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Autore: ManuFury    15/08/2014    8 recensioni
"Andrà tutto bene, tesoro." Mia madre tendeva a dirmelo spesso... peccato che si sbagliasse.
Pseudo Song - Fic.
Parte Prima ~ "Vivo in una gabbia di palazzi, di quelli senza fiori sui terrazzi."
Parte Seconda ~ "Vivo in una favola tragica, dove Papà è un orco."
Parte Terza ~ "Lividi che lasciano furia e umiliazione, i vicini sentono, ma alzano il volume della televisione."
Parte Quarta ~ "Non mi parlate ancora, non vi ascolto. Altre promesse false, non le sento."
(Terza Classificata al Contest: "Petali di lacrime!" indetto da DarkElf13)
(Vincitrice del Premio Speciale: "Petali di lacrime" per la storia più commovente)

(PRIMA CLASSIFICATA al Contest: "Why are you telling me lies?" indetto da Xxthe recklessxX e giudicato da gufetta1989)
(Il Professor Emil Radislav Timofeev ha vinto l'Oscar come MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA al Contest: "Oscars EFPiani" indetto da Frandra & Co.)
(Quarta Classificata al Contest: "Child!characters Contest" indetto da gnarly)
(Quarta Classificata al Contest: "Cento giorni di introspezione, fantasia e romanticismo" indetto da WahtHadHappened e vincitrice del Premio Speciale: "Miglior storia Introspettiva")
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fratres in Armis'
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[Questa storia ha vinto il Premio Speciale: "Petali di lacrime" al Contest omonimo indetto da DarkElf13, per la storia più commovente]

[Il Professor Emil Radislav Timofeev ha vinto l'Oscar come MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONSITA al Contest: "Oscars EFPiani 2015" indetto da Frandra & Co] 

[Questa storia si è classificata Settima al Contest: "Shock Me Now!" indetto da LoLLy_DeAdGirL e ha vinto il Premio Speciale "Shock", per la storia più shocccante]

[Questa storia si è classificata Quarta al Contest: "Cento giorni di introspezione, fantasia e romanticismo" indetto da WhatHadHappened e ha vinto il Premio Speciale: "Miglior storia Introspettiva"]  
 



PARTE PRIMA: Vivo in una gabbia di palazzi, di quelli senza fiori sui terrazzi
 
 
Tiro un forte calcio a un vecchio barattolo di fagioli con l’etichetta ormai tutta strappata; me lo trascino dietro da un po’, ma almeno così sto in compagnia. Il barattolo schizza in avanti, colpendo con forza il duro marciapiede, che lo deforma rendendolo più simile a un pezzo di mollica masticato e sputato piuttosto che a una latta.
Lo guardo, abbandonato contro il freddo cemento, accartocciato su se stesso come un foglio di carta.
Sospiro, mi somiglia così tanto…
Mi avvicino e lo tasto con la punta della scarpa slacciata, combattuto se portarlo fino a casa o lasciarlo lì. Dopo pochi secondi decido di abbandonarlo al suo destino come un cucciolo divenuto troppo grande e troppo impegnativo.
Lo supero con una vena di tristezza, ma ricordo che l’ultima volta che ho portato a casa qualcosa di rumoroso per giocare nel cortile, era una nacchera mezza rotta trovata nella spazzatura; avevo iniziato a giocare da nemmeno dieci minuti che la signora Larissa, che abita di fronte a noi, è uscita come una furia di casa, sbattendo la porta e mi ha sgridato per il troppo chiasso. Poi mi ha guardato, con gli occhi verdi che le si facevano grandi e le rughe sul viso che si distendevano lentamente; mi ha chiesto scusa per i suoi modi bruschi ed è tornata a chiudersi in casa.
Forse dovrei tornarci anch’io, a casa.
Alzo gli occhi al cielo sereno e azzurro chiaro, è ancora presto, mamma sicuramente lavora.
M’infilo le mani in tasca e con le dita trovo subito un piccolo buco all’interno di una di esse.
Mi avvio, sperando di avere fortuna e scoprire che mamma ha già finito, così potrebbe prepararmi la merenda come faceva un tempo e magari potremmo sederci assieme al tavolino della cucina, a parlare del più e del meno… come una volta.
Sorrido amaramente a questo pensiero che mi sembra tanto una favola di quelle che lei mi raccontava quando ero piccolo. Abbasso il viso a nascondere le lacrime che mi fanno brillare gli occhi come stelle. Non sono certo di sapere esattamente il significato della parola “amaramente”, ma l’ho sentita pronunciare diverse volte e sempre con quel pizzico di malinconia che mi fa pensare che sia una parola “triste”. Al contrario della parola “puttana”, sento pronunciare spesso anche quella, ma tutti la dicono ridendo quando parlano con mamma, quindi penso che sia una bella parola.
Chissà se anche papà la usava con lei quando stavano ancora assieme.
Sento una lacrima scendere da un occhio senza che possa fare niente per trattenerla. Me la pulisco con la manica della maglietta, in un gesto rabbioso mentre svolto l’angolo.
I bambini come me non devono piangere… mai.
 
~°°~
 
Spingo il vecchio portone a fatica, quello cigola piano mentre si apre, mi ricorda tanto il borbottare di un anziano. Davanti a me scorgo un misero cortile quadrato, dove l’erba cresce in ciuffi stentati e giallastri, tra la ghiaia grossa che ricopre il terreno. A destra, chiuso da un recinto, c’è un minuscolo orto, quello della signora Larissa. Un paio di volte ho tentato di intrufolarmi per scoprire cosa aveva piantato, ma l’anziana mi ha sgridato con voce così acuta e rabbiosa che non ho mai più tentato. A sinistra, buttati l’uno sopra l’altro, alcuni vecchi secchi di metallo, sopra i quali, pigro come un grosso serpente giallo, si arrotola una gomma d’acqua che l’anziana usa per bagnare il suo orticello.
Avanzo fino a trovarmi al centro del cortile, mi guardo attorno, piroettando sul posto: solo mura di palazzi, di quelli alti e con poche finestre e senza colori, se non il grigio del cemento e il giallo dell’erba malata. Questo posto, alle volte, mi sembra tanto una prigione.
La porta di casa è a pochi passi da me, proprio di fronte al portone ancora socchiuso, penso che siano fatti entrambi con lo stesso legno, questo perché tutti e due sono in condizioni pessime, rovinati dal troppo uso e dal clima. Ho proposto alla mamma di comprarmi delle tempere così che potessi colorare la porta, ma lei si dimentica di prendermele tutte le volte oppure svia il discorso dicendo che abbiamo pochi soldi. Ma se avessi quelle tempere, colorerei la porta di blu e ci disegnerei sopra tante stelle. Le stelle mi piacciono tanto.
Ci sono cinque scalini di pietra a separarmi dalla soglia di casa, faccio scorrere come sempre la mano lungo il corrimano mangiato dal tempo e salgo. Ricordo ancora ogni caduta da questi scalini alti e storti, quando avevo cinque anni, mi sono quasi rotto il naso; ma adesso che ne ho quasi dieci ormai li faccio a occhi chiusi.
Non arrivo al terzo scalino che la porta si spalanca, andando a sbattere con fragore contro al muro. Un uomo corpulento esce, tiene un sigaro consumato tra le labbra in parte nascoste dalla folta barba, se fosse bianca, potrei quasi scambiarlo per Babbo Natale. Scende le scale borbottando e quando mi vede, il suo sguardo scuro s’incendia.
“Via di mezzo, figlio di puttana!” Sbotta senza motivo, dandomi uno spintone così forte che la schiena urta contro il corrimano, un basso lamento di dolore mi lascia le labbra. L’uomo mi sorpassa, lasciandosi alle spalle un cattivo odore che mi fa arricciare il naso in una smorfia di disgusto, mi ricorda l’odore della medicina della mamma.
Lo guardo allontanarsi con sollievo ed entro in casa massaggiandomi una spalla, ma sorridendo, se quell’uomo sta uscendo di casa sicuramente mamma ha finito di lavorare.
Fortuna che sono abituato alle delusioni, altrimenti ancora ci resterei male a trovarla abbracciata a una persona, entrambi sdraiati sul divano del salotto, vestiti suoi e dell’uomo sono sparsi un po’ ovunque come isolati fiori colorati. Lui mi pare vecchio, abbastanza vecchio, quasi completamente calvo e con il respiro grosso come se avesse corso fino ad adesso.
Resto lì, in piedi, con gli occhi sbarrati e incollati sui loro corpi nudi e sudati, mentre si scambiano baci e carezze, mentre si muovono in gesti pigri.
Forse non dovrei guardare, so che ad alcuni degli amici di mamma non piace; uno di loro, una volta mi ha perfino tirato uno schiaffo dicendo di “farmi i cazzi miei”.
Quest’uomo, però, non l’ho mai visto a casa nostra, magari è una brava persona, anzi, il suo viso, per quel poco che riesco a intravedere, mi trasmette in qualche modo una certa simpatia.
Li vedo muoversi, gesti lenti, i corpi che si sfregano e le labbra di mia madre che si spalancano in un lamento basso e di gola, simile a quello che mi sono lasciato sfuggire io prima. Le sta facendo male, come hanno fatto male a me, devo fare qualcosa!
“Mamma?” La chiamo piano, per assicurarmi che stia bene.
L’uomo alza di scatto la testa e si volta verso di me, guardandomi sconvolto come se avesse visto uno strano animale; non riesco a vedergli gli occhi, indossa degli occhiali molto spessi e ha il viso sudato. Mamma, al contrario, resta sdraiata sul divano, stirando le braccia e passandosi le dita tra i boccoli rossi come il suo viso, questo mi fa preoccupare, forse ha la febbre.
“Tesoro.” Sussurra con voce strana e con il fiatone.
“Non mi avevi detto di avere un figlio!” Sbotta l’uomo, voltandosi verso di lei arrabbiato, ho paura che voglia picchiarla, come ogni tanto succede.
Mi fiondo in avanti e lo afferro per un braccio con entrambe le mani.
“No! Non farle male, per favore!” Imploro con gli occhi lucidi, non sempre funziona, ma non è questo il caso: l’uomo mi sorride dolce e rassicurante come non mi è mai capitato, mi scompiglia dolcemente i capelli con una mano, liberandosi dalla mia debole presa.
“Tranquillo, non le faccio niente, promesso.” Mormora.
“Andrà tutto bene, tesoro. Ora, esci, che mamma deve finire di lavorare.” Sorride a sua volta mamma, ha gli occhi scuri lucidi come la pelle, noto anche che ha una polverina bianca attorno alle narici che sembra borotalco e un liquido biancastro e quasi trasparente che le scende da un lato della bocca, mi sembra latte.
Guardo lei, guardo lui. Poi, lentamente, mi allontano.
Prima regola: mai disturbare mamma quando lavora…
 
~°°~
 
Siedo sugli scalini di casa, il viso abbassato e gli occhi fissi sulla punta delle scarpe consumate: un tempo erano verdi, il mio colore preferito, ma ora sembrano quasi grigie; sono sporche di terriccio, dovrei pulirle visto che sono le uniche scarpe che ho, ma in questo momento non ne ho voglia.
La porta alle mie spalle si apre e poi si richiude. Sento dei passi, poi, inaspettatamente, qualcuno si siede vicino a me: è l’uomo che prima stava con mamma, quello gentile che non ci ha picchiato.
Mi sorride.
“Ehi giovanotto. – Fa una pausa, guardandosi le mani. – Ascolta, mi… mi dispiace per quello che è successo… prima.” Balbetta, mi ricorda la mamma quando beve la sua medicina, “vodka” mi pare che si chiami così.
“E per cosa?” Chiedo ingenuamente, non capisco quale sia il suo problema.
“Beh… per prima.” Ripete in imbarazzo, vedo le sue guance colorarsi per un attimo di rosso.
“Non credo di capire. Non hai picchiato né me né la mamma e non hai rubato in casa come qualche volta succede. Non c’è niente per cui tu debba chiedere scusa, no?” Questa volta sono io a sorridergli per rassicurarlo. L’ho detto che era una brava persona. Mamma dice che ho sempre avuto il dono di capire le persone così a pelle: riesco a distinguere le persone buone da quelle cattive.
Lui anche sorride, forse veramente sollevato dalle mie parole.
“Com’è che ti chiami, campione? Io sono Emil. Professor Emil R. Timofeev.” Mi tende la mano: è grossa ma liscia, non la mano di un lavoratore piena di calli. Con quel gesto noto anche che non porta nessun anello al dito.
“Tesoro.” Rispondo solo, alzando le spalle, non dovrei dargli confidenza, mamma me lo dice sempre di non parlare con gli uomini che frequentano casa, però… lui mi pare così diverso. E intendo un “diverso” in senso positivo.
“Tesoro? Ma non è un nome vero.” Alza un sopracciglio in un’espressione buffa che mi fa quasi ridere.
“Beh, è così che mamma mi chiama. Sempre. Da quando ho memoria. – Lo guardo un attimo, il suo viso, la sua mano senza anello. – Sei una persona molto sola, vero?” Cerco di usare un certo tatto nel porre quella domanda, non a tutti piace parlarne.
Emil alza di nuovo un sopracciglio, in quell’espressione divertente.
“Perché me lo chiedi?”
“Tutti gli uomini che vengono da mamma sono persone sole, che non hanno nessuno che li aspetta a casa. Mamma fa loro compagnia.” Sorrido. Lui scrolla le spalle e si tormenta le mani, mi sembra indeciso come un bimbo che non sa scegliere con quale giocattolo divertirsi, io non ho di questi problemi, ne ho solo cinque e li adoro tutti.
“In effetti, non ho famiglia. Ho solo il mio lavoro. – Confessa dopo qualche istante, sorridendo amaramente e solo ora, a vederlo, credo di comprendere bene il significato di questa parola. – E tu, invece? Hai qualche amico?”
Scuoto la testa.
“Io ho solo la mamma e nessun altro, papà se n’è andato quando non ero ancora nato. C’è la signora Larissa che abita qui di fronte. – Indico la finestra dalla quale sbircia ogni tanto. – Ma di solito non ci parliamo, si limita a sgridarmi per qualsiasi cosa. Ogni tanto viene una collega di mamma a casa, ha un figlio anche lei, però è molto più piccolo di me. Che lavoro fai?” La curiosità è un mio grande difetto o almeno così dice sempre la mamma.
“Astronomo. – La mia espressione si fa stupita. Astroche? Lui pare accorgersene, sorride. – Studio le stelle. Ho passato la mia vita a osservarle, a cercare di capirle, a catalogarle e non ho mai pensato di farmi una famiglia.”
“A me piacciono le stelle.” Confesso a mia volta, sorridendogli. Lui mi guarda e mi sorride, con quel suo sorriso caldo che non mi hanno quasi mai rivolto. Adesso che è vicino riesco a vedere i suoi occhi oltre le lenti spesse degli occhiali: sono azzurri, proprio come i miei.
“Guarda. – Alza un dito, oltre la gabbia di palazzi che ci circonda e lo punta verso lo spicchio di cielo che possiamo scorgere. L’azzurro si è scurito fino a diventare un blu ancora sbiadito, sul quale, però, brillano come tanti diamanti un sacco di stelle. Mi piacciono, ma non ho mai alzato il naso per guardarle, mi hanno sempre detto di restare con i piedi a terra. – Vuoi che ti parli di loro, campione?” Mi propone Emil, come se non aspettasse altro che potermi chiedere quella cosa.
“Oh, sì, sì, sì, sì!” Lo prego, con gli occhi già grandi e pieni di meraviglia.
Emil ridacchia di gusto e inizia a parlare. Mi racconta storie fantastiche, miti e leggende, mi spiega come riconoscere una stella da un’altra, come trovare il nord. E mi confessa che ci sono tante stelle non ancora scoperte, che non hanno un nome vero. Questa rivelazione mi fa pensare: se anche le stelle non hanno un nome, sono un po’ come me, solitarie e lontane, che brillano come i miei occhi quando piango.
Lo dice anche lui, sostiene che quelle sono stelle speciali che proteggono come guardiane i bambini soli, impedendo che accada loro qualcosa di male. Sono affascinato da questa scoperta e scruto il cielo alla ricerca di una stella solitaria, la mia stella solitaria. Ce ne sono talmente tante che non sono certo di saperla riconoscere, ma sono certo che è quella che brilla più di tutte.
Il tempo vola così come la mia fantasia, inseguendo le storie fantastiche che Emil mi racconta e per un attimo mi sembra quasi di vivere in uno di questi racconti e non vorrei uscirne mai; ma come ogni favola anche questa ha una fine.
L’uomo si alza, dicendomi che è tardi e che deve andare. Mi scompiglia di nuovo affettuosamente i capelli e si avvia.
Lo guardo allontanarsi e già mi sento perso: non ho mai conosciuto nessuno come lui, la maggior parte degli uomini che vengono a casa non mi calcolano, i più mi spintonano via, lui è stato uno dei pochi che mi ha rivolto la parola, che ha scherzato con me, che mi ha tenuto compagnia, come mamma fa con quei signori.
È stato l’unico che mi ha raccontato delle stelle.
Mi alzo di scatto e porto le mani a coppa attorno alla bocca, per amplificare la voce visto che Emil è già quasi al portone.
“Emil! – Lo chiamo e lui si volta verso di me. – Tornerai a trovarmi?”
“Certo!” Mi risponde, portandosi a sua volta le mani alla bocca e sorridendomi.
Sorrido anch’io e aspetto di vederlo sparire oltre al portone prima di entrare in casa.
Fortuna che sono abituato alle delusioni…
 
 
***
 
HOLA! ^_^
 
Sono sbarcata anche sul Genere Drammatico, perché mi sembrava il più adatto per la storia che ho deciso di trattare, in caso contrario, fatemelo sapere, mi raccomando. ^^’’
Beh, che posso dire?
È stato un parto creare questa Mini – Long, eppure sono fiera di averlo fatto; secondo me tratta di argomenti che non vengono sufficientemente conosciuti dalla masse, ma che restano nel dimenticatoio.
Il bambino qui descritto compare, da adulto, in altre mie storie. Lo stile può sembrare un po' noioso e ripetitivo per il semplice fatto che un bambino di nemmeno dieci anni non ha un vocabolario vasto come il nostro e quindi per lui può risultare normale dire sempre le stesse parole, ripetere sempre gli stessi termini.
I titoletti delle parti sono presi dalla canzone: “Fino in Fondo” degli Articolo 31, che vi consiglio caldamente di ascoltare perché è S-T-U-P-E-N-D-A!
Oltre a questo, la storia partecipa a diversi Contest e Challenge, giusto per non farsi mancare niente! XD
  • Partecipa al Contest: “Petali di lacrime!” indetto da DarkElf13 (3° Classificata)
  • Partecipa al Contest: “Why are you telling me lies” indetto da Xxthe recklessxX e giudicato poi da gufetta1989 (1° CLASSIFICATA!)
  • Partecipa al Contest: “Lacrime.” indetto da Syria_ e giudicato poi da _juliet (8° Classificata a pari merito con Starem) 
  • Partecipa al Contest: "My beloved one" indetto originarialmente da DallasEfp e poi autogestito da noi partecipanti
  • Partecipa al Contest: "Child!characters Contest" indetto da gnarly (4° Classificata)
  • E per ultimo, ma non meno importante… Partecipa alla Challenge: “La sfida dei duecento prompt” indetta da msp17 con il prompt 126) Stelle.
 
Fatto, ho detto tutto e ringraziato tutti, se avete tempo e voglia, donate l’8% del vostro tempo per commentare, mi fareste felice! ^_^
Grazie mille e ci vediamo tra qualche giorno, per il prossimo capitolo! ;)
A presto,
ByeBye
 
ManuFury! ^_^
  
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