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Autore: wilderthanthewind    14/08/2014    1 recensioni
Tra i banchi della Edgemont High School tante sono le cotte che sbocciano, i sogni che si distruggono, le passioni che si coltivano, le storie che iniziano e che finiscono.
Una storia di certo inizia.
È quella di Denise McCoy, una ragazza muta, e Ashton Irwin, il ragazzo che ritroverà tutte le sue parole.
La loro storia è scritta su pezzi di carta, ma chi non sa del resto che la carta è così fragile?
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Prologo
 
 

«Sono a casa!» esclamò una voce non troppo decisa, quasi annoiata, ma alta: sebbene più ovattata tra i muri e i corridoi della casa, raggiunse ogni stanza.

La donna spinse la porta affinché si chiudesse in fretta, e lasciò uno sbuffo fuoriuscire dalle proprie labbra. Si trascinò in cucina, appoggiando sul tavolo una bottiglia di vodka, quasi al termine, prima di ingoiarne un ultimo sorso. Sbuffò ancora, tirandosi su il top nero, che scivolava lentamente mostrando la sua pelle non più perfetta, ma abbronzata. Col passo pesante delle alte zeppe, si diresse nel salotto in cui trovò il figlioletto di appena sei anni giocare sul tappeto. O meglio, fissare qualcosa di indefinito sul tappeto.

Circondato da giocattoli più o meno vecchi, teneva tra le mani una macchinina colorata, eppure pareva distratto da qualcosa. Non spostava lo sguardo dal terrazzo la cui porta di vetro era socchiusa, e sul volto aveva dipinta un'espressione perplessa, un po' cupa.

«Dov'è tua sorella?» si lamentò la donna. Non aveva ancora raggiunto la soglia dei cinquant'anni, ma aveva l'aspetto di essersi inoltrata nella cosiddetta mezza età da ormai parecchio tempo. Non ricevette alcuna risposta e ciò la innervosì a dir poco.

«Parlo col muro?» aggiunse, alzando il tono della voce evidentemente irritata.

Ancora silenzio.

«Sveglia cretino, che cazzo stai guardando?» borbottò qualche altro insulto e si avvicinò al bambino, volgendo lo sguardo in direzione del terrazzo, per tentare di capire cosa lo attraesse così tanto.

Alla vista sobbalzò e si affrettò a raggiungere il balcone.

Denise sedeva sulla ringhiera, e aveva intenzione di spingersi giù da un momento all'altro.

La donna accorse e la tirò verso di sé più forte che poté, la trascinò in casa barcollando – l'alcool la privava di forza ed equilibrio – e la strattonò violentemente.

«Che cazzo avevi intenzione di fare, sorta di deficiente?» gridò la madre con tutto il fiato che aveva nei polmoni.

La ragazza la guardava. Non aprì bocca, non reagì alle sue offese. I suoi occhi vitrei somigliavano a quelli di una bambola: vuoti. Completamente persi nel nulla più assoluto. Inespressivi, come un ritratto malriuscito. Perennemente avvolti dalle tenebre che avevano pervaso la sua anima, tenebre che non avevano via d'uscita. Aveva effettivamente l'aspetto di una bambola nel complesso. Non secondo lo stereotipo di bambola che si tende ad immaginare con tale paragone tuttavia; non era ben curata o ben vestita, non era “perfetta come una bambola”. Ricordava più che altro quelle bambole vecchie, consunte dall'uso continuo di una bambina un po' maldestra: la scura chioma spettinata, le mani rovinate; gli abiti non le calzavano a pennello.

A rompere il silenzio che Denise aveva scelto come risposta fu il bambino che, spaventato, scoppiò in un pianto disperato.

«Cosa cazzo vuoi tu?» si voltò verso di lui. «Vai in camera tua e non rompere le palle» urlò. Il piccolo si alzò lentamente e raggiunse la propria stanza, cercando di riprendere fiato fra i frequenti singhiozzi.

«Quando ti deciderai a parlarmi, rincoglionita?» proseguì, questa volta rivolgendosi alla figlia maggiore. La strattonò ancora, e ancora. «Quando la smetterai con questo giochino di merda? Non servi a un cazzo. Tu, il tuo mutismo, e la tua fottuta depressione. Sono stufa di te bambinetta, ho provato ad aiutarti, non ne posso più» urlò. Le parole le si smorzavano in gola quando le corde vocali cedevano. Le colpì una guancia e la spinse, mentre sulla pelle candida della fanciulla si formava lentamente il segno rosso delle sue dita. Sentì la guancia avvamparsi nel dolore, ma non la infastidì minimamente.

«Vuoi capire che mi sono rotta il cazzo di spendere soldi per psicologi e stronzate varie? Smettila di fare la principessina. Da adesso si fa a modo mio. Ti iscriverò a una nuova scuola, e se sento ancora storie del genere giuro che ti ammazzo di botte» gridò tutto d'un fiato.

Le rivolse una smorfia disgustata per poi dirigersi nuovamente in cucina. Afferrò la bottiglia di vodka e lasciò uscire un urlo liberatorio nel momento in cui la gettò sul pavimento. Aprì il frigorifero, prese un'altra bottiglia e con maestria la stappò. Ne consumò assetata il primo quarto, senza neppur preoccuparsi di versare la bevanda in un bicchiere, e uscì infine di casa. Denise non batté ciglio neanche all'improvviso battito della porta.

Abituata a prendersi cura del fratello minore in assenza della madre, lo raggiunse nella sua stanza per assicurarsi che si sentisse meglio. Non poteva fare nulla per aiutarlo, per evitare che vivesse anche lui tutto questo. Non poteva salvare se stessa, come poteva salvare qualcun altro? Gli accarezzò dolcemente i capelli e lo strinse a sé con delicatezza. Gli porse un fazzoletto e la macchinina con cui stava precedentemente giocando. Lo guardò inclinando leggermente la testa e il bambino annuì, dunque la ragazza lasciò la stanza e si diresse verso la propria.

Il piccolo Joseph non aveva bisogno di futili parole: gli erano sufficienti semplici gesti per comprendere la sorella, dunque non si era mai preoccupato del suo mutismo. Dopotutto gli bastava sentirsi amato: le parole non si sarebbero rivelate utili a prescindere.

Denise si sedette alla propria scrivania ed estrasse da uno dei cassetti un piccolo quaderno accuratamente custodito, a fianco del quale era riposta la sua penna preferita. Lo aprì e lo sfogliò fino alla pagina che le occorreva con la delicatezza che si riserva ad un antico reperto, che rischia di danneggiarsi con la minima sprovvedutezza.

 

 

 

27 agosto 2013, 19.53

Caro diario,

sono ancora qui.

Ma non per molto.

Promesso.

  
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