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Autore: Gatto Magro    13/08/2014    1 recensioni
"Simile, per forma, a un organo dotato di tubi di vetro, le sue canne sono illuminate dalle fiamme che fuoriescono dai becchi, posizionati l'uno accanto all'altro. Le fiamme sono azionate mediante una tastiera; [...] ai tasti corrispondono altrettante fiamme che, separate, emettono suoni apparentemente simili alla voce umana, al pianoforte, ad un'orchestra intera."
1. This mortal coil.
2. Non era vernice,
Genere: Dark, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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The garden was blessed by the ghosts of me and you
I couldn’t bear this life, so I started another two.
Oh, what you’re waiting for?
 
Mia nonna diceva sempre che una bella storia si riconosce dall’odore.
Perciò, mentre Dusk e Fannie mi guardavano con impazienza, gli occhi grandi come piattini e lucidi dei riflessi delle candele, le prime parole mi si ingarbugliarono fra lingua e palato e per un po’ non riuscii a dire nulla, preoccupata com’ero dell’odore che avrebbe investito i loro nasini.
Caramelle, sarebbe andata bene una storia profumata di caramelle?, chiesi loro con lo sguardo. Le ombre appollaiate sui comodini fischiarono tutte insieme, forte, in segno di disapprovazione. Loro volevano la paura. I mostri coperti di pustole e la bava gialla che precipitava – lenta, lenta – da zanne incrostate di sangue. Vendetta, mi soffiò tra i capelli uno spiffero d’inverno.
Un bacio che sia l’ultimo e il più bello, chiedevano i sospiri dei vestitini di Fannie dalle loro grucce.
Tanto l’amore è una grande stronzata!, insorsero i fazzoletti, immediatamente zittiti da un’ondata di sdegno e rificcati sotto ai cuscini.
Ma io non ascoltavo più; mi solleticava le narici un profumo che non avevo dimenticato, nonostante il tempo trascorso e sfilacciato che si era messo in mezzo a noi – a me, in questa stanza, nel dicembre del 1999, e lui, chissà dove, chissà perché – senza che nessuno gli avesse chiesto niente.
Non so da dove tirai fuori il sorriso che rivolsi ai bambini.
Forse era tornato insieme agli spifferi gelidi per pizzicarmi le guance come faceva lui una volta.
 
Epoche: 1/4
 
… una volta, una ragazza dovette dar via il proprio cuore e accogliere dentro il petto, al suo posto, una foglia d’acero screziata di rosso. Era stata la prima a cadere, quell’anno. Il rosso scorreva lungo quella superficie ruvida come se qualcuno le avesse aperto una ferita proprio al centro.
Certo, un cuore vero e proprio sarebbe stato meglio, ma la foglia se la cavava bene.
Non faceva mai male. E poi il suo - quello vero, quello vecchio - non era un cuore di grande valore, ma dandolo via era riuscita a pagare l’affitto del suo appartamento per quasi un mese intero.
- È piuttosto piccolo. – aveva mugugnato il ricettatore, un ometto tondo come una biglia e con una fittissima barba color ferro. – Vizzo e rugoso come una noce. Del tutto impermeabile. Buono per gli assassini!
E aveva dato una risata così poderosa che gli aveva tolto il fiato e procurato un violento accesso di tosse.
La ragazza aveva intascato il denaro, impassibile, e poi aveva girato i tacchi senza fiatare. Già prima di essere fuori dallo squallido negozietto del ricettatore meditava di demolirlo, ma mentre scartava mentalmente diversi incantesimi distruttivi – far marcire tutte le assi, no; invocare talpe e cavallette e mosconi, no; fargli esplodere la pancia, no; far sedere un drago sul tetto e aspettare che crolli… - l’uomo si riprese e radunò il fiato per chiamarla.
- Non vuoi sapere a chi andrà, il tuo cuore?
Sfiorò la maniglia della porta con un’unghia, lasciando una bava di ruggine dove toccava.
Mandare a chiamare Brughul e Jhin, le fiamme dell’Inferno.
- Hai già un acquirente?
- Forse. È un articolo che non passa mai di moda. – Un sinistro bagliore illuminò un occhio dell’uomo, uno solo, poi morì dentro una teca polverosa alle sue spalle. – Questa è la prima volta che mi capita di rivendere un cuore vero; le persone non se ne separano così di buon grado, normalmente.
- Dovrebbero. Chiunque lo comprerà farà un cattivo affare, ma non mi interessa.
- Davvero? Ti basterebbe una firma, qui su questo foglio. - da un cassetto del bancone trasse un foglio di pergamena spesso e orribilmente consunto, coperto da lettere minuscole simili a zoppi arabeschi, insieme ad una boccetta d’inchiostro color acquitrino che ne aveva tutto l’odore.
Far spuntare una foresta di ragnatele, chiedere a sette fulmini di cadere sullo stesso posto.
- Una firma, e poi?
- Poi lo riconosceresti ovunque. Il nuovo proprietario del tuo cuore. In mezzo ad una folla, lungo i paralleli e i meridiani di una mappa, sul fondo del mare, in mezzo al cielo coperto di nubi, attraverso muri di pietra e, perché no, attraverso le epoche. – La sua voce era diventata morbida come la lunga piuma bianca che gli era spuntata fra le mani all’improvviso.
Lei pensò che quella piuma fosse esageratamente bella, e che quella bellezza la stesse guardando, - no, accusando attraverso la stanza ricoperta di lerciume e oggetti inutili, falsi, libri e specchi e scrittoi e gioielli e abiti scorticati e riesumati dall’incendio del tempo che scorre e dimentica, intaccati dalla rovina e da una rabbia fredda a cui si sforzava di non prestare attenzione, ma che le arrivava al palato con un sapore di vomito.
- No. No, io non voglio.
- È e sempre sarà l’unico che avrai mai avuto. – osservò pacatamente l’uomo.
Lei rise per qualche secondo, e non le venne in mente altra risposta. Aprì la porta, imbarazzata, intimando bruscamente alle campanelline di tacere, e uscì in fretta.
Verruche verdi, pensò con fermezza allungando il passo verso la fermata della metropolitana.
 
 
Sfregò con forza il ricordo degli ultimi minuti contro le pietre che lastricavano la strada e ne lanciò i residui sulle rotaie della metro, uno ad uno, come briciole per i passerotti, mentre dalla gola buia alla sua sinistra lo sferragliare del treno diventava assordante.
E pensò che non aveva un posto dove andare, niente da mettere sotto i denti, ma soltanto i suoi capelli rossi e frammenti di magia rimasti incastrati nel suo sangue, diluito dal susseguirsi di generazioni.
E pensò che non voleva più vedere neanche un centimetro del proprio corpo, infagottato alla meglio in un completo di tweed grigioverde, scovato in un baule nella soffitta di Antonia Guckville e infilato sopra una camicia sdrucida. Forse i piedi li avrebbe tenuti, sì, soltanto quelli, insieme alle scarpe spaiate e ai geloni che non l’abbandonavano nemmeno in estate.
 
Slipping through my fingers all the time;
 
Epoche: 2/4
 
Fare a pezzi i ricordi non è difficile quanto potrebbe sembrare, ma serve un anestetico potente per vederseli sfilare davanti uno ad uno, e uno ad uno inchinarsi e strappare con sorrisi sadici il tempo necessario per recitare la loro parte.
Ma lei non aveva più il cuore e non aveva fatto male, davvero; e forse neanche il corpo avrebbe sofferto troppo – troppo a lungo – se si fosse lasciata cadere sui binari che sussultavano e diventavano roventi.
Le monete tintinnarono dentro la tasca sinistra dei pantaloni, senza motivo. Il suono accompagnò la la visione che si dipanava nella sua testa: si vedeva di spalle, e in realtà erano nascoste una da logoro tweed, l’altra dalla tracolla di cuoio, e si abbassavano lentamente perché precipitava, sciolta e inevitabile, mentre invece i capelli si sollevavano dalla nuca e artigliavano l’aria pesta.
Sollevò lo sguardo e si sentì stupida e perduta, perché invece del cielo poteva soltanto guardare un muro di mattoni.
E un uomo.
Un uomo guardava lei con dentro gli occhi qualche migliaio di catastrofi e sembravano dirle “Allora, ci sei arrivata o no?” e delle labbra che stavano per sorridere.
Bel naso, pensò.
Bel sorriso.
Brutte scarpe.
Soltanto che quando si accorse delle scarpe dovette anche notare che stavano dondolando sulle rotaie.
Mezzo secondo dopo il treno invase il suo campo visivo, ma dovette aprirsi uno squarcio nello spazio o nel tempo, perché rimase la traccia di quel sorriso a galleggiare all’altezza dei finestrini, come una scia al neon stampata nella retina contro le tenebre della notte.
 
   Epoche: not found.
 
No, non fate quella faccia.
Si reincontrarono mille volte, e c’è da dire una cosa, sugli occhi di quell’uomo: non erano gli occhi di un uomo che muore.
Che vuole morire, forse. Che ci ha già pensato un milione di volte, per curiosità o per disperazione, probabile.
Ma che muore davvero, come moriamo io, tu, i fiori e le comunicazioni radio, quello no.
 
Una volta su due andava a finire nei suoi sogni, come si scivola in una pozzanghera o si picchia il mignolo contro lo stipite della porta.
A volte era una statua di bronzo al centro di una fontana, che faceva correre uno sguardo divertito sull’immenso prato di erba cangiante; la stregava con il suo spettacolo di gesti osceni per far arrossire le sirene che lo circondavano, oppure piangendo in maniera incontrollabile, tanto che finiva per riempire la vasca.
Una notte era stato un bigliettaio annoiato e indisponente, stravaccato dietro una scrivania tappezzata di mappe, orari di treni e aerei e mezzi di trasporto inesistenti, il mento affondato nel palmo di una mano e gli occhi cerchiati da occhiaie scarlatte.
- Dov’è che vuoi andare? – l’aveva apostrofata, inarcando impercettibilmente le sopracciglia. – Dio, non vedi quanto questo posto sia fantastico? Io ci resterei tutta la vita. Non ci sono ascensori per la Terra, oggi. Non ti va proprio di rimanere qui a guardarmi?
Un’altra ancora – era crollata sul letto ubriaca – era disteso sul letto accanto a lei, e le stava accarezzando la schiena nuda e macchiata di sole.
Lui aveva addosso una felpa, ma non le mutande, gli occhi socchiusi e il respiro caldo, profondo.
- Sai. – sussurrava, guidando con le dita il contrarsi dei muscoli sopra le sue spalle, le costole, giù fino ai lombi. – Un giorno faremo un album con le fotografie di tutti i momenti in cui avrei voluto ucciderti, ma poi non l’ho fatto.
Lei si tirò su di scatto, perché in quell’esatto momento si rese conto di non essere addormentata, e che lui era proprio lì.
- Quando? – balbettò, guardandolo più che poteva, in quanto era sicura che sarebbe svanito da un momento all’altro, lasciando dietro di sé soltanto l’impronta sul cuscino.
- La prossima volta che ti dimenticherai di me.
Le stampò un bacio sulle labbra – caldo, fuoco, incubi e granelli di sabbia rossa -, per poi alzarsi e camminare verso la porta senza mai smettere di guardarla. Quando le sue spalle aderirono al legno, ammiccò e sparì.
 
Epoche: 3/4
 
- Per mille rospi verrucosi. – esclamò Vivienne con trasporto.
- Corpo di cento porcospini indemoniati. – sospirò Platea, interdetta.
- Porca puttana. – fu la sintesi di Blitzen.
Annika tacque, continuando a torcersi le dita e a fissare sconsolata il suo cappuccino.
Un sospiro le sfuggì dalle labbra e risuonò terribilmente greve fra le pareti della piccola cucina di Platea.
- Tesoro, non fare così. Una soluzione la troveremo, vedrai. – interloquì quest’ultima.
- La storia è piena di situazioni simili alla tua. Certo, un demone è sempre un affare delicato da trattare, ma non c’è da disperarsi. – Viv pensava ad alta voce, sbriciolando un biscotto al cioccolato con le dita. Nella sua tazza, un cucchiaino mescolava con zelo il caffè ormai freddo.
Blitzen era quella più allegra.
- Ti correggo il cappuccino.
Ad un elegante movimento del polso seguì un leggero puff , e da un certo punto del nulla apparve una fiaschetta di grappa. Dopo che ebbe fatto il giro di tutte e quattro le tazze, fece un legnoso inchino a Blitzen, poi sparì.
 
(Ecco, mi venne in mente, la mia storia doveva avere l’odore di quella cucina nel momento in cui si mescolarono insieme il suo normale, di abitudine, biscotti, caffè rovesciato sul giornale o esploso sul fornello, the e patatine fritte, pianti scomposti e ripiani da riordinare, con il sentore acre della grappa di Blitzen.
Non ero sicura fosse adatto a dei bambini, ma se esiste davvero qualcosa, nell’universo, che lo sia, avrei porto le mie scuse a dei Dusk e Fannie adulti e complessati, un giorno.)
 
- Ai disastri. – brindò allegramente la ragazza, scostandosi dal viso ciocche di capelli biondo platino.
Quattro tazze scompagnate vennero alzate, sbattute sul tavolo e bevute tutte d’un sorso come se si trattasse di shots di tequila. A pensarci bene, la situazione richiedeva il sostegno di una certa quantità di alcool in circolo.
- Devo avere un libro che potrebbe aiutarci. – Vivienne inghiottì un singhiozzo, e continuò. – In soffitta o sotto il letto, oh, spero solo non se lo sia portato Joelle in Romania…
- Dell’aglio. Chili di aglio, sarà meglio andare a fare tutto in un posto isolato, ché non sopporto l’odore. Fegato di coniglio, inchiostro di occhi di seppie, polvere estratta da un suo desiderio e fritto misto mare. – snocciolò Blitzen sovrappensiero.
- Che cazzo dici?
- Eh? Metti che il libro ce l’ha Joelle, senti. Io non ho ancora il permesso di tornarci, in Romania.
- Ma sono passati quasi cinquecento anni da quando hai avvelenato tuo marito!
Blitzen sollevò una mano per interromperla, un’espressione infastidita dipinta sul volto.
- Non me lo dire. Quasi cinquecento anni che non assaggio un Cozonac come si deve.
- Stai dicendo che quello che ti preparo ogni singolo Natale non è di tuo gradimento?
- Non la metterei proprio in questi termini, Platea, ma come lo fa la vecchia Tushka è tutta un’altra cosa.
- Magari un bel cerchio rituale… Canapa e zenzero, nastri rossi, luna a tre quarti calante.
La voce di Viv riemerse nel battibecco, dato che Platea non era stata in grado di ribattere, indignata, e ricordò a tutte del problema.
- Bisogna proprio ammazzarlo, quel demone.
- Quando l’hai visto per l’ultima volta?
E Annika raccontò di come avesse incrociato il suo volto in tutte le vetrine di Carnaby Street soltanto quella mattina, mentre attraversava Londra per raggiungerle. Aveva ancora i piedi bagnati per tutta la neve che le era finita nelle scarpe, mentre stazionava incantata davanti a quel viso fumoso e butterato dai residui di detersivo.
Dopo un sospiro generale, Viv estrasse dal niente un taccuino e una penna, preparandosi a prendere appunti.
- Di che colore aveva gli occhi? – domandò con professionalità.
- Non li vedevo, era un’immagine sfocata. Ma le altre volte li aveva sempre rossi, oppure blu.
- Ti ha rivolto la parola?
- L’ha invitata al cenone della Vigilia.
- Blitzen.
- Okay, okay. – fece la ragazza, alzando le mani in segno di resa.
- Non ha detto nulla. Era come se… come se non volesse essere visto, in un certo senso. Se lo guardavo troppo a lungo spariva, e per il resto era come qualcosa che vedi con la coda nell’occhio e quando ti volti non c’è più.
- Da quanto va avanti così?
Annika smise di guardare il fondo della tazza, e si accorse delle tre paia di occhi che la scrutavano con apprensione. Sentiva la bocca irrigidita e le vene asciutte.
Quelle tre donne le avevano salvato l’esistenza, infilandosi armate solo dei loro corpi nella casualità atroce che governa l’universo e che altrimenti l’avrebbe inghiottiva viva.
Vivienne era arrivata una notte di settembre, la stessa che Ann aveva passato seduta sui gradini che si inabissavano alla fermata della metro, pensando ai sorrisi fluorescenti spazzati via dai treni, alla consumazione eterna e alle lucciole estinte; l’aveva guardata attentamente dal cappello alla suola scollata delle scarpe, dalle punte crespe dei capelli all’orlo scucito delle maniche, dal petto privo di cuore alle mani prive di guanti, irrigidite per il freddo e per l’orrore attorno alla ringhiera. E Viv aveva preso quelle mani, sciogliendole la paura da ogni polpastrello, e sorridendo l’aveva portata a casa di sua madre a mangiare brownies che un gentile vasetto incantato aveva cosparso di caramello fuso.
Platea era una compagna di università di Vivienne, ma veniva da lontano: era nata venticinque secoli fa, in Grecia, dal sangue che dal corpo di Mardonio spruzzò sul volto del ragazzino che gli aveva conficcato una spada fra le clavicole. Era vissuta un po’ ovunque, esistenza raminga che si cibava di tragedie e racconti, finché, per una questione di cuore che non si era ancora decisa a chiarire, si era stabilita a Londra sul finire del sedicesimo secolo. Annika l’aveva incontrata ad una proiezione notturna di Good Morning Vietnam: sedeva con le braccia strette al petto, circondata da un allestimento di cuscini, patatine, barrette di cioccolato e kleenex che doveva essersi portata da casa; dal volto non trapelava alcuna emozione – era lei, a sforzarsi di controllarne ogni singolo muscolo -, ma gli occhi erano lucidi dietro le lenti.
- Ti sposti da lì, cazzo. – le aveva ordinato, la voce umida e grumosa che non poteva proprio permettersi di intonare una domanda, se non voleva spezzarsi.
Blitzen era arrivata più tardi, come arrivano i tifoni, il ciclo mestruale e le disgrazie in generale: ne senti il pizzicore nell’aria e in qualche parte dell’anima, ma non conosci il momento esatto in cui avverranno e sai che, in ogni caso, non sarai mai davvero attrezzato per superarle indenne.
Si era presentata alla porta di Platea, alle quattro di una notte proverbialmente buia e tempestosa, con le mani sporche di sangue e la maglietta di vernice.
- Lo sapevo. Dovevi essere tu per forza. – aveva trovato il fiato di dire, un sorriso sghembo tracciato sul suo bellissimo viso. – Tempo perfetto per volare. – biascicò prima di svenire fra le braccia della ragazza.
E poco mancò che svenisse pure Platea, che invece mollò la sconosciuta sullo zerbino e corse a telefonare a Vivienne.
- Mi è capitata Glamis in casa, Viv.
- Prego? – aveva risposto Vivienne, senza traccia di sonno nella voce. Era svanito durante la lunga serie di imprecazioni che la sua proprietaria aveva accompagnato alla ricerca del telefono.
- C’è Cawdor sui miei gradini di ingresso. Credo.
- Oh, e ci sta comoda?
- È svenuta.
Viv sospirò.
- Tesoro, naturalmente io non conosco Shakespeare come lo conosci tu, ma Macbeth non era un uomo?
- Lo so, Viv, ma io ci spero sempre.
- Ti voglio bene. Arrivo.
 
(but baby don’t cry: you had my heart
- at least for the most part.)
 
Ad Annika venne da ridere e un po’ da piangere, mentre pensava a questo e le vedeva lì davanti a sé. E in nome del sorriso di Vivienne, delle illusioni di Platea e dell’imprevedibilità di Blitzen, decise di essere sincera.
- Non si ammazza proprio nessun demone.
Si strabuzzarono sei occhi, si trattennero tre fiati e si fulminò una lampadina.
- Porca vacca. – la redarguì Blitzen.
- Che stai dicendo, Ann? – sbottò Platea, accendendo le candele sparse per la cucina con un brusco cenno della mano.
- Io lo vedo da sempre. È nei miei sogni, nel punto cieco del mio sguardo, nei miei respiri. Un po’ di lui è sulle mie labbra, dentro lo stomaco ho tutti i fantasmi di baci che ho inghiottito. E non voglio che muoia, semmai che diventi più reale. E anche perché se morisse, morirei anche io, perché sono abbastanza certa che lui abbia il mio cuore.
- E quindi?
- E quindi lo amo, Viv. Nonostante tutto. Niente evocazioni, niente feticci di capelli, unghie e imbottitura, niente intrugli da gettargli sulle palpebre per farlo diventare un mucchietto di cenere.
- Annika. – incominciò Blitzen. – Non so in che misura tu te ne renda conto, ma avere a che fare con un demone legato al suicidio, ai sogni e allo shopping in Carnaby Street, tanto più se in possesso del tuo cuore, ha qualche migliaio di risvolti malsani e pochissime possibilità che tu ne esca viva. In qualsiasi senso.
- Ha ragione.
- Toglitelo dalla testa e pensiamo a un benedetto modo di liberarcene.
- Sentite. Io non ho mai – mai messo bocca nelle vostre faccende amorose. Non ho detto una parola quando Vivienne si è innamorata del suo professore di letteratura che poi si è rivelato un vampiro…
- È stato un errore di gioventù. – bofonchiò Viv.
- … Né quando Platea voleva tornare indietro nel tempo per impedire che William si sposasse…
- E da quando lo chiamiamo William?!
- … Né quando Blitzen ha perso la testa per la mitologia greca e voleva cercare di sedurre…
- Va bene! Va bene! – strillò Blitzen. – Tieniti pure il tuo demone, auguri e figli maschi! Me ne lavo le mani, guarda!
Si alzò e se ne andò a fare il giro della casa, continuando a rimarcare in tono isterico quanto se ne sarebbe fregata di eventuali dissanguamenti, stragi, stirpi dannate eccetera eccetera.
Mancavano sei giorni alla vigilia di Natale, e fuori iniziò a nevicare, timidamente, mentre il vento addolciva gli spigoli dei caminetti e le finestre si crespavano di gelo.
 
Epoche: 4/4
Plenilunio.
 
I demoni non si tessono un corpo dal buio senza motivo, Ann.
Non si distinguono dalle altre ombre che popolano il mondo, se non perché mossi da uno scopo, una spinta all’espiazione di qualche peccato che non ricorda più nessuno, soltanto gli anni della loro dannazione.
I demoni preferiscono non avere gli occhi, non respirare; preferiscono fingere di essere morti.
Se il motivo di un demone diventi tu, Ann, ascolta: scappa.
 
Doveva essere quella notte, doveva per forza.
Me l’aveva lasciato scritto nel vapore che rendeva lo specchio un mondo cieco, mentre facevo la doccia, e ai margini dei libri che mi sforzavo di studiare anche durante le vacanze; me l’aveva sussurrato o urlato in quasi tutti i sogni che avevano occupato le mie notti.
E l’aveva ripetuto un’ultima volta, a bassa voce, quasi un rantolo. A una distanza in cui la mia pelle si fondeva con il suo respiro, sigillandomi le palpebre con le labbra.
 
 
La mattina e il pomeriggio e tutte le ore che durò quel maledetto tramonto furono insopportabili; non fece altro che sedersi, lisciare le pieghe del vestito di pizzo nero che le aveva prestato Blitzen, per poi alzarsi e trascinarsi per l’appartamento in cerca di un qualsiasi modo per far passare il tempo, e tutto daccapo.
Quando finalmente i raggi insanguinati del sole si ritirarono, strisciando verso ovest con una lentezza esasperante, schizzò fuori senza neanche prendere le chiavi o il soprabito.
Le strade erano già praticamente deserte, e chi era ancora in giro si affrettava a chiudere la serranda di un negozio o ad aggiustarsi il cappello, diretto a casa.
Quasi all’improvviso si ritrovò sola a passeggiare sui marciapiedi che altre scarpe avevano ripulito dalla neve, mentre ad uno ad uno i lampioni si accendevano e il cielo virava ad un blu sempre più scuro.
Aveva la mente sgombra da qualsiasi pensiero, e non si accorse di dove la stavano portando i piedi finché non vide il fiume brillare del riflesso della luna piena. Aveva scavalcato un basso parapetto di mattoni, e l’erba gelata scricchiolava sotto i suoi stivaletti.
- Annika.
Si fermò. Chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, vide soltanto la massa nera del fiume ritrarsi e tornare, ritmicamente, perciò si voltò e lo vide, appoggiato al parapetto a dieci passi da lei, in soprabito nero e con i capelli spettinati.
- Tu. Non so nemmeno come ti chiami, dopo tutto questo tempo.
Successe qualcosa al suo volto, forse aveva sorriso. Era protetto da un circolo di ombre proiettato dagli edifici alle sue spalle, che continuava con un profilo strano anche sul prato.
- È importante?
- Magari. – si chiese a cosa somigliassero quelle ombre, e se non fosse stata davvero un’idiota ad incontrarlo.
- Mi hanno dato tanti nomi, ma quello che preferisco, quello che usi nei miei sogni, è Cassis.
C’era qualcosa di sbagliato e terribilmente seducente nella sua voce, come se le dipingesse nella mente i sogni di cui stava parlando. Si sentì avvampare nel gelo della notte, quasi avesse la febbre.
- Vieni qui, bambina.
Trattenne il fiato, mentre gli si avvicinava, così non si accorse che, nel momento stesso in cui oltrepassò i confini frastagliati delle ombre, tutta l’aria venne succhiata via e le stelle iniziarono a urlare.
 
Annika se ne accorse subito – lui non era davvero lì.
I contorni del suo viso tremavano, luci e sfumature scorrevano sulla sua pelle come colore ad olio continuamente mescolato da un pennello invisibile. I lineamenti del demone cambiavano forma impercettibilmente quando spostava lo sguardo, come se lo stesse guardando attraverso una lente con un ridottissimo punto di messa a fuoco. Soltanto i suoi occhi rimanevano gli stessi: le iridi rosso cupo, contornate da un bianco che spiccava nel buio e li faceva sembrare finti, appesi in quelle orbite nere come per una dimenticanza. Nemmeno le ciglia, lunghe e candide, ebbero mai un fremito.
Era molto più alto di lei, e le faceva accapponare la pelle.
- Cosa fai Ann? Tremi? Non hai mai paura di me, quando vengo a visitarti nei tuoi sogni.
Cassis parlava, e Annika sentiva le grida strazianti degli alberi di un altro, lontanissimo tempo. Il buio compatto di cui era fatto il corpo del demone si plasmò in una selva di fiamme, ma nessuna la sfiorò: era come guardarle attraverso uno schermo.
All’improvviso, la strega seppe che Cassis soffriva terribilmente.
- Perché hai comprato il mio cuore?
- Questa è davvero una lunga storia, per raccontarla in una notte. – replicò il demone, socchiudendo gli occhi come un gatto.
- Abbiamo tempo…
- No, non l’abbiamo. La vendetta lo fa tutto per sé, lo strappa dal grembo del futuro per macinarlo insieme a quello che è stato, e sparge la cenere sulla mente che vede ciò che è. Il tuo cuore serve a rendermi invisibile al demonio, e a pianificare la mia vendetta. Questo è ciò che ti basta sapere.
- Va bene. – disse la ragazza, dopo qualche secondo di silenzio. - Che cosa vuoi da me?
- Non lo so. Tu non mi servi a niente, eppure io non posso fare a meno desiderarti. Ti seguo ovunque e vorrei sapere ogni cosa di te, aprirti come una scatola e dimenticarmi di uscirne prima di addormentarmi. – Cassis reclinò il capo e per un attimo sembrò un ragazzo confuso, ma subito dopo il suo volto ridivenne una maschera.
- Ora dovresti correre via, perché io voglio ucciderti.
- Sì.
Invece la strega si avvicinò di più al demone e lo baciò.
Non era mai avvenuto, mai, in nessuno dei sogni in che lui aveva infestato.
Con la lingua dischiuse quelle labbra roventi e scivolò sul palato, strappandogli un sospiro che ricatturò subito con la bocca.
Per diversi attimi fu meraviglioso.
Poi accadde una cosa orribile.
Percorse con la lingua i profili aguzzi dei denti di Cassis, per scoprirne una, due, tre file. Come in un incubo, quell’istante si dilatò come una macchia scura, mentre si sentiva pervadere dal freddo e sciogliere le ginocchia.
Cassis parlava, ma lei continuava ad affondare tra i suoi denti e non riusciva nemmeno a urlare.
- O forse, forse potresti aiutarmi.
Le si rovesciarono gli occhi.
L’ultima cosa che vide, prima che diventasse tutto buio, fu l’erba inargentata dalla luna – la cinta d’oscurità che la serrava, ci pensò soltanto adesso, ma era troppo tardi, sembrava l’ombra di un castello.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mi fermai. Avevo la gola secca.
Dusk e Fannie dormivano, non sapevo nemmeno da quanto; erano caduti intrecciati sui cuscini, le bocche socchiuse e i respiri sospesi fra le labbra come bolle di sapone.
Le candele erano ormai ridotte a pozzette di cera, lo stoppino ricurvo ardeva di una fiammella piccola come un’unghia dei bambini. Contai ventisette secondi, e poi si spensero in un unico sbuffo di fumo longilineo.
In quel momento sentii la porta schiudersi, e mi accorsi che c’era stato il silenzio più completo, prima.
- Ehi. – sussurrò la sagoma di Blitzen, ferma sull’uscio. – Dormono?
- Dormono.
- Fuori ha iniziato a nevicare.
Era vero. Scrutai la notte chiara oltre la finestra; il cielo era compattato in un'unica soluzione di nuvole grigie, e fioccava la neve fina come polvere.
- Hai voglia di un the?
Le sorrisi.
- Continui domani, con la storia?
- Penso di sì, se la sopporteranno ancora un po’.
Tacemmo, e lei fece per andarsene.
- Blitzen? – la fermai.
- Sì.
- Ha telefonato?
Le caddero le spalle.
- No. No, non ha telefonato.
Sorrisi di nuovo, stavolta del modo in cui mi guardava, divisa fra l’essere arrabbiata e dispiaciuta.
- Ora scendo, metti su l’acqua.
- Certo tesoro. Ti aspetto giù.
Scivolò fuori, lasciando la porta aperta.
Nevicava; era la prima volta, quell’anno. Identica a come era stato due anni prima.
Ero forse l’unica persona, quella notte, ad invocare il ritorno di un incubo, cucito con mal’arte sul volto dell’uomo che ho amato sempre, in tutte le epoche di questo vecchio e sorprendente mondo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Shame Corner;
Premettendo che: devo qualche migliaio di scuse a Shakespeare, finito senza colpe in questo mare di insensatezze; che non ne avevo intenzione, davvero, di niente di ciò che ho scritto qui sopra, ma le parole hanno cominciato a scriversi da sole, mentre le scorte di senso andavano esaurendosi e non avevo neanche un centesimo per andare a fare rifornimento.
Tutto è nato da una sfida con
Ragnatela: scrivere qualsiasi cosa inserendo tre parole, che in questo caso erano “castello”, “album di fotografie” ed “epoche”. Si presumeva che, avendole scelte io, il risultato sarebbe stato leggermente più civile, e invece non avevo la più pallida idea – né ce l’ho tuttora – di cosa sia ‘sta roba.
La prime tre righe in alto a sinistra rappresentano il tipico esempio di come Gatto capisce le cose, ovvero un cazzo e male; se conoscete Blame It On Me di George Ezra – e se non la conoscete, here’s for you – saprete che inizia così “The garden was blessed by the gods of me and you; So we headed west to find ourselves some truth; Oh, what you’re waiting for?”. Quella lì sopra è la versione corrotta che mi sono ritrovata a cantarmi in testa.
E il resto è soltanto l’esempio di quanto siano pericolosi per me certi esperimenti.
Che ovviamente si ripeteranno, non appena la mia collega sfornerà tre parole.
La parte incredibile e assurda di tutto questo sono le ricerche che mi sono trovata a fare – partendo da una mappa di Londra e sfociando in delitti compiuti in Romania nel Medioevo. Se qualcuno ha qualche idea di chi possa essere morto avvelenato in Romania intorno al ‘500, faccia un fischio: è il marito di Blitzen.
 
 
Gatto Magro.
   
 
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