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Autore: Chamelion_    13/09/2008    3 recensioni
Lei non poteva soffrire i cambiamenti. E non perché fosse un'abitudinaria, quanto piuttosto una fragile creatura in totale balia di qualcosa che la terrorizzava: il tempo.
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per lei, quel giorno fu come rinascere. Lei che non aveva saputo controllare quella forza inarrestabile, e n'aveva fatto il suo nemico peggiore fin da quanto era stata nel grembo di sua madre: aveva odiato vedere il proprio corpo formarsi, come se già avesse saputo che prima o poi avrebbe dovuto vederlo distruggersi.
E conservò quel suo curioso istinto non di conservazione, giacché non permetteva che fosse creato nulla che potesse essere conservato, ma più di congelamento delle cose, per tutta la vita.
Alla scuola dell'infanzia non osava nemmeno avvicinarsi alle costruzioni coi Lego, perché vedere gli altri bambini costruire cose che poi le maestre prontamente smontavano una volta terminate, la sconvolgeva al punto di costringerla a scappare via dalla stanza e a nascondersi in un angolo, impedendo a tutti di avvicinarsi.
Una bimba tanto timorosa di veder morire le cose non poteva che diventare un'adolescente di quelli che gli psicologi moderni definiscono "tendente all'isolamento" e "paranoico". Il fatto è che, molto semplicemente, lei non poteva sopportare la realtà che le ose e le persone cambiassero. Per questo non riusciva a conservare un rapporto con qualcuno: le era difficile vedere i capelli di suo fratello crescere e le rughe insinuarsi nel volto di sua madre, dunque non avrebbe retto l'ostacolo del mandare avanti una relazione, superando i momenti di crisi, adattandosi ai suoi cambiamenti. Perché lei non poteva soffrire i cambiamenti.
E non perché fosse un'abitudinaria, quanto piuttosto una fragile creatura in totale balia di qualcosa che la terrorizzava: il tempo.
Al tempo dichiarò guerra ogni cellula del suo corpo da quando divenne qualcosa che si possa definire un essere umano; e infatti sua madre rischiò cinque volte un aborto spontaneo nel corso della gravidanza, che lei cercò di prorogare finché poté, finché i medici non la costrinsero ad affrontare il mondo tirandola fuori dall'utero di sua madre. Luogo, peraltro, dove neanche s'era sentita al sicuro dal tempo. E da quando ne fu fuori, passò ogni minuto cercando di nascondersi, di fermare un momento e conservarlo nelle tasche per sempre.
Vedeva gli altri muoversi spediti, ingenuamente convinti di camminare di propria volontà, mentre invece erano come spinti da una mano possente dietro di loro. E lei sentiva la pressione di questa forza alle sue spalle, e tentava di resistervi disperatamente, ma poi cedeva come se qualcuno le avesse fatto lo sgambetto e inciampava in avanti. Intorno a lei la gente scivolava come automi su rotaie predefinite; lei avanzava violentemente e a singhiozzo.
Come se l'intera umanità, come un branco di squali, per poter respirare e vivere dovesse muoversi costantemente, senza sosta, e lei non accettava tale schiavitù: avrebbe piuttosto preferito poter smettere di muoversi, arenarsi da qualche parte, essere lasciata a morire in pace.
E invece non riusciva a schiodarsi da quelle maledette rotaie, cui opponeva resistenza strenua. Inciampando reprimeva i gemiti e si mordeva le dita, facendosele sanguinare, e nel tentativo di rendersi impossibile avanzare anche se costretta, si storceva le caviglie di proposito, volendole rovinare. Ma tutto ciò che otteneva era un paio di caviglie deformi e violacee, ma ancora in grado di muoversi come burattini nelle mani del sadico tempo.

E per lei, dicevo, quel giorno fu come rinascere. Quel giorno in cui, timidamente, ingenuamente, le mostrai una fotografia che avevo scattato a mia sorella, mentre sorrideva tra la brezza di montagna. Non so descrivere cosa provai quando vidi che i suoi occhi, da cupi e disinteressati quali erano sempre, non appena focalizzarono l'immagine, si ingrandirono, tremarono, quasi caddero.
Prese con mani tremanti la fotografia e la guardò con la bocca semiaperta, e sul viso un'espressione sconvolta, toccata, commossa. Vedendo la sua fronte corrugarsi e tutta la sua figura vacillare, dedussi che non aveva mai visto prima una fotografia. Posso solo immaginare quello che le attraversò la mente.
L'immagine ritraeva mia sorella così com'era in quel momento: riproduceva una realtà che niente e nessuno avrebbe potuto intaccare. Nemmeno il tempo avrebbe potuto mutare quel suo sorriso, o appiattire i suoi capelli scossi dal vento. Non avrebbe potuto scacciare via le nuvole che in quel momento riempivano il cielo, né chiamarne altre. Non avrebbe potuto cambiare la posizione di mia sorella in quella foto, né scolorire il colore dei suoi abiti, né far calare la notte su di lei. Non avrebbe potuto togliere a mia sorella i vent'anni che aveva allora, e tra altri cinquant'anni lei l'avrebbe rivista così, come la vedeva in quel momento.
Si mise a piangere col cuore, con l'anima, col corpo, con la voce. Pianse sulla fotografia e sulle proprie mani. Pianse sulle proprie rotaie. Pianse e pianse, e rise, finalmente, dopo una vita intera di tristezza.
Capii che quella fotografia apparteneva più a lei che a me. Perché quella fotografia fu per lei come una rinascita. Era stata una piccola grande vittoria in quella sua guerra così estenuante.


  
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