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Autore: Harriet    14/08/2014    0 recensioni
Io la odio, questa città.
Come ho potuto ritrovarmi a morire proprio qui?

Un ingenuo tentativo di vendicare un'ingiustizia che rischia di diventare una tragedia. Una corsa disperata attraverso una città ostile. Una riflessione su quelle persone che facilmente si trasformano in nemici e raramente in alleati: gli insegnanti.
Genere: Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Almiressa'
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Nemesi


Io la odio, questa città.

Come ho potuto ritrovarmi a morire proprio qui?


Io la odio, questa città. L'ho guardata con sospetto dal momento in cui l'ho vista per la prima volta. Ci fui gettata dentro senza avvertimenti né protezioni e mi ritrovai assediata dai suoi colori sgargianti, il suo traboccare di odori, la sua sfacciataggine e i suoi malumori che prima s'infiammano, terribili, e poi si spengono in una risata e un bicchiere. Le sue mille lingue mi hanno insegnato i segreti di posti sconosciuti. Le sue strade aggrovigliate mi hanno costretta a tirare fuori la spada, più smarrita e minacciata che sul campo di battaglia. Lì, almeno, sai chi sia il nemico.

Sono sbarcata da mezz'ora e sono saltata sulla prima carrozza passeggeri che ho trovato. Devi andare dritto al punto, se vuoi combinare qualcosa in questo posto. Via, veloce: se potessi griderei al cocchiere di correre di più, ma devo adeguarmi al suo passo: non è facile attraversare rapidamente il Porto, questo quartiere sbilenco e derelitto infestato dalla miseria e dalla creatività umana in tutte le sue più incredibili strategie per la sopravvivenza. Dai mercati abusivi alle costruzioni venute su in una notte, tutto diventa un ostacolo alla carrozza.

La mia unica consolazione è che, se la città sta rallentando me che la conosco bene, di sicuro avrà messo in difficoltà anche lei, frenandone la corsa sconsiderata.

È incredibile come debba fare affidamento su questo posto che odio (e che, ne sono sicura, a volte odia me), per una volta. Se ho una speranza di fermare una catastrofe, questa risiede nella città.


- Professoressa Airi! Deve aiutare Sofia!


La carrozza si ferma a due passi da un arco dipinto di azzurro, ricoperto di graffiti, squarci, macchie, screpolature, resti di locandine. Una volta faceva parte del portico di un tempio. Ora ci si passa sotto per lasciarsi alle spalle il Porto e accedere al quartiere di Alessandria, il cuore marcio di questo posto. Da qui conviene proseguire a piedi, almeno per un tratto: nessun conducente si azzarda ad attraversare Alessandria. Semmai lo aggirano. Ma io ho fretta. Tagliando la città a piedi farò prima, e non posso perdere neanche un minuto.

Supero l'arco e penso che sia perfettamente normale, qui, questa mutazione da tempio a porta dell'inferno: gli edifici si ammassano, si abbracciano, si scambiano gli utilizzi, si completano a vicenda nella loro decadenza, mettono in comune le proprie ferite e si trasformano.

Ho un compagno d'armi di nome Mihran, che si è rifatto una vita in questa città. Dice che si sente a casa, qui, perché anche lui è così: ha pezzi di vecchie vite rimesse insieme un po' a caso. Quando è stanco di usare la spada l'abbandona per qualche momento e viene qui, sotto l'arco. Ha un violino rappezzato: si accoccola sul gradino sbocconcellato lì nell'angolo e comincia a suonare. La gente che passa gli chiede musica allegra, ma lui conosce solo canzoni malinconiche. Però restano ad ascoltarlo lo stesso, perché è bravo col violino come con la spada – e, credetemi, è uno dei migliori guerrieri con cui io abbia mai affrontato uno scontro. All'alba si alza e rimette l'armatura. Se gli hanno lasciato dei soldi, li porta alla Mensa dei Poveri.

Questa è una tipica storia da Almiressa.

I miei piedi incontrano frammenti di gradini disfatti, pezzi di vetro, suolo sconnesso. Il vento porta i suoni di risate sguaiate, un pianto infantile, l'eco di un urlo, le ultime parole infiammate di un alterco, da qualche parte oltre le finestre scolorite e cadenti. Un brivido della mia immaginazione mi fa pensare che quell'urlo sia lei, alla fine della sua vita. Ma se davvero mi precede di poco più di un'ora, adesso non può essere qui: avrà già superato Alessandria, sarà quasi arrivata alla meta. Di nuovo, prego la città che le abbia messo i bastoni tra le ruote a sufficienza da darmi tempo di raggiungerla.

Altre grida nell'aria, vicino a me. Adesso ricordo dove sono. Là dentro, nello stanzone sopra la macelleria alla mia sinistra, si allenano i combattenti che la notte deliziano il quartiere, nelle arene degli scontri clandestini. Un mercato di sangue e sofferenza come ce ne sono tanti, da queste parti.

Ho un'amica di nome Talia. Adesso fa la guardia del corpo, ma diversi anni fa era una di quelli che rischiavano il collo quasi tutte le sere per il divertimento di altri. Una così, ti immagini che che abbia cercato di fuggire dalla città appena fatti due soldi. E invece no. Resta qui, e tutti i giorni passa sotto le finestre dei casamenti derelitti dove per poco non si faceva ammazzare, e ti racconta episodi raccapriccianti con un sorriso. Ha disimparato la pietà e la paura. La prima, la sta riacquistanto pian piano. La seconda, temo non la ritroverà mai.

Penso a lei, che in questo momento è come quei combattenti: sulla soglia di uno scontro, a un soffio dalla morte. La mia inutile speranza di fermarla prima che si getti nella bocca del mostro mi sembra inconsistente come gli sbuffi di fumo della pipa del venditore di frutta secca che mi accoglie appena svolto ed entro in Piazza delle Candele, sempre piena di gente. Qui ho ucciso un uomo, una volta. Il mio primo morto fuori dal campo di battaglia. Quando tirai fuori la lama dal suo stomaco, mi chinai su di lui e dissi la preghiera per il nemico morto.

All'improvviso un misto tra campane e annuncio del muezzin mi forniscono un'idea dell'ora. Cedo al caldo e alla sete e mi accartoccio sulla panca esterna di una locanda. Ho bisogno di bere. Dieci minuti di respiro, non di più.

Uno sconosciuto vestito all'europea nota il tatuaggio sul mio braccio sinistro: il sole sorgente della mia divisione dell'esercito, la Compagnia dell'Aurora. Comincia a farmi domande, a parlarmi di suo zio che ne faceva parte. Il mio disinteresse non spegne il suo entusiasmo. Mi racconta il suo episodio preferito: la battaglia di Smirne contro la Pirateria del Nord. Io ascolto la storia della mia vita trasformata in leggenda e mi concedo un sorriso. Alla fine gli pago da bere. Non gli dico chi sono. Non gli svelo che ero il capitano che vinse quello scontro. Va bene così. Non si dovrebbero mai incontrare i propri eroi.

La piazza è alle mie spalle, insieme alle memorie. Alessandria è finita. Davanti a me c'è la Fiera. Fermo una carrozza e ci balzo sopra. Voglio arrivare fino al confine del quartiere, in fretta. Sto andando ad affrontare un avversario infido: l'impazienza e la follia degli adolescenti. Ho parato così tanti colpi improvvisi, in vita mia, e ho anticipato azioni e frenato piani ancora in corso. L'unica cosa che mi ha sempre messa in crisi sono gli esseri umani tra i quattordici e i vent'anni. Ed è un grosso problema, visto che adesso mi pagano per insegnare loro qualcosa.

Dove sarai?


- Sofia è padrona della sua vita. Perché dovrei fermarla?

- Lo sa benissimo perché deve fermarla.

- Avreste potuto parlarne al preside o a uno dei membri del Consiglio d'Istituto.

- Ci abbiamo provato. Nessuno ci ha ascoltati.


Fine della corsa, ai margini nord del quartiere della Fiera. La carrozza mi abbandona in una zona tutta uguale: case che cercano di essere belle, edifici storici che cercano di mantenere una parvenza di identità, persone che sorridono in maniera cortese. Per orientarmi qui ho bisogno della mappa speciale che tiro fuori dalla tasca. L'ha disegnata per me un ragazzino che abita in città, uno che memorizza ogni cosa e reinventa i contorni del mondo. Io trovo riposante la compagnia della sua mente. Per certe cose, siamo molto affini.

La mappa non è per niente precisa, né risponde alle dimensioni della realtà. È una rappresentazione affettiva: ciò che gli piace di più è più grande, più definito. E per questo mi aiuta: mette in rilievo particolari che posso rintracciare. Le persiane arancioni di una casa, le minuscole linee che compongono il piastrellamento di un vicolo, la statua dell'Imperatore Addis III deturpata dalle scritte, gli ex voto appesi al muro della chiesa armena.

Pian piano avverto qualcosa di calmo che mi si risveglia dentro. Vedere il mondo attraverso l'amore di qualcuno è una sensazione strana, e affonda nel groviglio doloroso dei miei sentimenti. Per la prima volta da quando sono sbarcata mi ricordo che ho anche delle memorie belle, qui. E poi mi ricordo il viso di Sofia che sorride per un mio elogio, la sua voce profonda colma di entusiasmo quando mi rivela i suoi progetti, la sua figura alta che svetta nel gruppo dei suoi amici.

So perché è importante che io sia qui.

Il tempo passa, il caldo mi batte addosso. La Fiera diventa il quartiere del Grano e una carrozza, molto più dignitosa delle precedenti, mi raccoglie e mi porta via.


- Lei lo sa, professoressa, che abbiamo ragione.


Il Grano è semplice da attraversare: uno stradone piastrellato di bianco, pieno di carri ben tenuti, cicli che rispettano le regole della strada, pattinatori lenti e bambini educati. Ma oltre le case, oltre le facce composte, oltre i parasole di trina, le cravatte stirate e la patina di Cose Come Dovrebbero Essere, anche qui c'è lo stesso intreccio di marciume e meschinità di ogni coacervo umano. Qui le persone non sono realmente più civili. È solo che qui inventano le categorie secondo le quali puoi definire una cosa o una persona civile.

È una di quelle contraddizioni che trovi dappertutto, in ogni struttura societaria. Per esempio, nell'esercito del quale faccio parte, se una ragazzina stupida ti sfida a duello e tu sei venti volte più forte di lei, puoi ammazzarla, ed è considerato civile.

La mia carrozza termina la corsa nel quartiere della Giustizia, quello dei governatori e dei nobili. È qui che devo andare, a impedire un omicidio civile. Se faccio in tempo.


- Sofia si è imbarcata per Almiressa meno di un'ora fa. Va a sfidare il professor Liviani, da sola. Abbiamo cercato di fermarla, ma lei ci ha fregati ed è sparita. Deve aiutarci! Se prendiamo una nave adesso, forse...

- Voi restate qui. Non voglio altre seccature tra i piedi. Già Sofia da sola è un bel problema. Farò quel che posso per riportarla indietro.


Se questa fosse una ballata da porto, una di quelle sugli eroi e le loro imprese, arriverei che lo scontro è finito e troverei la mia protetta vittoriosa, con il piede trionfante sulla faccia del nemico sconfitto. Se fosse una storia tragica, un apologo deprimente da maestri pedanti, la troverei riversa a terra, fradicia del suo sangue.

Invece è la vita, e la trovo circondata di uomini armati che ridono di lei. È una ragazzona altissima e solida, con un'invidiabile resistenza. Potrebbe diventare una guerriera dotata, se non avesse deciso di venire ad Almiressa a sfidare un uomo contro il quale non ha possibilità di vincere.

Avanzo oltre le tende del portico della villa: le guardie vedono le mie decorazioni militari e mi fanno passare. Sono una compagna d'armi del loro padrone. Lui se ne sta seduto in un angolo, e osserva la scena ostentando impassibilità.

- Ho il diritto di sfidarti!- Grida Sofia, cercando di liberarsi dagli uomini che le impediscono di avvicinarsi al padrone di casa.

- Mi aspetterei più rispetto per un tuo professore.- Le risponde, annoiato. Finge indifferenza, ma lo conosco abbastanza da sapere che se la mia piccola, sciocca allieva insisterà ancora, lui accetterà la sfida e la ucciderà.

- Tu che parli di rispetto?- Lei piega un sopracciglio scuro in una smorfia di sarcasmo. - Tu non hai mai rispettato nessuno.

Si alza in piedi, privo di espressione. Fa un cenno a uno dei suoi: in un attimo gli hanno portato una spada. Una qualunque, niente di che: gli basterà.

- Mi sfidi secondo le regole dei duelli ammessi dagli Eserciti Mediterranei?- Le chiede.

- Sì.- Risponde lei.

- Non puoi.- La mia voce irrompe come un avversario sconosciuto sul campo di battaglia. - Secondo le regole degli Eserciti Mediterranei, se due soldati hanno una contesa con un loro commilitone, il primo ad aver diritto di sfidarlo è quello di grado più alto. Io sono un capitano e un'insegnante dell'Accademia, tu un'allieva. Questo scontro è mio.

Lui mi sorride. Lei si volta di scatto e rimane immobile a fissarmi.

- Professoressa Airi?

- Togliti di lì, Sofia.- Le dico. - Prendi la tua spada e sparisci.

- Professoressa, lei non c'entra nulla. Questa è la mia sfida. Il mio dovere. Sono venuta qui per...

- Per sfidare il professor Andrea Liviani, lo so.- La interrompo. - Sii sempre grata per gli amici che hai, Sofia. Mi hanno raccontato dei tuoi propositi. Speravo di precederti e di dissuaderti del tutto da questa follia prima che tu ti presentassi qui. Almeno ti ho trovata ancora viva.

- Sei venuta fino a recuperare la tua allieva?- Lo scherno di Andrea passa attraverso la lentezza delle parole, la studiata stanchezza dei gesti. - Ammirevole, capitano Airi. Ora, o te ne vai e lasci che io uccida la ragazzina, oppure tiri fuori la spada e combatti.

Andrea è superiore a me per tecnica e forza. Inoltre io sono stanca e non sono preparata a uno scontro del genere.

Davvero, è ridicolo che io sia venuta a morire proprio qui.

Spingo via Sofia con immensa facilità, nonostante sia più alta e robusta di me, e mi metto in guardia. Andrea carica e mi arriva addosso in meno di un secondo. Lo sa anche lui, che non posso vincere. Non così, non adesso. Paro il colpo, rispondo a malapena.

- È uno scontro all'ultimo sangue.- Dice lui. - Come sfidato, ho diritto di stabilire i termini.

- Non mi aspettavo altro.

Continuo a parare, concentrandomi solo sullo scontro, ignorando lo sguardo trionfante prima del tempo, l'arrogante cascata di sicurezza con cui affonda e cerca una breccia nelle mie difese. Non avrebbe bisogno di tutto questo. Vincerà di sicuro.

Molto patetico, molto letterario: la mia nemesi, questa città, alla fine ha deciso il mio destino.


- Non esiste un solo tribunale che condannerebbe Andrea Liviani per la storia di Khaled.

- Questo lo sappiamo benissimo, professoressa. Perché crede che Sofia si sia imbarcata, altrimenti?


Insegno da poco, e prima di essere assunta come maestra di spada non avevo mai pensato che mi sarei ritrovata a gestire le emozioni debordanti e le intemperanze di un branco di ragazzini. La giovinezza, le sue esagerazioni, sono una delle cose che odio di più al mondo.

Ma ormai è andata così. E dal momento che sono un'insegnante, i miei allievi li prendo sul serio.

Prendevo sul serio anche Khaled, uno che sarebbe potuto diventare uno stratega con un certo talento, se avesse imparato a ignorare i giudizi del mondo. Invece, nel giro di pochi mesi dall'inizio di quest'anno scolastico, il suo primo anno, ha perso ogni entusiasmo per l'esistenza. Ha smesso di mangiare, si è chiuso in se stesso, si è indebolito al punto di rischiare la vita. Prima della fine dell'anno la sua famiglia è venuta a riprenderselo all'Accademia Militare.

Io avevo cercato tante volte di parlargli, di mettergli in mano qualche arma per difendersi dal mondo. Ma le voci leggere come la mia non servono a niente, contro le grida di tutti quelli che per un anno intero l'avevano umiliato e costretto in maniera crudele a fare i conti con le proprie mancanze, invece che dargli gli strumenti per superarle.

Di vicende così ne accadono ogni anno, ogni giorno, forse, da tutte le parti. Ma questa è avvenuta tra i miei allievi, quindi mi riguarda.

Liviani ha finito i suoi corsi, quest'anno, e se n'è andato prima della fine della scuola, nella sua bella casa di Almiressa. Gli amici di Khaled avrebbero voluto affrontarlo, parlargli, provare almeno a fargli capire quanto le sue parole e il suo scherno avessero pesato sul loro compagno. Lui però è sparito senza dare loro modo di incontrarlo. E la furia sopita di Sofia è esplosa tutta insieme.

Quando Sofia è partita, meno di un'ora dopo la fine della scuola, per sfidare colui che ritiene responsabile principale della disgrazia di Khaled, ho capito che dovevo seguirla. Ho preso la prima nave in partenza da Cipro verso la costa nordafricana, pregando di fare in tempo. Ero sicura che si sarebbe precipitata da lui appena scesa dalla nave.

E infatti è andata proprio così: di corsa alle porte di Andrea Liviani, a chiedergli conto della sofferenza provocata al suo amico.

Ne ho conosciuti tanti di maestri come Andrea. Convinti che l'umiliazione sia in grado di stimolare chissà cosa, dentro i ragazzi. Le parole taglienti dovrebbero, nelle loro intenzioni, modellare quegli esseri informi che si trovano davanti, spingendoli sulla via della sapienza e dell'impegno.

Mi chiedo se sia mai esistito qualcuno che per davvero ha imparato qualcosa in questo modo.

I miei allievi a volte mi fanno notare che sono brutalmente onesta, non addolscisco la realtà e sono sempre diretta. Ma mi interessa di loro. Perché quando li incontro non sono ancora adulti, e quindi hanno ancora una possibilità di scoprire in sé qualcuna di quelle caratterstiche che rendono il mondo almeno un po' degno di essere abitato.

Ad Andrea Liviani non interessa neanche più insegnare. Un talento leggendario ormai troppo vecchio per la prima fila dell'esercito, relegato con molti onori a tramandare la sua arte agli allievi, gode del suo ruolo e della sua superiorità, e si vanta del suo disprezzo e della sua ferocia. Io ci credo, che le sue parole e i suoi modi abbiano aggravato le condizioni di Khaled.


- Perché date la colpa a Liviani per il crollo di Khaled?

- Lo sa benissimo, professoressa Airi. Liviani è stato anche un suo insegnante, no?


Da quanto tempo siamo qui? Il sole brucia, le mani sudate scivolano sull'elsa, il viaggio pesa sul mio corpo e la stanchezza risucchia l'energia che mi resta. Il tempo è un luogo lungo e stretto dal quale non riesco a uscire.

Paro un colpo e indietreggio. Chissà se mi ucciderà davvero, quando mi disarmerà.

E io?, si chiede una parte di me. Se per caso dovessi vincere... Se riuscissi ad avvicinarmi abbastanza da permettergli di ferirmi, eppure allo stesso tempo abbastanza da colpire bene, abbastanza da rompere la sua calma irritante, abbastanza da rigirare il risultato dello scontro e...

E io cosa farei, io cosa farò, adesso che la spada vola via dalla sua mano, adesso che finalmente vedo stupore rabbioso sul suo volto, adesso che sono io, a sorridere?

Calcio via la sua spada e arrivo a un soffio dalla sua gola con la punta della mia arma.

Silenzo. Ci siamo solo io e la mia coscienza, adesso.

- Alzati, entra in casa tua e scrivi una lettera di dimissioni dal tuo ruolo di insegnate di spada. Ti lascerò vivere, ma non permetterò che tu metta mai più piede all'Accademia Militare.

Nel silenzio Sofia scoppia a piangere. Nel silenzio, lo sguardo gelido di Andrea si infiamma, poi la sua bocca si spalanca in un fiume di oscenità. Ma non importa. Ho vinto.


- Riuscirà a salvare Sofia, vero?


Sotto l'arco azzurro Mihran suona il violino, e io, seduta su un muretto sbrecciato, tengo un braccio sulle spalle di Sofia e la lascio piangere. Piange a momenti alterni da quando l'ho trascinata via dalla casa di Andrea Liviani. Di sollievo, più che altro. I singhiozzi lievi che le scuotono le spalle mi irritano e mi intereniscono al tempo stesso.

Voglio che sappia l'entità dell'idiozia che ha rischiato di fare. Voglio che sappia che ho rischiato la vita per lei – e non perché si tratta di me, ma perché è una lezione salutare, la consapevolezza di aver messo a repentaglio vite altrui per le proprie battaglie. E ora che il caldo ci dà tregua, ora che la città è quasi amichevole con noi (ma non mi lascio ingannare), ora voglio soprattutto che Sofia ricominci a respirare.

Tra la gente che ascolta la ballata malinconica di Mihran ci viene incontro la mia amica Talia, con un bicchiere di birra che mette tra le mani di Sofia.

- Basta piangere, adesso.- Le dice.

- Non è maggiorenne.- Protesto senza molto impegno. Talia fa un'alzata di spalle. Sofia mi guarda come per chiedermi il permesso, poi beve. Io mi concedo la prima risata del giorno.

C'è una certa delicatezza, nella voce della città, adesso, e non so se stia cercando di confortarmi o sfottermi, o una via di mezzo. Devo ammettere che in qualsiasi altro posto del mondo, forse questa storia sarebbe finita in modo diverso.

Sospiro, venendo a patti col fatto che oggi sono grata alla città. Mi ha aiutata a salvare Sofia, e ha cercato di dirmi qualcosa che ho sempre saputo, ma che ogni tanto ho bisogno di imparare di nuovo.

Mi interessa davvero. Degli esseri umani. Dei miei allievi, delle loro storie. Mi interessa davvero.







***
Grazie di essere qui.
Grazie a Lorenzo e Kinnara, beta di questa storia (e buon compleanno a Kinnara.)
Dedicata ai miei beta, ai miei giocatori, agli insegnanti che fanno bene il loro mestiere e a chiunque si sia sentito un pochino vendicato leggendo questa storia.

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