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Autore: Egomet    14/09/2008    3 recensioni
Marco è un assassino. Non conosce nè rimorso nè pentimento, forse per il semplice fatto che non gliel'hanno mai insegnati. Ma a volte le cose più semplici diventano straordinarie e insegnano le cose più importanti.
Genere: Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Marco aveva capelli neri, neri come la pece e sporchi più di una padella incrostata. Se li scostò dalla fronte sudata mentre camminava per le vie cittadine. Aveva un maglione nero, e dei pantaloni neri; e più sotto, indovinate… delle scarpe nere.
La barba cresciuta gli dava un’aria da vecchio saggio.
Ma Marco era tutt’altro che saggio. Non aveva finito la scuola, a diciassette anni aveva mollato per aiutare il padre a lavorare.
Suo padre faceva il macellaio. E aveva insegnato al figlio come maneggiare alla perfezione coltellacci e arnesi vari.
Avrebbe potuto usarli come un’acrobata, lanciarli in aria e riprenderli al volo.
Una volta l’aveva pure fatto, per divertire un ragazzino entrato in macelleria con la madre.
Insomma, non è che stesse proprio a due palmi da lui, e non è che ci fosse chissà quale pericolo, ma la madre del ragazzino, appena visto, lo aveva trascinato via.
-Guai a te se dai confidenza un’altra volta a quello straccione!-
 
Straccione. Straccione a lui?
Marco aveva stretto gli occhi marroni e il coltello nella mano.
Suo padre aveva fatto finta di niente.
Solo una pacca sulla spalla e un
-Forza, torna a lavoro, Marcolì-
Lui aveva ripreso a tagliare quel lardo con maggiore foga.
 
Due anni dopo si era stufato di non combinare nulla. Era scappato con certi amici.
Erano andati in giro per un po’, a vivere nell’appartamento di uno di loro.
Lì aveva scoperto il vizio della droga. E si faceva di tutto.
Poi un giorno era arrivato un bel tipo, fra quegli amici.
Non poteva avere più di trent’anni.
Marco ricordava ancora il suo nome. Vincenzo. E poi un cognome strano.
Si vedeva che era diverso da loro. Aveva l’aria da figlio di papà.
E a lui non era mai piaciuto.
Tirava fuori dalle tasche di quel suo giubbotto griffato di tutto, dai soldi, alla coca, all’erba. Aveva tutto quello che a loro mancava.
Una volta non aveva abbastanza soldi per comprarsene, Marco.
Vincenzo non voleva prestargliene, di roba.
-Niente soldi, niente erba-
Marco non ne aveva, e non ne avrebbe avuti. Però una cosa la aveva.
Aveva un coltellino piccolo, un regalo di qualche compleanno fa.
Avevano cominciato a litigare, poi uno schiaffo, un pugno, un altro pugno e un calcio.
Poi il coltellino nel collo del figlio di papà.
Marco era rimasto interdetto mentre il ragazzo stramazzava a terra, col sangue che gli colava giù per i vestiti.
-Ti prego…aiutami…- era riuscito a dire l’altro, mentre piano piano perdeva colorito.
Il sangue era sempre più copioso, Marco fece due passi indietro, poi guardò il coltellino che aveva in mano.
Era anche quello sporco di rosso.
Spaventato, lo gettò immediatamente a terra.
Però fu solo un attimo, un secondo dopo era tornata alla carica la rabbia. Con una smorfia rabbiosa sul volto si chinò all’altezza del ferito.
-Crepa, bastardo-
Gli piantò il coltello nel petto.
Vincenzo sgranò gli occhi, sussultando. Emise un sospiro prima di esalare l’ultimo fiato.
Marco lasciò il coltello ben piantato nel petto dell’ormai cadavere.
 
Non c’era nessuno a casa loro quel giorno. Erano soli. Passeggiò un po’ per la stanza, poi andò in bagno a ripulirsi le scarpe sporche di sangue.
Mentre lo faceva si sentiva stranamente sollevato. Non era preso dai sensi di colpa. Che male c’era, gli voleva male e ora l’aveva fatto. Ora non gli avrebbe più dato fastidio.
Un sorriso strano, stranissimo, non di felicità, gli salì alle labbra.
Strinse il pugno con cui l’aveva colpito.
Nessuno lo avrebbe mai più chiamato straccione. Nessuno gli sarebbe mai più passato sopra. Nessuno lo avrebbe più considerato uno scarto.
Neanche suo padre.
Era cominciato con un coltellino da dieci cm.
All’improvviso, come dal nulla, gli venne un’improvvisa ed insana voglia di ridere. Gettò il capo all’indietro e si fece una bella risata.
Una risata priva di allegria.
Si sentiva bene.
Per una volta nessuno lo avrebbe rimproverato di non aver fatto la cosa giusta.
Si sentiva forte.
 
Qualche mese dopo, ricomparso nella sua città natale, era tornato a casa.
Stavolta aveva in giacca un coltello grande quattro dita.
La mamma era morta. Suo padre continuava il suo buon lavoro, sempre con umiltà e operoso. Fu felicissimo di rivedere il figlio.
Marco si infilò la mano sotto la giacca, tenendo salda la presa sul manico del coltello.
Guardava il padre, non sorrideva.
Lui gli venne incontro, a braccia aperte.
Biascicò qualcosa tipo ‘ben tornato’.
Lo abbracciò.
All’improvviso il macellaio sgranò gli occhi.
Non lasciò la presa sul corpo del figlio.
La giacca di Marco si fece più rossa.
Suo padre quasi gli cadde addosso.
Marco, come se nulla fosse, lo spinse contro il bancone del negozietto.
Un coltello da quattro dita giaceva conficcato nel petto dell’uomo.
Tranquillissimo, lui lo estrasse e poi lo gettò a terra.
Si guardò intorno. Quante volte aveva lavorato in quello stupido negozietto.
Il cadavere dell’uomo cadde a terra con un tonfo.
Ma nessuno se ne accorse, era orario di chiusura.
Marco sfilò le chiavi dal grembiule del padre, lo oltrepassò e chiuse il negozio, abbassò la saracinesca.
Poi si voltò, respirando forte verso il resto del negozio. Quante volte si era sentito terribilmente inutile e di peso in quel luogo.
Fu preso da una rabbia incontrollabile, afferrò nuovamente il coltello e iniziò a fare a pezzi tutto quello che gli capitava. Sfasciò la merce, rovesciò la cassa, prese tutto il suo contenuto, se lo ficcò in tasca, spaccò i vetri, gettò a terra le carni pronte per essere vendute.
Una volta finito, prima di andarsene, afferrò ancora una volta il coltello.
-Mi dispiace-
Andò verso il padre e piano piano gli mozzò la testa. Quella rotolò a terra, in una nuova pozza di sangue.
Aveva continuato con un coltello da quattro dita.
 
Quella sera camminava veloce nella notte. Era troppo facile anche per lui.
Si era fatto più alto, più grosso, più cattivo.
Aveva ben nascosto in una valigetta un coltello da macellaio.
Di quelli grandi.
E ora avanzava nella notte, oltrepassando persone sconosciute senza vederle nemmeno.
Era come se fosse fuori dal mondo. Era eccitato, non vedeva l’ora.
Un paio di adolescenti ridevano tenendosi l’una all’altra per chissà quale scemenza. Lo incrociarono e lo guardarono meglio.
Un secondo dopo non ridevano più, ma lo fissavano spaventate.
Vestito di nero, nella notte nera, con gli occhi scavati e mezzo drogato.
Arrivò alla casa scelta.
Aggirò il cortile del condominio.
Le scale di servizio lo aspettavano invitanti.
Le salì fino alla metà e sfondò la porta a furia di calci e spallate.
Poi si diresse prepotentemente verso la finestra del corridoio. La aprì e scivolò sul cornicione.
Cautamente camminò tenendosi attaccato al muro finchè non arrivò alla finestra che cercava.
Sapeva già cosa l’aspettava all’interno.
Spaccò la finestra con un pugno e fu dentro un bagno.
Dall’altra parte della porta chiusa sentiva voci di una donna e di un uomo.
I passi si avvicinavano alla sua porta; pronto, si nascose dietro.
Un uomo entrò nel bagno, oltrepassò la porta e guardò sbalordito i vetri caduti a terra.
Marco gli afferrò immediatamente il collo, gli tappò la bocca e gli conficcò il coltellaccio nella schiena, chiudendo gli occhi.
Non lo lasciò andare finchè non sentì più il respiro soffocato dell’uomo spegnersi sotto la sua mano.
Allora lo posò a terra e ne scavalcò il corpo.
-Antonio? Antonio?- una voce di donna raggiunse le sue orecchie.
Prese immediatamente in mano il coltello, aspettò che arrivasse sulla soglia della porta, e non appena la signora vide il cadavere del marito, la afferrò come prima aveva fatto con l’uomo.
-Dove sono i soldi?- chiese.
La donna, soffocata dalle lacrime e dal dolore, scosse la testa.
 
Marco sentì crescere la rabbia, fu preso da uno scatto e fece fuori anche la donna. In silenzio come il marito, quella esalò l’ultimo respiro.
Anche lei venne lasciata cadere a terra.
Poi, freneticamente, il ragazzo attraversò la casa, il salotto fino ad arrivare in camera da letto. Scostò le coperte, aprì l’armadio, stracciò vestiti e trovò alla fine il portafoglio del marito.
Soddisfatto racimolò tutto, poi se lo infilò in tasca.
Era sulla soglia della porta quando un rumore lo fece voltare.
Gli sembrò di aver udito un suono.
Accigliato, uscì dalla stanza dei coniugi e scoprì una nuova camera. All’interno c’era uno stereo che diffondeva per la casa una musica.
Credeva si trattasse di ‘Per Elisa’ dato che aveva letto il titolo. La musica non gli era mai piaciuta.
Strano che non se ne fosse accorto prima.
Le magiche note di Beethoven riempivano la stanza, ma non era quello il rumore che Marco aveva sentito prima.
Entrò di più nella stanza e notò solo allora qualcosa che prima, nascosta dal buio, non aveva potuto vedere.
 
 
C’era una culla, una culla in legno, posta sotto la finestra. Incuriosito Marco si avvicinò.
I suoi occhi incavati e ormai abituati a vedere al buio gli permisero di distinguere al suo interno una piccola figura.
Si chinò quasi sulla culla, scrutandone l’interno.
Un piccolo fagotto rannicchiato su se stesso dormiva placido all’interno.
Marco rimase immobile, sopra la culla.
Il bambino aveva gli occhi chiusi, pochi capelli e una faccia paffuta. La manina destra era quasi in bocca, mentre la sinistra era gettata a lato.
Indossava un vestitino rosa.
Forse a questo punto si poteva dedurre che fosse una bambina.
La bambina, come se fosse stata chiamata in causa, si mosse un poco.
Storse il nasino in un buffo gesto e aprì le dita della mano destra.
Marco non si mosse, in attesa della mossa della bimba.
Questa aprì gli occhi piano piano, poi li richiuse e li aprì di nuovo.
Alla fine si decise e li aprì del tutto, spalancandoli al mondo. Aveva gli occhi grandi e non di un colore definito, come sono i primi mesi dopo la nascita.
Sbadigliò silenziosamente, poi i suoi occhioni furono catturati dalla figura che stava sopra di lei.
Anche la musica del piano parve fermarsi.
Marco ebbe un sussulto, si dimenticò chi era e cosa stava facendo.
Fissò con curiosità la bambina, e lei altrettanto curiosamente lo ricambiò.
Stettero a fissarsi per un po’, poi la bambina storse il naso, spalancò la bocca e starnutì.
Fece un buffo rumore, seguito da altri tre starnuti. Marco sobbalzò, ma non si ritrasse dalla culla. Sembrava incantato.
Per un momento gli sembrò di non aver mai visto niente di più bello al mondo. Non aveva mai visto bambini così piccoli. Eppure, qualcosa in quella piccola e indifesa figura, lo affascinava. Non ricordava che gli avessero mai detto che potessero esistere creature così belle.
 
Un secondo dopo sentì qualcosa sfiorargli il fianco.
Abbassò lo sguardo e vide il coltellaccio stretto nella sua mano destra. Lo alzò e così lo espose alla visuale della culla.
La bambina notò l’accessorio del ragazzo.
Lo fissò per un po’, poi storse il naso in una smorfia.
‘Nghè’.
Proruppe in un singhiozzo, seguito da un altro e un altro ancora.
Iniziò a piangere senza lacrime. Forse voleva la sua mamma, forse voleva essere presa in braccio dal papà.
Nessuno dei due, non per loro volontà, avrebbe mai più potuto vedere il volto della loro bambina.
I singhiozzi continuavano.
Marco iniziò a stancarsi.
Poi guardò l’arma che aveva in mano.
Alzò il coltello, nervoso.
La musica si fermò.
La bimba smise di piangere.
 
Fu un secondo di tempo, quello che ebbe per decidere, ma mentre lo faceva la piccola fece un sorriso bellissimo. Un sorriso da bambino.
Marco si pietrificò col coltello sopra la spalla, pronto a colpire.
Guardò la bimba che sorrideva.
Da quanto tempo era che lui non sorrideva? Da quanto tempo era che non aveva quell’espressione felice sul viso?
Avrebbe potuto provare rancore. Avrebbe potuto essere geloso. Eppure dentro di sé sentiva che infondo era sbagliato farlo.
Ma non sapeva perché. La bimba fece un buffo verso di contentezza.
Qualcosa scattò nella sua mente.
 
Il coltello gli cadde di mano con un tonfo e finì a terra.
Beethoven riprese a suonare.
Marco si guardò le mani come se le vedesse per la prima volta.
Scosse la testa, poi guardò la bimba che ancora sorrideva.
Fu preso da un irrefrenabile impulso.
Si gettò a terra in ginocchio e senza che lo avesse pianificato, iniziò a piangere.
Si coprì il volto con le mani, mentre le lacrime gli scorrevano sul volto. Pianse, pianse e singhiozzò, scosso da brividi mai conosciuti.
Si sentiva malissimo, un verme, un rifiuto. Lacrime di pentimento gocciolarono sul pavimento, ai piedi della culla.
Si gettò a terra, si prostrò come se fosse stata la statua di una divinità.
Scosse la testa, cercò di trattenersi, ma non ci riuscì affatto.
Ancora lacrime e singhiozzi. Poi spostò lo sguardo a destra, e vide il suo coltello.
Il pensiero di quello che stava per fare con quel coltello lo assalì e fu scosso da altre lacrime.
Afferrò quel coltello.
Poi si rimise in piedi, tornando a guardare la bambina.
Lei gli sorrise.
Marco, preso da una gioia che non aveva mai provato, sorrise a sua volta.
Ora non piangeva più.
Un sorriso fu l’ultima cosa che ricordò, prima di cadere a terra.
Piantato nel suo petto c’era adesso un coltellaccio da macellaio.
 
 
 
 
 
 
I bambini. Tanti piccoli poveri innocenti vittime di soprusi.
Di violenze, di aborti. Di rifiuti, di maltrattamenti. Di mancanza di mancanza di affetto, di conforto, di coraggio. Mancanza di una mamma accanto. Mancanza di amore.
Si può essere assassini a tutte le età, ma come si può uccidere una creatura così indifesa? A volte non sembra affatto vero che l’uomo si distingua dalle bestie, se ha il coraggio di uccidere o far del male al dono più bello che Dio può fare ad una famiglia.
  
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