ethan rimase lì, stupito da tanta felicità, da qualcosa che lui era sicuro di non aver mai provato e che, seppur debolmente, riuscì a scaldargli il cuore come una buona dose di cioccolata calda.
Boccheggiò in cerca di aria che non gli serviva, osservando il bambino, di cui non sapeva nemmeno il nome, salutarlo con la sua manina paffuta e allontanarsi per raggiungere la figura spettrale che Ethan immaginò fosse sua madre.
"Ciao." furono le uniche quattro lettere che riuscì a mettere insieme quando il bimbo era ormai lontano, muovendo a rallentatore la sua mano in segno di saluto, come se il tempo intorno a lui si fosse fermato e lui fosse rimasto stregato dal suo incantesimo.
Qualcosa frullava fra le sue costole, qualcosa che aveva rinnegato per quindici anni della sua vita e che adesso tornava a far sentire la sua voce, tornava a infondergli calore.
A renderlo di nuovo umano.
Che ironia! Un bambino, un bambino era l'unica pagliuzza alla quale aggrapparsi per evitare di affogare nel mare di rabbia e dolore dove Ethan si era spinto, a nuoto, ormai troppo a lungo.
Contemplò il quadretto della sua famigliola, i loro sorrisi calorosi, di quelli che lui non aveva mai ricevuto, poco prima che qualcuno lo afferrasse per le spalle e lo trascinasse dentro un buco nero, rispondendo ad un suo muto desiderio, impartito direttamente dal suo cuore, dove una scheggia della sua stessa spada l'aveva trafitto.
Non riuscì a capire subito dove fosse, ma era sicuro di sentire il rumore incessante del moto di un fiume: era a terra, la sua faccia spettrale affondata nella sabbia nera dove la forza che lo aveva attratto lo aveva appiattito sul terreno come un foglio spiegazzato.
Si rimise in piedi, sbattendo più volte le palpebre di Foschia per mettere bene a fuoco il luogo dove si trovasse: per un attimo gli mancò il respiro, cosa alquanto strana per un fantasma.
Un fiume nero come l'inchiostro, stretto e impetuoso, sgorgava da una gola vulcanica, mentre la sua spuma, colorata allo stesso modo delle sue acque, ribolliva ai lati del greto del fiume.
Il Lete.
Seppur fosse un fantasma, Ethan sentì le sue gambe come fossero di gelatina, spossate, molli, mentre si avvicinava lentamente al fiume, con in gola un timore quasi referenziale, avendo paura di offenderlo: gli avevano già offerto la possibilità di rinascere, ma lui aveva rifiutato, crogiolandosi nella propria autocommiserazione, passando il suo tempo ad autocompatirsi.
Ma ora era diverso, ora non aveva più nessun peso che lo tenesse ancorato lì, ma solo la possibilità di riprendere a vivere, di cominciare una vita nuova.
Specchiò il suo volto tetro nelle acque nere del fiume.
Tutto quello che aveva sempre sognato era lì, a portata di mano: una famiglia, una famiglia normale.
Ethan non voleva altro.
Prese un respiro profondo, guardò il suo riflesso nero, sorrise, poi si lasciò bagnare dalle acque scure del Lete, quasi ridendo.
I giorni da cane sono finalmente finiti.
 
 
 
 
The End
 
 
 
 
 
Nome autore (sia su EFP sia sul Forum): King_Peter
Titolo della storia: Dog Days are Over
Genere: Angst, Malinconico, Introspettivo
Rating: Verde
Citazione: (n.11) I miei cieli sono ottone, la mia terra ferro, la mia luna una zolla di argilla. Il mio sole peste che brucia a mezzogiorno e vapore di morte nella notte. (William Blake)
Breve introduzione: 
 
{Nakamura, bitches!}
La verità era che Ethan aveva vissuto da cani e continuava a vivere la stessa condizione anche adesso, chiuso nella muta gabbia dell'Elisio, luogo che gli avevano riservato, dove non c'erano altro che tizi dall'aria felice e spensierata che, involontariamente, non facevano altro che aumentare la sua condizione di disagio e di rabbia.
Perché non aveva potuto avere una vita normale?
Niente mostri, niente dei, nessun mezzosangue.
{ Storia partecipante al contest Oggi gli Inferi saranno chiamati i salvatori dell’Olimpo indetto da Fantasiiana }
 
Note dell'autore: 
 
(*) Mi riferisco a Nemesi, a Crono e a Percy, i quali sono descritti, rispettivamente, come sua madre, il suo  nemico e il suo alleato.
 
(**) La fantastica citazione è stata tratta da "Enion's Second Lament" di William Blake, quindi, purtroppo, per quanto bella, non mi appartiene.
Anzi, colgo l'occasione per ringraziare la giudicia per avermi fatto parlare di Ethan che è un personaggio, purtroppo, poco preso in considerazione
 
(***)  La cosa è abbastanza curiosa, ma l'incontro di Ethan con il bambino è stato trascritto solo perché un fatto del genere mi è realmente accaduto pochi giorni fa, quando, in un negozio, un bambino mi viene incontro e mi porge la mano, salutandomi come fa il bambino del racconto con il figlio di Nemesi.
Anche se, in verità, dopo ritorna vicino a me e mi saluta ancora, dicendomi "Ciao di nuovo!"       
La cosa mi ha fatto davvero tenerezza e ho voluto rendervi partecipi di quanto il nostro mondo sia bello e ricco di vita, proprio perché il bambino simboleggia la vita, almeno nel racconto che ho scritto.
 
  
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