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Autore: Quella che ama i Beatles    14/08/2014    1 recensioni
[Crossover Beatles/Doctor Who]
1963. E' un giorno qualunque a Londra, ma non per John Lennon. Di certo non è un giorno qualunque quando, scappando da tre fan esaltate, incappi in un matto dentro una cabina telefonica più grande all'interno.
L’incarnazione della soddisfazione, il tizio lo aiutò a rialzarsi in piedi senza smettere di parlare.
- … voglio dire, chi altri scriverebbe una canzone in cui si parla di un sottomarino giallo? I sottomarini sono forti! Geniale, assolutamente geniale. Se il TARDIS non fosse una cabina blu sarebbe un sottomarino giallo. – Con un sorriso a trentadue denti, l’uomo cominciò a canticchiare un allegro motivetto. – E The fool on the hill? Doppia genialità! Sostituisci collina con cabina e sono praticamente io! Incredibile. Octopus’s Garden, Ob-la-di ob-la-da… be’, in quanto a fantasia non vi batte nessuno. -
John lo fissò, più esterrefatto che mai. Se poteva essere ancora certo di qualcosa – e in un momento come quello aveva l’impressione che molte delle sue certezze gli stessero crollando addosso – era sicuro di non aver mai scritto una canzone che parlava di un sottomarino giallo.
Genere: Commedia, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, John Lennon, Nuovo personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: Spoiler!
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ATTENZIONE: per chi di voi, Beatlesiani Whovians o semplici curiosi, non ha visto quinta, sesta e settima stagione, sappiate che ci sono degli spoiler. Ho messo l'avvertimento, per poi aggiungere questo avviso per essere più precisa. Fangirls avvisate mezze salvate! 



In una normalissima e tranquillissima sera di autunno a Londra, John Lennon correva a perdifiato.
Si poteva dire che fosse la sua routine quotidiana, ormai. Sveglia, prove e registrazioni delle canzoni agli studi, pranzo veloce, ancora registrazioni, qualche abbozzo di nuovi brani con Paul, se l’ispirazione c’era, e una birra al pub una volta finito. In mezzo a tutto quello, una corsetta per sfuggire alle fan dei Beatles che impazzivano non appena vedevano uno di loro quattro ci entrava tranquillamente.
John poteva benissimo udire gli strilli delle tre ragazze, che nonostante corressero quanto e più di lui avevano anche il fiato per urlare. Maledizione, pensò. E dire che ce l’avevo quasi fatta, a raggiungere il pub.
- John, ti amo! –
- Fermati, ti prego! –
- Ti voglio abbracciare! –
Altro che abbracciare. John ormai conosceva bene le loro fan: se avesse permesso loro di raggiungerlo, lo avrebbero probabilmente soffocato per l’esaltazione.
Aumentò ancora di più l’andatura, le lunghe gambe che cominciavano a tremargli per lo sforzo. Svoltò a destra, in un vicolo più stretto, e vide quella che poteva essere la sua salvezza: una cabina telefonica della polizia.
Sorrise, sfinito ma sollevato. Ormai sempre più spesso si rifugiava nelle cabine per sfuggire alle fan impazzite. Benedetto sia chiunque le abbia inventate, pensò.
Diede un’ultima accelerata e arrivò alla porta della cabina.
- Vi ho fregate anche stavolta – ridacchiò ed entrò, sbattendo la porta alle spalle.
 
 
Ora, John Lennon aveva visitato molte cabine, nell’ultimo anno. E conosceva benissimo le loro dimensioni interne. Perciò, entrò con una certa energia, per potersi buttare subito addosso alla piccola parete e scivolare a terra, per riposare.
Quello che non si sarebbe minimamente aspettato, mai e poi mai, era di non trovare nessuna parete interna a cui appoggiarsi. Era impossibile, ma fece irruzione in una sala molto più grande.
Uno shock mai provato prima in vita sua emise un boato silenzioso nella sua mente, cancellando ogni altro pensiero. Quello, e lo slancio con cui era entrato, gli fecero fare una spettacolare caduta. Finì lungo disteso a terra, con le ginocchia che protestarono immediatamente.
Comparvero un uomo e una ragazza. John non si era praticamente accorto di loro, completamente preso dal fatto totalmente illogico che quella cabina in cui era entrato era più grande all’interno.
- Ehi! – esclamò vivacemente l’uomo, avvicinandosi a lui. – Accidenti, neanche il tempo di sbloccare le porte del TARDIS che qualcuno ci entra dentro di prepotenza. Non si usa più bussare? Ti sembra questo il modo di fare? –
- Dottore! È appena caduto, non essere maleducato – lo rimproverò la ragazza di fianco a lui. Si chinò vicino a John, porgendogli una mano. Aveva lunghi e fluenti capelli rossi e grandi occhi verdi. – Ti sei fatto male? –
John li fissò senza proferire verbo e senza muoversi. Era completamente sconvolto. Doveva avere una faccia piuttosto stravolta, perché il viso dell’uomo parve ammorbidirsi e si chinò anche lui. – Va tutto bene? –
John continuò a guardarlo. Fece per emettere qualche suono, quando gli occhi e la bocca dell’uomo si spalancarono sproporzionatamente. Si illuminò come se avesse una lampadina interna che si fosse accesa tutta d’un tratto.
- Oh, per tutte le galassie! Tu sei John Lennon! Oh, fantastico, meraviglioso! – Ignorando il fatto che fosse ancora steso per terra  e la sua espressione totalmente attonita, l’uomo gli prese la mano e gliela strinse vigorosamente. John non ricambiò la stretta, limitandosi a fissarlo stranito. – Ho sempre desiderato incontrarti, è strano che nonostante io viaggi molto non ti abbia mai incontrato – o meglio, forse una volta sì? Oh, Dio, non mi ricordo più. Ma una cosa è sicura, non ti ho mai incontrato nel periodo dei Beatles, e sei capitato proprio a fagiolo! – L’incarnazione della soddisfazione, il tizio lo aiutò a rialzarsi in piedi senza smettere di parlare.
- … voglio dire, chi altri scriverebbe una canzone in cui si parla di un sottomarino giallo? I sottomarini sono forti! Geniale, assolutamente geniale. Se il TARDIS non fosse una cabina blu sarebbe un sottomarino giallo. – Con un sorriso a trentadue denti, l’uomo cominciò a canticchiare un allegro motivetto. – E The fool on the hill? Doppia genialità! Sostituisci collina con cabina e sono praticamente io! Incredibile. Octopus’s Garden, Ob-la-di ob-la-da… be’, in quanto a fantasia non vi batte nessuno. -
John lo fissò, più esterrefatto che mai. Se poteva essere ancora certo di qualcosa – e in un momento come quello aveva l’impressione che molte delle sue certezze gli stessero crollando addosso – era sicuro di non aver mai scritto una canzone che parlava di un sottomarino giallo.
- Scusi, ma di che cavolo sta parlando? – domandò. Aveva un filo di voce; lo shock gli aveva smorzato pure quella. Notò con la coda dell’occhio che la ragazza lo stava guardando con un’espressione colma di compassione, come se comprendesse cosa stesse provando.
L’uomo aggrottò le sopracciglia. – Ma come, di che cavolo sto parlando? Tu sai… -
- Dottore – lo interruppe la ragazza, sospirando. – Non so molto dei Beatles, ma credo che Yellow Submarine  risalga a qualche anno dopo il 1963. –
Il tizio spalancò la bocca, guardandola. – Siamo nel 1963? –
- Sì, e tu stai probabilmente traumatizzando a vita John Lennon! – lo rimproverò.
John non sapeva neanche come si chiamasse, ma le inviò tutta la sua più profonda gratitudine. Sembrava decisamente più sana di mente dell’uomo, e in quel momento John desiderava disperatamente solo quello: una persona sana di mente, che gli dicesse che lo era anche lui.
L’uomo adesso sembrava imbarazzato. Si passò una mano tra i capelli biondo scuro. – Accidenti, scusa. Adesso capisco, in effetti mi sembravi troppo giovane… e non hai i baffi, in effetti! E neanche gli occhiali. –
- Ma che… certo che non ho i baffi! – protestò John. – E poi, troppo giovane per cosa? –
L’altro agitò vagamente una mano. – Oh, niente, tranquillo. Continua a goderti il successo del tuo gruppo e fa’ strappare i capelli a milioni di ragazze! –
John, totalmente frastornato, riuscì a malapena ad annuire. L’uomo gli sorrise e gli diede una pacca sulla spalla.
- Be’, ci si vede in giro, John Lennon. – Fece un cenno alla ragazza, e fecero per avviarsi verso le porte.
- Aspettate! – protestò lui. Aveva centinaia di domande che gli turbinavano nella mente, ma riuscì a selezionarne solo due, le più pressanti.
- Chi diavolo siete voi due? E questa… - Allargò le braccia, come a comprendere tutto quell’ambiente impossibilmente enorme. – Come diavolo può essere più grande all’interno? E perché sembra così… così… - Non riusciva a trovare un aggettivo adatto, perciò lasciò perdere. Incredibile era troppo poco. Era una grande sala illuminata da una bizzarra luce arancione, con al centro un ripiano esagonale dal quale si alzava un alto tubo che arrivava al soffitto. Il ripiano era pieno di pulsanti, leve e manopole, e John provò il desiderio infantile di cominciare a manovrarli a caso per vedere cosa succedeva.
Fantascientifico. Ecco un buon aggettivo. Un altro era futuristico.
L’uomo scambiò un’occhiata con la ragazza. Una rapidissima conversazione silenziosa parve sfrecciare tra loro, fino a quando lei non si fece avanti con un sorriso gentile, quasi per scusarsi dello shock che gli avevano causato. – Hai ragione, chiunque sarebbe sbalordito. Io sono Amy Pond. – Gli strinse la mano. – Lui è il Dottore. –
John lo fissò, confuso. – Il Dottore chi? –
- Ah, umani – sospirò il Dottore. - Tutti le stesse domande, il Dottore chi, come fa a essere più grande all’interno, perché indossi quel farfallino… Oh, se me lo stai per chiedere, i farfallini sono forti. –
Prima il cervello di John lo aveva registrato a malapena, ma in quel momento il ragazzo notò effettivamente che era vestito in maniera antiquata: cravattino bordeaux, giacca di tweed con le toppe ai gomiti sotto alla quale c’era una camicia. Si intravedevano persino le bretelle.
 – Be’, probabilmente mio nonno si vestiva come te – commentò John.
Amy scoppiò a ridere. Aveva un bellissimo sorriso. Hai visto il nonno, pensò John. - Mi devi ancora spiegare la faccenda della cabina più grande all’interno  – aggiunse.
Il Dottore sbuffò e alzò gli occhi al cielo. Il ragazzo capì che stava cercando di prendere tempo. – Senti, John, io ti apprezzo molto, i Beatles sono forti e Yellow Submarine è più che forte… ma devi proprio? Sarebbe una spiegazione lunga e complicata, sono sicuro che hai altro da fare… -
John pensò a Paul, George e Ringo che lo stavano aspettando da chissà quanto tempo. Scusatemi, ragazzi, ma qui è qualcosa più grande di noi. – Nah – rispose. Poi lo colse un lampo di genio. – Avrei altro da fare solo se questa deliziosa pupa uscisse con me – disse, con il suo miglior sorriso e un occhiolino ad Amy.
Il Dottore si illuminò. – Ecco, sì, perfetto! Esci con Amy, non pensare a sciocchezzuole come… cabine più grandi all’interno e sottomarini gialli e giardini di polpi, che vuoi che siano? – Agitò una mano. – Amy, che grande onore, invitata da John Lennon! Forza, andate, su. Io visiterò il 1963 per conto mio. –
Prima che John potesse chiedergli che diamine significasse quell’ultima frase, il Dottore li sospinse fuori. Richiuse la porta e John poté nuovamente constatare come quel posto incredibile e fantascientifico da fuori fosse sempre una normalissima cabina blu. Il desiderio di capire gli si agitò di nuovo dentro, più forte che mai.
- Bene, io vi saluto, ragazzi – disse il Dottore. – Divertitevi! –
Si incamminò nella stessa direzione dalla quale era provenuto John – davvero solo venti minuti prima stava scappando da fan impazzite? – e presto scomparve dietro l’angolo.
John lanciò un’occhiata ad Amy. Perlomeno da tutta quella follia aveva rimediato un appuntamento con una bella ragazza. I suoi pensieri andarono nuovamente agli amici, e di nuovo si scusò mentalmente con loro, pensando che anche quella era una cosa più grande di loro.
- Quindi il Dottore non è il tuo ragazzo – fu la prima cosa che gli venne da dire.
Amy rise. – No. Anche se… - Gettò un’occhiata nella direzione dove era scomparso.
Anche se ti piacerebbe conquistarlo? O portartelo a letto? pensò John.
- Potremmo sempre farlo ingelosire – la stuzzicò, e lei rise di nuovo.
- No, non penso che queste cose funzionino con lui. È un po’… come dire, ingenuo, da questo punto di vista. –
- Be’, facciamolo smaliziare un po’ – propose John con un sorriso furbo, e prese Amy sottobraccio.
 
 
Le ore successive sconvolsero la vita di John.
Amy era meno incline alla segretezza di quanto lo fosse il Dottore, e lei e John si trovarono subito simpatici. Così, il ragazzo apprese che il Dottore era un Signore del Tempo proveniente dal pianeta Gallifrey, che lei era una ragazza del ventunesimo secolo che lo accompagnava nei suoi viaggi attraverso il tempo e lo spazio, che quella cabina era un TARDIS ed era, appunto, una macchina del tempo. All’inizio John non poteva crederci, e le rise in faccia; poi, man mano che Amy gli raccontò nei dettagli alcune delle avventure che avevano vissuto lei e il Dottore cominciò lentamente a capire che era tutto vero – d’altronde, aveva visto con i suoi occhi la cabina più grande all’interno.
Assurdo. Da sballarsi una vita intera. Dopo un certo numero di birre però tutto cominciò a sembrargli un po’ più distante e confuso, i dettagli delle vicende della ragazza e del Dottore cominciarono a mescolarsi tra loro e John cominciò a concentrarsi solo sul gran bel paio di gambe di Amy.
In seguito non avrebbe ricordato molto della fine della serata. Ricordò solo che aveva baciato Amy, che lo aveva ricambiato in un primo momento ma poi si era scostata – aveva bisbigliato qualcosa che c’entrava con un fidanzato di nome Cory, o una cosa del genere. Successivamente, dopo pochi minuti o molte ore, percepì il suo corpo sprofondare in qualcosa di morbido – probabilmente un letto – e tutto si fece buio.
 
 
La mattina dopo, naturalmente, si svegliò con un poderoso mal di testa. Si mise a sedere lentamente, strofinandosi gli occhi, ancora mezzo assonnato. Il suo corpo, prima della sua memoria, gli comunicò che la sera prima doveva aver bevuto un bel po’: i postumi della sbornia c’erano tutti. Oggi non c’è verso che arrivo agli studi in orario, pensò. Brian darà di matto.
Sbadigliò. E ad un tratto ricordò tutto: la cabina telefonica della polizia più grande all’interno, il Dottore, Amy, i viaggi nel tempo. Si domandò se non fosse tutto un gigantesco sogno che la sbronza aveva contribuito ad alimentare con particolari fantasiosi: certo, era possibile che fosse uscito con una bella ragazza dai capelli rossi di nome Amy. E che l’avesse incontrata mentre stava con un tizio vestito da nonno soprannominato il Dottore. Ma i viaggi nel tempo e nello spazio? Gli alieni? La cabina telefonica che non era una cabina telefonica? Era impossibile. Ho una gran bella fantasia, non c’è che dire.
Si stiracchiò e si trascinò fuori dal letto, ciabattando in cucina per fare colazione. C’erano già Cynthia e Julian, seduti a mangiare. – Buongiorno – salutò John.
- Buongiorno – rispose sua moglie, mentre imboccava il piccolo.
John mise a tostare il pane, sbadigliando ancora. – Non ti dico che sogni bizzarri ho fatto stanotte, Cyn – ridacchiò. – Alieni, viaggi nel tempo… chissà cosa mi ha messo quello stronzo di barista nella birra. –
- Be’, forse è la tua creatività che si manifesta in modo diverso – commentò la ragazza, ridendo. – E a proposito di viaggi nel tempo, quel tuo amico che ti ha accompagnato stanotte a casa poteva benissimo provenire da un’altra epoca, per come era vestito. –
John si sentì gelare tutto.
- Perché? – domandò. Gli parve che fosse stato un estraneo a parlare, a muovere la bocca per lui.
Cynthia dovette percepire qualche cosa di diverso nel suo tono, perché lo guardò con un’occhiata strana. – Non te lo ricordi? Giacca di tweed, farfallino rosso… era decisamente troppo giovane per vestirsi in quel modo! E i capelli! Pensavo che ormai tutti i ragazzi inglesi più giovani dei trent’anni avessero il vostro taglio, sai – rise.
John si sentiva precipitare. Era lui. Era davvero lui, esisteva davvero.
- C’era anche Amy? – domandò con un tono che sperò essere indifferente.
Cynthia strinse impercettibilmente le labbra. – Sì. Lei ti sorreggeva per un braccio, l’altro tuo amico, il Dottore, per l’altro. –
L’aveva detto. Aveva detto quel nome. Il Dottore.
John lasciò cadere la fetta di pane tostato e corse a vestirsi.
 
 
Uscì di casa correndo, ignorando lo stupore della moglie per tutta quella fretta. Prese un taxi e diede l’indirizzo dove il pomeriggio precedente aveva visto il TARDIS, con la promessa di un autografo e dieci sterline di mancia se ci fosse arrivato entro dieci minuti.
Il suo orologio ne contò otto quando fu arrivato alla via. Scarabocchiò il suo nome sull’agendina del giovane tassista, gli lanciò una banconota da dieci e ricominciò a correre.
Il suo cuore parve allargarsi quando vide il TARDIS. Fece per aprire, con slancio ancora maggiore del giorno prima, ma stavolta sembrava chiuso ermeticamente. Si accanì sulla porta, ignorando lo sbigottimento dei passanti, ma quando vide che tutti i suoi sforzi erano inutili cominciò a bussare insistentemente.
- Dottore! Amy! – chiamò. Ripeté i loro nomi per circa un minuto, quando la porta si aprì e John vide gli occhi del Dottore che lo fissavano con rimprovero.
- Vuoi rivelare la nostra presenza a tutta l’Inghilterra? – domandò.
- Volevo vedere se foste ancora qui – rispose lui. Il cuore gli batteva freneticamente. Era davvero tutto reale, quella era la prova definitiva. Non era stato un sogno.
Il viso di Amy sbucò sotto la testa del Dottore. – Certo che siamo ancora qui, non andiamo da nessuna parte per ora – disse. – Il Dottore ha detto che visto che siamo nel 1963 tanto vale assistere a un concerto dei favolosi Beatles. –
John non riuscì a impedire a un largo sorriso di disegnarsi sul suo volto. Il mal di testa sembrava essere svanito per miracolo. – Gli alieni hanno ottimi gusti in fatto di musica – commentò.
- Ah, puoi ben dirlo! – rispose il Dottore, facendo un gran sorriso. – Questa ti piacerà, una volta sono andato a trovare Elvis, e se frugo da qualche parte credo di poter ritrovare la gelatina che lui stesso usava per farsi la sua famosa acconciatura. Me la prestò perché mi disse che secondo lui mi avrebbe donato… - Aggrottò le sopracciglia. – Solo che provai a farmela una volta e combinai un pasticcio, la gelatina colò su dei meccanismi delicati del TARDIS e, be’, spero che quello che accadde allora non accadrà mai più… -
John era a bocca aperta. Il suo cervello si era fermato alla parola prestò. – Tu hai parlato con Elvis Presley? – domandò lentamente.
- Oh, ci ho pranzato assieme, se è per questo. –
Oh, mio Dio. – Dottore, amico mio! – esclamò, sfoderando un sorriso a trentadue denti ed entrando nel TARDIS. – Perché non mi racconti un po’ di Elvis e nel frattempo mi indichi dove cercare quella gelatina? –
 
 

Molti anni dopo.
John camminava frettolosamente per le strade di New York, le spalle curve, gli occhiali da sole tondi ben calcati sul naso aquilino e il cappello che teneva almeno un po’ a bada i lunghi capelli castani. Era passato molto tempo da quando scappava a gambe levate dalle fan dei Beatles impazzite, ma comunque quando camminava per la città – soprattutto quando si concedeva un raro momento di relax, come quella passeggiata – preferiva annullarsi, fingersi un passante qualunque. Nonostante teoricamente quello fosse soltanto un giro per sgranchirsi le gambe, il suo cervello continuava a ronzare sui soliti pensieri: quei maledetti bastardi che gli negavano il permesso di soggiorno negli Stati Uniti perché stava  antipatico al governo americano – non gli piace che qualcuno contesti la strage in Vietnam, dobbiamo essere un gregge di pecore ottuse e belanti, per loro – i problemi che continuava ad avere con Yoko, nonostante si fossero riappacificati – non devo perderla, non devo permettermi di perderla, farò di tutto, sono un coglione se la perdo - la prossima manifestazione che aveva in mente di fare – dove avremmo maggior visibilità? Spero che quei bastardi non prendano a manganellate la folla anche stavolta… -
Era profondamente immerso nei suoi pensieri, ma non tanto perché il suo cervello non registrasse automaticamente un’anomalia: aveva percorso spesso quella strada, e non c’era mai stata quella statua di quell’angelo con le mani davanti al volto.
Strano, pensò vagamente una parte della sua mente.
 
 
Svoltò a destra, in una strada secondaria e meno frequentata. Stirò le braccia, ruotando il collo per scrocchiare le vertebre cervicali, e all’improvviso si bloccò, mentre tutti i suoi pensieri sulle modifiche che aveva intenzione di apportare a un paio di brani nuovi si volatilizzavano.
Con la coda dell’occhio aveva scorto un’altra statua di un angelo con le mani sul viso.
Anche qui? pensò stupito. Si guardò intorno. Era una zona residenziale e non proprio benestante, la statua di quell’angelo stonava parecchio con l’ambiente circostante.
E c’era di più. Aveva la stessa, identica posizione della statua precedente, nella strada che aveva percorso prima. Sembrava quasi la stessa, in effetti.
La parte più primitiva del suo cervello, quella che captava il pericolo, che badava unicamente all’autoconservazione, lanciò un allarme. John non sapeva come né perché, ma la parte più irrazionale di sé gli diceva di fuggire.
Tentò di tenerla a bada. Erano solo delle statue che qualche scultore fantasioso aveva piazzato in posti improbabili, che ci poteva essere di pericoloso? Era solo suggestione. La sua immaginazione che correva a briglia sciolta.
Scacciò quell’impressione e riprese a camminare.
 
 
Ben presto il suo cervello fu ricatturato dai soliti pensieri. John era abituato così: era talmente impegnato, la sua vita era talmente frenetica che la sua mente era sempre attiva e ronzante, occupata dai pensieri più svariati.
Nonostante questo, di tanto in tanto tra le sue riflessioni faceva capolino la stranezza di quelle due statue. Non appena sbucava John la cacciava via, giudicandola una sciocchezza, ma la parte più profonda e istintiva di sé continuava a rimuginarci silenziosamente sopra.
Ho bisogno di dormire, decise John all’improvviso. Vado a casa, mi butto a letto e ci rimango per otto ore buone. La passeggiata è durata anche troppo. Sentì un profondo sollievo all’idea di una bella dormita.
Sollievo che svanì tutto d’un colpo quando fece per girare a sinistra, in un’altra strada, e con la coda dell’occhio colse un’altra statua di angelo.
Con una differenza rispetto alle altre volte. Quella statua si trovava nella via che aveva appena percorso, e non in una che stava per imbucare.
Ci sono appena passato, lungo questa strada, pensò con fredda lucidità, forse per lo shock. E non c’era nessuna statua. Non c’era nessuna fottuta statua.
La paura giunse come una secchiata di acqua gelida, che lo immobilizzò all’istante. Brividi freddi serpeggiarono lungo la sua schiena. Fissava la statua, paralizzato, e ora era tutto il suo cervello, la parte razionale e quella irrazionale, a urlargli di allontanarsi da quel palese evento soprannaturale.
Per un istante John pensò all’unico altro evento soprannaturale della sua vita, che era stato più sbalorditivo ma decisamente più rassicurante, e una lucina gli si accese nella mente offuscata dalla paura. Con speranza e fervore infantili desiderò che lui arrivasse, che giungesse lì subito con la sua cabina che non era una cabina e gli spiegasse cosa diavolo fosse quella statua, perché se c’era qualcuno che lo sapeva, era sicuramente lui.
- Dottore – sussurrò John. Strinse gli occhi, come a imprimere più forza al suo desiderio. – Dottore, vieni qui subito, per favore. –
Aprì gli occhi e urlò.
La statua era a pochi centimetri da lui, le mani protese verso di lui, il volto distorto in una smorfia malvagia, da far accapponare la pelle. La bocca era spalancata e mostrava una schiera di denti appuntiti.
John indietreggiò incespicando, le mani che gli tremavano, il cuore che martellava furiosamente.
- Aiuto! – gridò, e qualcuno dalla fine della strada, qualche decina di metri più in là, lo guardò brevemente. Ma nessuno si fermò. – Aiuto! –
Aiuto, ho bisogno dell’aiuto di qualcuno, cantò irrazionalmente la sua stessa voce nella sua mente sconvolta dalla paura.
- Non distogliere lo sguardo! –
Sentì un rumore rapido e sottile. Toc toc toc toc. Tacchi in avvicinamento: stava arrivando una donna.
- Cosa? – gridò, frastornato.
- Non distogliere lo sguardo dall’angelo! Non battere le palpebre! –
John non aveva idea di come uscire da quella situazione terrificante, perciò decise di seguire il consiglio della donna. Fissò lo sguardo sul petto dell’angelo: non riusciva a guardare in volto quel viso mostruoso.
Sentì i tacchi avvicinarsi sempre di più e fermarsi. Percepì la donna proprio dietro di lui. – Adesso indietreggiamo fino alla strada. Là c’è gente, saremo più al sicuro, non attaccano in mezzo alla folla – disse rapidamente. Aveva una voce roca, si capiva che era una donna anziana, tuttavia era sicura e perentoria. – Non distogliere lo sguardo, e cerca di non battere le palpebre. –
John si sentiva girare la testa. – Ma perché? Che cos’è? –
La donna lo afferrò per la spalla e cominciò a trascinarlo all’indietro. Procedevano lentamente, tentando di non inciampare, gli sguardi fissi sulla statua. – Questa creatura è un Angelo Piangente. È uno dei mostri più orribili dell’universo. Finché lo guardi non si può muovere, non esiste neanche; ma quando chiudi gli occhi si muove eccome, è velocissimo. Se ti prende ti manda in un’altra epoca, e si nutre dell’energia temporale che provoca il viaggio. –
Le orecchie di John fischiavano. Soltanto un’altra volta nella vita aveva provato quello sbigottimento così profondo, annullante.. . e anche in quell’altra volta si era parlato di viaggi nel tempo, anche se senza mostruose statue di angeli.
Il Dottore mi ha sentito, pensò la mente frastornata dell’uomo. Mi ha sentito e mi ha mandato qualcuno a salvarmi. Da oggi Dio comincerò a chiamarlo Dottore.
- Ti ha mandata il Dottore? – domandò. Erano circa a metà strada; si allontanavano lentamente ma con costanza dalla creatura, e fra poche decine di metri sarebbero stati immersi nella folla, salvi.
John sentì la mano della donna, già salda sulla sua spalla, che si irrigidiva. – No. Non lo vedo da tanto tempo. – Era… malinconica? – Ti ho sentito urlare e ho intravisto l’Angelo Piangente. È stato un caso. Come fai a conoscere il Dottore? – domandò.
Nonostante la situazione spaventosa e pericolosa in cui si trovavano, John non poté fare a meno di sorridere. – Ci siamo conosciuti tanto tempo fa… Anche noi per caso. –
- Che uomo straordinario, vero? – chiese la donna. John apprezzò il tentativo che stava facendo per distrarlo dalla paura.
– Sì. Buffo e bizzarro e vestito come un nonno, ma sì, incredibile. E ancora più incredibile era la sua cabina telefonica… voglio dire, la sua macchina del tempo. Roba che ti sconvolge una vita intera, una cabina telefonica che all’interno era praticamente… infinita. Mi ci persi per trovare un barattolo di gelatina posseduto da nientedimeno che Elvis in persona – rise.
Sentì la donna trattenere bruscamente il fiato, e contemporaneamente un uomo corpulento li travolse.
- Ehi! Fate attenzione  a dove andate– li rimproverò.
John lo ignorò. Si sentiva rinato. Batté le palpebre più volte per scacciare il bruciore che gli aveva causato lo sguardo fisso e sorrise, tremante di sollievo. La gente lo circondava da tutte le parti, senza tracce di statue di angeli in vista, e lui era salvo.
Rise. E rise sempre più forte, mettendosi a correre, le braccia larghe, perché era salvo, avrebbe potuto rivedere Yoko. Le ginocchia gli tremavano e aveva l’impressione che avrebbe sognato l’Angelo Piangente non appena avesse richiuso le palpebre, ma si era salvato, era vivo.
Tornò indietro, sempre correndo, ignorando gli sguardi straniti della gente. La donna aveva fatto solo qualche passo, e John era ansioso di guardare in volto la sua salvatrice. Mentre correva  poté vedere che aveva un caschetto di capelli rossi e lo guardava dritto in faccia, le mani premute sulla bocca, gli occhi sbarrati.
Io conosco quegli occhi.
Occhi grandi, verdi, pieni di vita, nonostante il volto che li circondava fosse solcato dalle rughe.
John si fermò, mentre la consapevolezza lo investiva come un treno in corsa e lo shock quasi lo faceva cadere.
Cadere di nuovo davanti a lei… no no.
- Amy – sussurrò incredulo.
La donna avanzò e John, guardandola, ne fu certissimo. Era invecchiata, molto di più rispetto a lui – effetti collaterali dei viaggi nel tempo? – ma era sempre lei, Amy. Non credeva che l’avrebbe mai più rivista, lei e il Dottore l’avevano detto, è molto improbabile che ci rivedremo ancora, perché noi viaggiamo tanto… eppure eccola là.
- John – disse lei, sorridendo. – Che bello rivederti. –
Si riabbracciarono dopo anni.
 
 
Ancora increduli di essersi rincontrati, andarono a Central Park e si sedettero su una panchina, raccontandosi tutto delle rispettive vite. John le parlò dei Beatles, del successo incredibile, inimmaginabile che avevano avuto, di come si fosse ispirato un po’ al Dottore e un po’ a se stesso mentre scriveva Nowhere Man, di come non avesse smesso di sorridere un attimo mentre componevano e poi incidevano Yellow Submarine, di come avesse ceduto la sua The fool in the box a Paul, che l’aveva trasformata in The fool on the hill perché “per la musicalità che hai in mente tu box non va bene, John” e lui aveva accettato perché in fondo sapeva che la canzone si sarebbe chiamata davvero The fool on the hill, il Dottore gliel’aveva anticipato. E le parlò di Yoko, di quanto la amasse, e poi la sua voce si scurì e il suo volto si rabbuiò quando passò alla separazione dei Beatles. Concluse raccontandole di come si stesse impegnando per protestare contro la guerra nel Vietnam e coinvolgere tutti, soprattutto i ragazzi, in questa sua lotta pacifica. John si sentiva come se avesse rivisto una grande amica di vecchia data, non una ragazza con cui ci aveva provato e che aveva visto per pochi giorni.
- Sì, so bene cosa stai facendo, John – annuì Amy. – E ti ammiro tantissimo, sono degli ideali stupendi. Prima ho detto che il Dottore era un uomo straordinario… ma anche tu lo sei, perché combatti contro la guerra senza però voler fare del male a nessuno. Proprio come fa lui. – Il volto di Amy si era addolcito di molto. – Sono sicura che lui sarebbe d’accordo con me. -
John sorrise, mentre quei complimenti sinceri gli scaldavano il cuore. Non gli capitava tutti i giorni di essere paragonato a un alieno millenario e salvatore di molteplici razze e pianeti.
- Faccio il meglio che posso, nel mio piccolo – si schermì.
- Oh, e lo fai alla grande – gli assicurò Amy.
Risero insieme.
- Come mai non mi hai cercato, se sapevi che ero a New York? - domandò John.
Lei si strinse nelle spalle. - Hai una vita tua, una moglie, una protesta pacifica da portare avanti, infiniti pensieri per la testa... Non so, non volevo intromettermi di nuovo nella tua vita e sconvolgerla ancora. E poi, non sapevo neanche se ti ricordassi di me. - 
- La ragazza del futuro che ho incontrato in una cabina più grande all'interno insieme a un alieno? Certo, facilmente dimenticabile - replicò John, facendo ridere Amy.
A quel punto, John la incoraggiò a raccontargli cosa fosse successo dopo che erano andati via dal 1963.
- Oh, molte cose – rispose lei.
E iniziò a raccontare.
 
 
Sembrava che ogni volta che parlasse con Amy Pond la sua vita dovesse essere sconvolta.
John camminava per strada, mentre pensava e ripensava alle cose incredibili che gli aveva detto Amy. La testa gli girava per la mole di informazioni strabilianti. Rory – e non Cory -, la Pandorica, il Silenzio, la gravidanza, River Song che era sua figlia Melody, linee temporali opposte, la finta morte del Dottore, Amy che era diventata sua suocera… Dio, Amy era suocera del Dottore. “Eri troppo giovane e carina per essere una suocera” aveva decretato John, facendo ridere Amy di cuore.
John rabbrividì quando ripensò alla fine del racconto: Amy e suo marito che erano stati costretti a separarsi dal Dottore per colpa di quelle creature orribili… gli Angeli Piangenti. E finalmente aveva capito perché Amy sembrava così vecchia rispetto a lui: perché si era lasciata prendere da un Angelo che l’aveva spedita indietro negli anni 40.
- Non avrei mai potuto abbandonare Rory - aveva detto Amy, come se stesse sottolineando un’assoluta ovvietà. - Così mi sono lasciata toccare. -
John aveva profondamente ammirato il suo coraggio.
- E da allora non hai più visto il Dottore? - aveva domandato.
- No. - Aveva stretto le labbra.  - Spero davvero che abbia trovato qualcun altro. Lui… non può stare da solo, John. -
- Nessuno può stare da solo per secoli - aveva concordato lui.
I due si erano separati con due promesse.
La prima: si sarebbero dovuti rivedere. Entrambi volevano presentare all’altro l’amore della propria vita.
La seconda: se avessero visto volare nei cieli di New York una cabina blu avrebbero immediatamente dovuto avvertire l’altro. Qualunque cosa avessero fatto in quel momento avrebbero dovuto interrompersi e andare a chiamare l’altro a squarciagola, correndo, correndo come aveva sempre fatto il Dottore, il loro folle nella cabina.




 
ANGOLO AUTRICE:
Buonsalve a tutti! Questo è il primo esperimento che pubblico che coinvolge Doctor Who. Fin da quando ho iniziato a vederlo sono incominciati a sbocciarmi nella mente le più svariate idee riguardanti i crossover con altri fandom (DW, oltre a essere un telefilm meraviglioso, è una manna dal cielo per chi li ama)  e il primo l'ho realizzato con i Beatles e in particolare un povero John Lennon. Un paio di cose: so che Yellow Submarine è interamente di Paul, ma ho immaginato che fosse un 50 e 50 tra lui e John - così come ovviamente The fool on the hill non ha queste origini. Ho modificato un po' quel che è la reale storia dei Beatles per adattarla a questa storia. Personalmente, adoro l'idea di John Lennon e il Dottore che si incontrano: due degli uomini che amo di più :') All'inizio sarebbero dovuti essere Ten e Rose, perché quando scrivo di Doctor Who istintivamente scrivo con loro due che per me sono IL Dottore e LA companion e insieme sono il fangirlamento e la perfezione, ma poi è come se la fic ha preso il controllo e ho scritto di Eleven e Amy. (che d'altronde, i miei preferiti sono sì Ten e Rose, ma in realtà amo tutti i Dottori e tutte le companions).
Ok, dopo tutto questo spero che la OS vi sia piaciuta. Ho come l'impressione che dovevo dire qualcos'altro, ma vabbè lol. Alla prossima!
   
 
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